I Molti Santi del New Jersey

di Alan Taylot

Tony Soprano rinasce per l'era dei franchise Dinsey: nostalgia, easter egg, e il promemoria di come il matrimonio tra cinema e “prestige tv” non s'abbia da fare

I Molti Santi del New Jersey recensione film Taylor

Sarebbe ora di mettersi d'accordo e stabilire l'autentico grado di parentela tra il cinema e la televisione – magari tornando a mettere in discussione l'effettiva necessità di tale incontro. Ibridi sempre più frequenti come I Molti Santi del New Jersey sembrano suggerire che, forse, i due media abbiano molto meno a che spartire di quanto si fosse inizialmente proclamato alla nascita della prestige tv (“il nuovo cinema!”, come no). Il piccolo schermo non sarà mai una duplicazione del grande: una divisione endemica continua a sussistere nel rispettivo modo di intendere le immagini, e il modo in cui comunicare attraverso di esse. Non è una questione di contenuti (non lo è mai), quanto di traduzione tra forme espressive infinitamente più distanti di quanto la superficiale matrice audiovisiva darebbe da pensare.

Poco di strano dunque che The Many Saints of Newark, provando a portare ancora una serie (La serie, in questo caso) alla prova del cinema, ottenga al contrario l'ennesimo manuale paradigmatico di tale inconciliabilità. Anziché valorizzarne i punti d'incontro, il film sintetizza piuttosto il peggio dei due mondi, palesando quelle debolezze che, strappate al rispettivo medium, risaltano in tutta la loro drammatica evidenza. Dalla televisione, il primo lungometraggio dei Soprano eredita dunque la congenita piattezza espressiva, una forma di povertà tanto visuale quanto puramente grammaticale (establishing digitale, campo-controcampo, uscita di scena) che l'incolpevole maestro HBO Alan Taylor aveva già rivelato in altre occasioni. Dall'altra parte, è lo stesso formato cinematografico a negare il respiro necessario per un racconto essenzialmente letterario quale è quello di David Chase – ridotto a qui ad un mosaico di scene che ne svilisce la vastità anziché esaltarla.

Il lost in translation produttivo tra i Soprano e I Molti Santi del New Jersey non è però solo questione di mancata libertà. Era purtroppo ben nota da tempo l'insofferenza di Chase nei confronti della sua creatura, unica opera di successo (e che successo) in carriera, da cui invano l'autore aveva provato a smarcarsi negli ultimi decenni. Da tempo, lo showrunner sembrava andato avanti, lasciando intendere nelle interviste di un progetto “del cuore” in opera: il sogno di un personale amarcord ambientato nella Newark della sua infanzia – tra le lotte del civil rights movement, tensioni etniche e le prime ondate controculturali dei sixties. Un progetto che ha trovato il via solamente attraverso l'ennesimo, sofferto compromesso: trasformandosi in prequel dell'amata/odiata serie per HBO Max, “film dei Soprano” che nessuno, né gli autori e forse nemmeno i fan, sembravano volere veramente.

E alla fine eccolo, questo debutto di Tony al cinema. Una bozzettistica giungla di volti noti (due-tre scene a testa, più una dozzina di subplot), evidentemente più figlia di riscritture e obblighi contrattuali che di qualunque forma di ispirazione: praticamente, un best of di “momenti salienti” tratto da un inesistente period drama di dieci ore. Tre le macrotrame intrecciate: l'adolescente Tony Soprano, ambizioso giocatore di football aspirante professionista, schiacciato dalle ben note turbe dei genitori in una famiglia costantemente sull'orlo dell'implosione; il gangster Dick Moltisanti, carismatico quanto agitato da esplosioni di violenza e disperazione sempre più difficili da arginare; il corriere afroamericano di Dick, Harold McBrayer, che tra un pestaggio e una sparatoria vedrà la sua esistenza intrecciarsi con le rivolte di Newark del 1967.

A salvare dall'oblio I Molti Santi del New Jersey, beffa finale, ne è proprio l'anima più strettamente, nostalgicamente Sopranos. Quella iniziata nel 1999 è alla base una saga familiare, con i suoi modelli in Bergman e Fassbinder: Goodfellas ne è al limite il riferimento estetico, e la pigrizia nell'abbracciare gli stilemi del crime tradisce la paradossale difficoltà di Chase con il genere. E' nelle scene quotidiane di Tony adolescente, di quella sciroccata di Livia (Vera Farmiga, mvp) e della caricatura di macho latino di Johnny (Joe Bernthal), che ritroviamo dunque tutte le coordinate che avrebbero definito il personaggio più complesso e indimenticabile della televisione. E' quello il film che, in un mondo ideale, avrebbe rappresentato l'unico proseguimento possibile del discorso aperto ventidue anni fa.

Tutto il resto, è pochissima cosa. La parabola autodistruttiva del personaggio-stock Moltisanti certifica l'apatia degli autori, ormai sfacciatamente in preda ad una sorta di coazione a ripetere determinati tropes del gangster movie (déjà vu inevitabili ripensando a Ritchie Aprile, Ralph Cifaretto, Tony B...). La storia di ribellione e presa di coscienza di Harold è, invece, il probabile ultimo vestigio del primissimo draft di Chase: tutto ciò che rimane del progetto originario è però un corpo estraneo al film HBO, del tutto slegato e senza sviluppo - nonché, imperdonabile, in drammatico ritardo su quanto visto e rivisto l'ultimo biennio in ambito mainstream (da The Irishman a Blackkklansman, fino Green Book, Judas and The Black Messiah, l'intero Fargo 4).

Complici anche gli sfortunati rallentamenti produttivi, I Soprano si ritrova oggi a “inseguire” i suoi stessi figli – laddove per un decennio aveva indicato l'avanguardia del mob drama, slegandolo dal poliziesco per farne letteratura “alta”. I Molti Santi accumula easter egg e strizzate d'occhio come un qualunque pilot da Dinsey+, retconna qualcosa e fila via dimenticabile come semplice appendice di un capolavoro televisivo. Capolavoro che il cinema non ha i mezzi, e forse neanche il dovere, di ampliare

Autore: Saverio Felici
Pubblicato il 20/11/2021

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