Le Vourdalak
Terzo adattamento del racconto vampiresco di Aleksej Tolstoj, tra artigianalità, rilettura contemporanea e tensione per il fuori-campo.
All’origine c’è il racconto La Famille du Vourdalak di Aleksej Konstantinovič Tolstoj, già trasposto al cinema - curiosamente, sempre da italiani - nel 1963 da Mario Bava con I Wurdalak (episodio di I tre volti della paura, quello con Boris Karloff) e nel 1972 da Giorgio Ferroni con La notte dei diavoli, che l’esordiente Adrien Beau riadatta con minime ma significative variazioni.
Sperduto in un punto imprecisato dei Balcani dopo essere stato assalito da un gruppo di banditi, un emissario del Re di Francia trova riparo e ospitalità presso una bizzarra famiglia di contadini guidata da un vecchio patriarca che, di ritorno da una battaglia contro i Turchi per difendere i confini della propria regione, nel frattempo si è trasformato in un vourdalak, ovvero il vampiro della tradizione est europea. Se Bava aveva affrontato l’esilità della traccia narrativa optando per la formula del cortometraggio e Ferroni per quella del riadattamento in chiave moderna (la Jugoslavia degli anni Settanta), al contrario Beau diluisce volontariamente lo scandire degli eventi lavorando sugli opposti: da un lato la ricercatezza formale e l’artigianalità della scelta di un cinemascope in 16mm, con la creatura del titolo che si rivela un pupazzo animato da una mano al suo interno, dall’altro un aggiornamento in chiave contemporanea delle tematiche del racconto, con l’inserimento di un personaggio queer e di una figura femminile in cerca di emancipazione da un futuro già scritto.
A fare le spese di queste scelte però non è soltanto il ritmo – altalenante e persino lievemente soporifero, ma anche il senso stesso dell’operazione nel suo insieme: freddo e calcolato nella sua rigida struttura a tesi (il vecchio capofamiglia come il “nemico” conservatore da superare e sconfiggere), Le Vourdalak finisce per aggiungere poco o nulla al tema della lotta contro il patriarcato, che qui sembra inserito un tanto al chilo più per strizzare l’occhio al contemporaneo che non per una reale urgenza dialettica.
Più interessante, piuttosto, è l’altro film: quello nascosto nel fuoricampo, nelle parole (scritte o pronunciate), nella fusione azzardata tra passato e presente, e che purtroppo sembra emergere soltanto a tratti, come se Beau avesse avuto il timore di spingere le sue immagini troppo in avanti. Lo avvertiamo nel tentativo di riscrittura del classico, da sempre e per sempre un patrimonio immortale di pensieri e idee in grado di parlare di qualsiasi epoca (quindi anche la nostra), dove personaggi troppo grandi per il loro tempo non possono che essere proiettati lontano, fuori. Fuori dall’immagine, fuori dallo schermo, come nel caso della (lunga) didascalia finale che anticipa allo spettatore il destino di uno dei personaggi principali e dove si parte da Tolstoj per arrivare a Stoker (la “minaccia” che dai confini orientali raggiunge il cuore dell’Europa) e a Le Fanu (Carmilla, il vampiro donna - e lesbica - per antonomasia).