La gazza ladra

di Andrea Vassalle
La-Gazza-Ladra recensione film

Quando nel 1817 il pubblico scaligero ascoltò per la prima volta La gazza ladra di Gioacchino Rossini, fu travolto dal furore di quella musica così vivace e deflagrante. L'impeto dell'ouverture, introdotta da un rullo di tamburo che diventa poi leitmotiv e squarcia subito l'aria, aveva tutto l'incanto di una ventata di novità e di una riconciliazione. Come scrisse Stendhal, una precedente opera rossiniana come Il turco in Italia era stata fischiata alla prima anche per una presunta scarsa originalità (ingiustamente, a dire il vero), in riferimento alla tecnica dell'autoimprestito, spesso usata dal compositore pesarese, e le prime battute della sinfonia iniziale de La gazza ladra furono sufficienti per un rinnovato e fulgido entusiasmo. L'omonimo film di Robert Guédiguian muove invece da uno spirito dissimile, persino inverso. Ritroviamo infatti la sua Marsiglia, l'abituale nucleo di attori ormai collaudato (tra cui spicca Ariane Ascaride) e i temi che negli anni, film dopo film, hanno composto un cinema basato anche sulle reiterazioni, sugli echi (e ritorniamo alla pratica rossiniana dell'autoimprestito), come in un flusso raccolto, intimo, familiare. Guédiguian mette qui in scena un diverso rullo di tamburi, quello delle vite comuni, delle battaglie minute, dell'amore che unisce e resiste, in un mondo dove tutto sembra volerlo disperdere.

Il riferimento all'opera di Rossini tuttavia non è estrinseco, e non si esaurisce nel titolo (La pie voleuse in originale, che è anche il titolo del dramma francese da cui fu tratto il libretto di Giovanni Gherardini) e nell'uso dell'ouverture. La gazza ladra di Guédiguian (come spesso accade nel suo cinema) sembra piuttosto rievocare il carattere semiserio del melodramma rossiniano, quella zona liminale in cui la commedia e il dramma si toccano e si confondono. L'opera di Rossini segnava un punto estremo nell'avvicinamento e nella compenetrazione tra i generi buffo e serio, e il film del regista marsigliese abita quello stesso confine, eludendolo e facendone visione morale e politica. In quest'oscillazione tra toni il suo cinema trova la propria voce, capace di raccontare senza indulgere nel patetico o nel cinismo la realtà sociale, tratteggiando un mondo in cui l'amore e la leggerezza non cancellano la sofferenza, ma la attraversano illuminandola di umanità e lasciando emergere una speranza tenace, ostinata nella sua fragilità.

gazza ladra rec

Anche qui è il tema del furto a innescare e condurre gli eventi, sin dall'incipit, in cui vediamo dei ladri in azione in un negozio di strumenti musicali. Nel fuggire, i delinquenti causano la rottura di una tubatura: l'acqua si riversa sul pavimento, trascinando alcuni documenti che scivolano e galleggiano come blocchi di ghiaccio alla deriva. E alla deriva sembrano, inizialmente, anche i personaggi, ognuno perso nei propri ricordi, nelle difficoltà, nella solitudine. Povera gente, recita la poesia di Victor Hugo citata nel film, alla ricerca di piccole gioie, quelle che sfuggono spesso a chi è rimasto ai margini della società, ma che ancora possono accendere momenti di luce intensa. Tra di essi si muove Maria, una figura che sembra fondere in sé la gazza e Ninetta dell'opera rossiniana, e che "svolazza" tra le stanze e le vite degli altri, amica e confidente più che semplice donna di servizio. «Ella, senza doni della fortuna, colle sue fatiche qui si procaccia una meschina vita, non debb'esser per ciò da noi schernita», canta Fabrizio riferendosi a Ninetta, e sono parole che si adattano perfettamente anche al personaggio di Maria.

I piccoli furti che compie, sottraendo modeste somme agli anziani di cui si prende cura, sono posti in netta antitesi rispetto alla rapina iniziale del film, privo di ogni morale. Maria non agisce né per arricchirsi né con reale dolo, si assicura piuttosto di non arrecare un danno concreto e, soprattutto, compie le proprie rapine per amore del nipote, per garantirgli la possibilità di continuare a studiare il pianoforte. È su questa ambivalenza che il film si sviluppa, affrontando il tema della giustizia e della moralità e mostrando come un crimine possa in termini ossimorici apparire innocente, persino giusto e onesto. Il furto assume così la forma di un atto di resistenza, quasi di rivalsa sociale, rievocando un altro testo fondamentale di Victor Hugo (vero e proprio punto di riferimento del regista francese), I Miserabili.

Rispetto ad altri film di Guédiguian, in cui talvolta si percepisce un senso di costruzione più marcato, La gazza ladra rimane maggiormente sospeso sui volti dei personaggi, che diventano specchio dei loro turbamenti, delle emozioni e delle sensazioni più intime, lasciate affiorare come piccole vibrazioni. È un film che si fa, prima di tutto, racconto del desiderio e dell'amore. È l'amore in ogni sua forma a connettere e risvegliare (da quella deriva iniziale) i personaggi: l'amore per la musica, che attraversa l'intero film, l'amore per il nipote, l'amore custodito nella memoria, quello nuovo, che si manifesta in slanci amorosi operistici, o quello perduto o rimasto impossibile. La musica (non solo Rossini, ma anche Liszt e Satie) non accompagna solamente le immagini ma le abita e ne disegna il movimento, sino a fondersi con esse, come nel secondo incontro tra Laurent e Jennifer, dove le mani di lui accarezzano il viso e i capelli di lei con un tocco che sembra quasi musicale. Lo stesso ritmo del film sembra modellarsi sul crescendo rossiniano, un moto che non è solo dinamico ma anche sottile, un gesto che si arrampica e attorciglia su sé stesso. Così anche il film riprende e varia incontri e situazioni, che si rincorrono e ampliano, mentre legami e personaggi si approfondiscono e l'emozione si fa via via più densa.

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Robert Guédiguian Ariane Ascaride Jean-Pierre Darroussin Gérard Meylan Grégoire Leprince-Ringuet 101 minuti
Francia 2024
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"Black Bag" e "Presence", ovvero il cinema-dispositivo di Steven Soderbergh nell'era della sorveglianza

di Antonio Orrico
black bag recensione film soderberg

Nell’opera di Steven Soderbergh il dispositivo cinematografico non rappresenta solamente il mezzo di comunicazione deputato a raccontare una storia. Soprattutto nella sua filmografia più recente, il regista americano ha abituato lo spettatore a una centralità ricorrente di ogni elemento dell’apparato filmico, sia esso una videocamera, un’abitazione, il montaggio stesso o persino uno smartphone. La visione contemporanea è ormai permeata da logiche di stretta surveillance, tale per cui è sempre più frequente interrogarsi non solo più sul cosa si osserva, ma anche su chi ci sta guardando mentre osserviamo un suo film. Ne deriva, così, un senso critico che si ristruttura attorno all’atto stesso dell’osservazione e all’estetica dello sguardo.

In quest’ottica, Presence e Black Bag, ultimi capitoli dell’iper-produttiva carriera del regista americano, non solo confermano quest’approccio teorico, ma addirittura lo radicalizzano, esponendolo a nuove contaminazioni “estreme”. Da un certo punto di vista, entrambi i film rappresentano le espressioni più sperimentali di un’estetica della sorveglianza che porta il cosiddetto «regime scopico» – per come viene formulato da Metz e Mulvey – a non essere più un semplice dispositivo occasionale, ma a integrarsi pienamente nei circuiti di sorveglianza e automazione (come nei precedenti No Sudden Move e Kimi) e a esplicitarsi come vera e propria interfaccia nella relazione tra uomo e macchina.

kimi recno sudden move rece

Gli ultimi due film di Soderbergh tracciano consapevolmente un solco all’interno di questa ricerca visiva. Presence è un film costruito interamente sul concetto di assenza, non solo atmosferica ma anche di sguardo. Il POV del racconto coincide integralmente con quello della surveillance cam, soluzione che modifica radicalmente il modo in cui il pubblico si rapporta alla narrazione. Ad acquisire potere diegetico, fino a porsi come guida del racconto, è infatti l’immagine stessa (si pensi, ad esempio, alla scena della cena): la visione si lega inevitabilmente a una soggettiva che si rivela al contempo persistente e inesistente, a causa dell’incorporeità dello sguardo e di una realtà visiva che ci appare filtrata, parziale. Come nel concetto di hauntology espresso da Derrida, è proprio l’assenza dell’immagine a potenziare l’immaginazione dello spettatore. Presence diventa così un film-dispositivo che non solo mostra ma nasconde, manovra le linee narrative, suggerisce — anche solo con un cambio di prospettiva — una tensione tra campo e fuori campo, richiamando in questo senso il notevole Here di Robert Zemeckis.

La spy story rarefatta di Black Bag, invece, riporta al centro il problema dello sguardo sorvegliato. La macchina da presa funge qui da osservatore onnipresente, incastonando i protagonisti Michael Fassbender e Cate Blanchett in campi lunghi all’interno di spazi chiusi, così da modellare, attraverso queste inquadrature, la dinamica tra i due protagonisti. In questo senso il piano sequenza iniziale, in cui Soderbergh segue per diversi minuti la nuca di Fassbender prima di rivelarne il volto, mette in scena l’attesa e la frustrazione del desiderio visivo, alimentando la riflessione sul vedere come atto di potere. Anche nella successiva scena ambientata nella sala da pranzo, in un luogo che rievoca l’ambiente domestico di Presence, il regista usa inquadrature statiche e frontali proprio al fine di produrre un senso di disconnessione emotiva tra i due coniugi, contaminando il melò con il giallo hitchcockiano basato sul sospetto. Il dispositivo cinematografico diventa così veicolo di verità narrativa: la fissità della macchina da presa suggerisce che è il dispositivo stesso a dominare la scena, più dei personaggi e delle loro relazioni. Il panoptismo foucaultiano permette a Soderbergh di far interiorizzare ai protagonisti la tensione dell’attesa, rendendo tangibile la frustrazione del desiderio visivo, che prende corpo nelle interazioni e attraverso un certo romanticismo retrò che governa il rapporto tra i due protagonisti.

presence

Non è un caso che il regista scelga spesso di inquadrare la coppia evitando qualsiasi contatto visivo diretto, salvo nelle scene più intime. Questa scelta estetica rafforza il senso di distanza all’interno della relazione, alimentando ancora una volta la riflessione sul vedere come esercizio di potere. Black Bag mostra così come la scopofilia del cinema contemporaneo sia intrappolata in una relazione ambivalente: da un lato meccanicizza i rapporti umani, dall’altro ci ricorda in modo puntuale quanto questi siano, in fondo, essenziali. In virtù di ciò, l'opera di Soderbergh può essere letta come una risposta contemporanea alla "crisi dell'immagine" teorizzata da Jacques Rancière: un tentativo di reinvestire la visione di senso critico, di tensione politica e di inquietudine estetica.

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Steven Soderbergh
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Dead Mail

di Mattia Caruso
Dead mail - recensione film deboer mcconaghy

Un foglio strappato e macchiato di sangue con una richiesta d'aiuto arriva all'ufficio postale di Peoria, Illinois. Uno scherzo? Non ne è convinto Jasper (Tomas Boykin), l'uomo incaricato di trovare i destinatari originali di tutte quelle missive “morte” che, per un motivo o per un altro, arrivano al suo ufficio. Quando però la sua strada incrocia quella del misterioso Trent (John Fleck) le cose precipitano.
Già dalle sue premesse pare esserci qualcosa di sottilmente ossessivo in Dead Mail, horror low-budget firmato da Joe DeBoer e Kyle McConaghy (alla loro seconda regia insieme dopo BAB). Qualcosa che va oltre il suo soggetto per certi versi convenzionale e che pare ammantare tutto il film, dalla cura maniacale per i dettagli e per la descrizione di contesti marginali a una narrazione fatta di personaggi – chi più, chi meno – ossessionati da qualcosa o qualcuno.

Del resto, è proprio una storia di ossessione quella al centro di questa produzione originale Shudder. Una storia che, sin dai primi minuti, ci catapulta in un mondo grigio e sgranato fatto di uffici postali di provincia, scantinati, fanatici di sintetizzatori (!) e potenziali serial killer. È qui che l'attitudine quasi documentaristica di una regia attenta come non mai al particolare apparentemente irrilevante e al dettaglio insolito si rispecchia nell'attenzione e nella cura che i personaggi hanno per il proprio lavoro, sia esso quello di impiegati in un comunissimo ufficio postale o di ingegneri del suono con grandi sogni e pochi mezzi. Ambientando la loro storia negli anni Ottanta ma rifuggendo qualsiasi rimando a quell'estetica imperante fatta di luci al neon e riferimenti pop, i registi allontanano così da sé qualsiasi possibile accusa di effetto nostalgia, dando vita a un film dalla componente vintage estremamente evocativa (i produttori sono gli stessi di Late Night with the Devil) ma capace di far deflagrare le sue ossessioni in modo inedito e inaspettato.

Diviso in tre parti, con al centro un lungo flashback che è anche un sorprendente cambio di prospettiva (con un occhio a Psycho e l'altro a Misery non deve morire), Dead Mail, oltre a regalarci un antagonista ben caratterizzato e misterioso quanto basta (Schizofrenico? Razzista? Omosessuale latente?) per lasciare il segno, si dimostra un horror decisamente anomalo, capace di andare oltre le forme abituali del genere giocando con le aspettative dello spettatore per poi spiazzarlo in modi inediti e sorprendenti, tra anticlimax, digressioni imprevedibili, tempi morti e risoluzioni inaspettate. Un film piccolo, per certi versi disorientante nel modo in cui apre parentesi e si perde in dettagli apparentemente superflui, sempre a un passo dal grottesco ma capace, con pochi tratti essenziali e rimandi estetici mai scontati, di restituire lo spirito del tempo, i modi e le forme di un mondo analogico ormai agli sgoccioli (il deus ex machina digitale), scisso tra senso del dovere, passione e follia.

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Joe DeBoer Kyle McConaghy Sterling Macer Jr. John Fleck Micki Jackson Tomas Boykin Susan Priver 106 minuti
USA 2024
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1485khz (Se otto ore)

di Andrea Giangaspero
1485khz-film-recensione-michele-pastrello

“Un buco di casa di casèngoli” in una zona sperduta del Friuli Venezia Giulia, e una donna che per sbarcare il lunario e non essere sbattuta “fuori dalla strategy aziendale” - come le dice il capo in chiamata - è costretta a recarvisi per pulirla da cima a fondo. Ma la casa sembra disabitata e abbandonata a sé stessa, gli interruttori staccati dalle pareti, le tapparelle sigillate. Qualcosa non quadra. Le premesse e i movimenti di 1485khz (Se otto ore) non sono poi così diversi da quelli del precedente lavoro di Michele Pastrello, Inmusclâ, che immergeva la protagonista (anche lì la bravissima Lorena Trevisan) in un’atmosfera da realismo magico di cui era impossibile comprendere le coordinate, permeata da una vibrante energia negativa che suggeriva un bisogno di fuga. Se vogliamo, ci troviamo nel suo rovescio: al bianco abbacinante dello scenario tra le montagne, immersivo e senza confine, si sostituisce ora la dimensione ottundente e claustrofobica di uno spazio che ha tuttavia ancora le fattezze dell’incubo. Uno scenario, inteso pure come spazio fisico, che a Pastrello viene assai congeniale, con le sue curvature oniriche e orrorifiche (dove queste ora sono più pronunciate) e un sottobosco di anime tratte da un qualche culto misterico. Ma cosa dice ora questo scenario? Qual è l’orizzonte di ricerca entro cui si esprimono le immagini, vestite dell’horror e della metafora (modalità sintattica ed espressiva anch’essa nota del cinema di Pastrello)? Ecco, non più quello del trauma e del suo superamento, quindi di una ricerca interiore che plasma lo spazio, bensì un orizzonte sociale e politico, dunque (e anche qui il rovescio) esteriore, nel senso etimologico di exterior, “ciò che è fuori”.

1485khz-recensione

Conducendo le pulizie nello scenario tetro della casa, la protagonista finisce col trovare causalmente un libro che tratta della metafonia di Jürgenson, metodo per una transcomunicazione, mediante radio o strumenti di registrazione, di tipo spirituale, in grado di catturare voci dall’aldilà. Per questa ragione la componente sonora si definisce qui, molto più che come sfondo, come “movimento” costante, superficie ruvida continuamente graffiata da note spettrali e bagnata da una pioggia che pare remota, e increspata delle onde di un antico canto popolare, Se otto ore vi sembran poche, che le mondine delle risaie nel nord dell’Italia intonavano per protestare e rivendicare il tetto massimo lavorativo di otto ore, in pieno biennio rosso. È la Storia che chiama, in cuffia o come eco lontana e gracchiante, ed è una Storia che produce gli stessi mali ed errori di sempre. Pastrello ce lo dice benissimo con un’immagine fotografica volta a riprodurre proprio il lavoro delle mondine nelle risaie durante gli anni venti, in cui accanto al volto del padrone (Emiliano Grisostolo), tetragono e in impostata sicumera, ci sono i corpi delle donne piegati sul peso della propria schiena a lavoro, e il cui volto è invece cancellato. A chi appartiene quel volto? Non è importante, perché l’identità in fondo nulla può aggiungere in termini produttivi, utilitaristici. Così il volto può e diventerà presto quello della protagonista, come quello della moldava anch’ella senza nome che l’ha preceduta, fagocitata dall’oscura frequenza su cui le logiche oscure di sopraffazione del potere sono sintonizzate.

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Il “non deludermi” del capo-padrone, reiterato e riprodotto nel formato audio di un vocale su Whatsapp, diventerà, nel soffio vitale che spira dalla bocca della donna, alla fine senza vita (o più correttamente, senza coscienza), la pronuncia di un “non ti deluderò”. Pastrello riflette qui sul concetto di Falsa Coscienza elaborato da Marx ed Engels, per cui l’aderenza delle masse alle direzioni del potere non può risolversi come sola passiva acquiescenza, ma come concordanza di idee, come compiuta partecipazione a quelle che Marx definisce “idee spirituali dominanti”. Il modo con cui il posizionamento politico scelto da Pastrello coglie pienamente l’urgenza di certe istanze, la scrittura per immagini che riempie la maglia dell’horror con un denso afflato filosofico - chiaro frutto dell’attenta ricerca dell’autore - e l’abilità silente (del resto, Lorena Trevisan ancora una volta tace e parla col corpo) di un fare artigianale che non sente la costrizione della misura breve (1485khz dura solo 20 minuti) e dell’autoproduzione, in una riduzione all’osso che però sa ancora coagulare ciò che sta a cuore allo sguardo dell’autore, ecco, tutto questo, è traccia manifesta di un’idea di cinema limpidissima e organica, e nondimeno libera, “giusta”, di cui sicuramente avremmo più bisogno, e di cui dovremmo accorgerci di più.

 

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Michele Pastrello Lorena Trevisan 21 minuti
Italia 2024
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Oltre il velo: David Cronenberg, “The Shrouds” e la digitalizzazione del corpo

di Antonio Orrico
shrouds cronenberg

La poetica cinematografica di David Cronenberg ha sempre esplorato la trasformazione del corpo umano attraverso la tecnologia e la mutazione. Negli ultimi anni, il regista ha sviluppato un discorso sempre più focalizzato sulla morte, sulla memoria e sulla persistenza dell’identità attraverso l’immagine digitalizzata. I suoi film The Shrouds (2024), Crimes of the Future (2022) e il cortometraggio The Death of David Cronenberg (2021) costituiscono una trilogia tematica che riflette sull’annullamento del corpo fisico e sulla sua persistenza tramite l’immagine. Del resto, nel corso della sua carriera il regista canadese ha dimostrato più volte come il cinema possa interrogarsi sulla digitalizzazione della morte e sulla dissoluzione del confine tra vita e non-vita. E in particolare con il vicino Cosmopolis (2012), summa autoriale e manifesto della dissoluzione dell’umanità a opera della Tecnica nell’epoca del cybercapitale teorizzato da Baudrillard, Cronenberg evidenzia come la nostra società sia alla ricerca della stortura, della mancanza corporea da digitalizzare, della mercificazione del corpo attraverso le sue discrepanze e le imperfezioni, siano esse carnali o meno. In Cosmopolis, la carne diventa un semplice dato sullo schermo, un'entità fagocitata dalla tecnologia stessa. Per il regista canadese, ogni aspetto dell’esistenza umana è stato completamente trasformato in un mero fattore tecnologico, sollevando dubbi sui significati primordiali dell’esistenza, in continuità con la morte “simulacrale” di Baudrillard, la persistenza delle tracce di memoria di Derrida e le ibridazioni umano/tecnologiche di Haraway.

death of david cronenberg

In The Death of David Cronenberg il regista affronta il tema della propria mortalità attraverso il confronto con il suo doppio defunto, trasformando il film in un manifesto della persistenza dell’immagine rispetto alla caducità del corpo. La morte non è solo evento biologico, ma anche questione estetica. L’immagine resta congelata, pronta per essere riprodotta e osservata all’infinito. Ma se la nostra immagine può essere conservata e rielaborata per sempre, la morte del corpo ha ancora un significato definitivo? O è destinata a diventare mero strumento? Nell’ultimo The Shrouds il regista immagina invece un futuro in cui la tecnologia consente ai vivi di osservare la decomposizione dei propri cari defunti. Ma fino a che punto la tecnologia può prolungare la presenza dei morti nella vita dei vivi? Per il canadese, l'immagine digitalizzata non sostituisce la presenza fisica, ma la riformula, creando una nuova relazione tra i vivi e i defunti. La visione del corpo in decomposizione diventa un’esperienza visiva accessibile, un'estensione della memoria che si scontra con l’irreversibilità della morte. Il protagonista Karsh (un Vincent Cassell con il mandato, mai così palese, il regista) osserva il corpo della moglie defunta attraverso un sistema di monitoraggio che usa immagini in alta definizione per mostrare segni di decadimento. La sua reazione è un misto di dolore, fascinazione e incapacità di staccarsi da ciò che resta di lei. Ciò rappresenta il lato inquietante di quest’ossessione: l’osservazione compulsiva della decomposizione, che trasforma il lutto in una dipendenza visiva.

shrouds

Se in The Shrouds la morte viene resa visibile attraverso la tecnologia, in Crimes of the Future Cronenberg spinge il discorso oltre, immaginando un mondo in cui il corpo umano diventa un’opera d’arte mutante. Il corpo non è più un'entità statica ma un supporto modificabile, capace di incorporare nuove possibilità espressive. La digitalizzazione della memoria sta trasformando il modo in cui affrontiamo la morte. Oggi, i social media permettono di mantenere "in vita" le persone attraverso profili che continuano a esistere dopo la loro scomparsa. Tecnologie come i deepfake e gli avatar digitali consentono la riproduzione di individui deceduti, creando nuove forme di presenza post mortem. Questo solleva interrogativi etici: è giusto perpetuare l’immagine di una persona senza il suo consenso? Come cambia il nostro rapporto con il lutto quando la separazione definitiva viene sostituita da una simulazione permanente?

Interrogativi cruciali, che pongono la questione come fondamentale e alquanto urgente. Attraverso queste opere, David Cronenberg esplora il rapporto tra il corpo e la tecnologia, tra la morte e la persistenza dell’immagine. The Shrouds ci mostra la morte come esperienza visualizzabile, Crimes of the Future trasforma il corpo in un’opera plastica, mentre The Death of David Cronenberg riflette sulla possibilità di sopravvivere alla propria stessa scomparsa attraverso l’immagine digitalizzata. Il risultato è un trittico che mostra come la morte del corpo, nell'era digitale, non sia più una fine, ma una transizione verso una forma nuova di esistenza, in cui l’identità continua a vivere attraverso l’immagine e la memoria digitale.

 

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David Cronenberg
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Blazing Fists

di Emanuele Polverino
recensione film Miike

Presentato all’ultimo International Film Festival di Rotterdam, Blazing Fists (o Blue Flight), è l’ennesimo tassello nella sconfinata filmografia del regista di culto Miike Takashi.
Sono passati sei anni dall’ispiratissimo First Love (2019), la storia di un giovane boxeur impegnato a salvare la vita del suo primo amore. Nel mezzo, una serie di discutibilissime mega produzioni – una su tutte, quella con la piattaforma Disney+ per la serie Connect – e un mediometraggio tratto dall’omonimo manga di Tezuka Osamu: Midnight. Ed è proprio qui che Miike sembra gettare le basi per il suo ultimo lavoro, dichiaratamente ispirato alla storia del lottatore di MMA Asakura Mikuru, ma ben lontano dalle architetture del biopic classico. Come per First Love e Midnight, anche in Blazing Fists il regista nipponico decide di fondere il suo cinema alla dimensione del fumetto. Ma se nei primi due film sembrava essere tutto un discorso di forma – le scene animate in First Love o le tavole di Tezuka in Midnight – per Blazing Fists il tutto si amplia, accoglie la narrazione che ricalca il classico racconto seinen per sfociare in un vero e proprio spokon, dove lo sport – un’altra volta da combattimento, ritorna il collegamento con First Love – si fa cantore di una rinascita personale e collettiva, dove il villain sembra mutare pian piano per tutta la storia, fino a tornare idealmente alle inquadrature iniziali, tra le sbarre dell’istituto correttivo (mutato nell’ottagono da MMA) e l’ombra oppressiva dello Stato (incarnata dalla rampante progenie della classe dirigente).

Come per buona parte delle produzioni di Miike, anche Blazing Fists, scritto a quattro mani con Kibayashi Shin, è un film che parla di e ai giovani. Ikuto Yagura (interpretato dall’esordiente Kinoshita Danhi) e Akai Ryoma (Yoshizawa Kaname) sono due diciasettenni che stanno scontando la loro condanna in riformatorio. Ikuto per un crimine che sembra non aver commesso – come del resto suo padre, in carcere per uno scambio di persona durante le indagini – mentre Ryoma a causa di una bravata nel tentativo di sanare un grosso debito nei confronti della piccola gang di quartiere. Sarà un incontro con lo stesso Asakura Mikuru, ex fighter professionista e creatore del Breaking Down, un evento di arti marziali in cui fighter di ogni tipo si sfidano nell’arco di tempo di un solo round nel tentativo di strappare un contratto tra i professionisti, a unire le vite dei due.
Ed è nell’underground che Miike torna a raccontare le sue storie, di rivalsa e rivincita su un potere ormai insondabile e inafferrabile, nemico invisibile di intere generazioni e simbolo di una politica schiava della corruzione. Una ribellione che parte dallo schiaffo di una madre che prende le difese di un figlio schiacciato dalla (falsa) autorità di una guardia carceraria, e che passa per un amore giovanile riscoperto e ritrovato dopo anni. È dalle figure femminili che il cinema di Miike si mette in moto, le uniche in grado di mettere da parte l’orgoglio per riuscire a riscattarsi da un abisso senza fine. Miike ritorna nelle stradine più periferiche di Tokyo, quelle di Dead or Alive, Audition - la stessa Audition a cui i due amici prenderanno parte per partecipare al Breaking Down - o Rainy Dog. Dove è il dramma familiare, prodromo di un sentimento di rabbia comune, a divenire motore di tutto: dalla caduta nelle viscere della disperazione alla rinascita più scintillante, illuminata dalle sfavillanti luci del ring.

blazing miike

«Can’t you see there’s life in him yet», le parole del coach che osserva combattere per la prima volta Ikuto. È dagli occhi, che si intravedono tra i guantoni da boxe, nei movimenti soppesati e il respiro controllato, che scorre la voglia di rivalsa del giovane fighter. Un volto granitico, che sembra fondere la ferocia repressa di Shishido Jo (la prominenza della mascella di Kaname che ricalca la fisionomia del grande attore giapponese in La giovinezza di una belva umana di Suzuki Seijun) con le urla di ribellione di Joe nel celebre manga Rocky Joe, inamovibile nelle sue decisioni. «I saw it in your eyes» dirà alla fine del film, rivolto a Ryoma, confessandogli un segreto che l’amico aveva cercato di tenergli nascosto fino a quel momento. La vita che scorre attraverso gli occhi, tra i dettagli di Miike che ne cattura gli sguardi, e la forza dei personaggi che ne sanno cogliere l’essenza. Quelli di un figlio, che percepiscono il cambiamento di una madre, divenuta più forte e risoluta, forgiata nelle difficoltà. Quelli di un padre, che si uniscono agli occhi del figlio nei riflessi di un vetro: «I’m fighting». Combattere per tornare a vivere, accettare l’ostacolo per trasformare il proprio corpo in qualcosa di più. Plasmarlo per resistere ai colpi di uno yakuza d’altri tempi, uscito direttamente dalle pagine di un manga degli anni 80 – i biker che sfrecciano tra le strade di Tokyo come in Akira (Ōtomo Katsuhiro) – per prepararlo al mondo che verrà.

Corpi in prima linea, a difendere gli ideali. Tornare a scoprire come Miike sia sempre stato un regista politico, schierato senza mai risultare didascalico. Le immagini che dialogano con noi prima di ogni cosa, prima di ogni slogan urlato da uno dei personaggi. Attraverso i colpi nell’ottagono che scandiscono la rivolta, l’ipertrofia dei combattimenti nel sottosuolo di Tokyo che assurge a manifesto di una rabbia generazionale, a simbolo di un’incomunicabilità radicata nel retroterra del popolo giapponese.
«The journey to my future begins now»: nulla è perduto, bisogna combattere.

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Takashi Miike Kinoshita Danhi Yoshizawa Kaname Terajima Susumu 120 minuti
Giappone 2025
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Grand Theft Hamlet

di Alessio Baronci
Grand Theft Hamlet - Documentario - Sam Crane

Inizia con un classicissimo establishing shot tipico dei prodotti machinima a cui inevitabilmente fa riferimento, Grand Theft Hamlet, e forse così svela già la sua natura profonda, i suoi obiettivi, le sue paure. La camera si attarda sugli ambienti urbani di Los Santos, segue i passanti comandati dalla CPU del software di gioco, crea un contesto, uno spazio scenico, ma soprattutto inserisce il progetto di Sam Crane e Pinny Grylls in un contesto riconoscibile. Potrebbe essere un approccio a suo modo comprensibile, il team dietro Grand Theft Hamlet sta scoprendo in realtà il mondo del gaming per la prima volta. Lei è una documentarista, lui è un attore inglese sempre in cerca dell’occasione giusta per sfondare, entrambi, tuttavia, vengono fermati dal Lockdown, che ostacola soprattutto l’allestimento dell’Amleto di Shakespeare a cui Crane e il suo amico Mark Oosterveen stavano lavorando prima dell’esplosione del Covid. In quegli stessi giorni, tuttavia, i due scoprono il mondo di GTA Online, in cui migliaia di giocatori ogni giorno si incontrano sotto forma di avatar per mettere a ferro e fuoco la città, o anche solo per ammazzare il tempo durante quel momento di sospensione sociale. E a quel punto, perché non cogliere la palla al balzo e allestire proprio lì, in quello spazio virtuale apparentemente immenso, quasi infinito e pieno di giocatori/spettatori/potenziali attori, quello spettacolo a cui tanto hanno lavorato nel mondo vero?

Potrebbe davvero essere un testo fondamentale del contemporaneo, Grand Theft Hamlet, innervato com’è di continue tensioni legate allo spazio mediale con cui ci confrontiamo ogni giorno, dall’importanza del gioco al ruolo del surplus cognitivo, passando per le dinamiche performative da role play su cui si è fondato sempre più, negli anni, il progetto Rockstar Games. Solo che è in mano a persone che conoscono solo superficialmente (per loro stessa ammissione) il mezzo su cui stanno lavorando, il suo linguaggio specifico, la sua prassi, i suoi spazi. Ecco spiegata allora quella riduzione alla leggibilità a tutti i costi che si nota fin dall’inizio, quella ricerca immediata del punto di fuga almeno nello spazio della sintassi (comunque cinematografica, al di là di qualsiasi cornice videoludica). E si potrebbe in effetti scrivere moltissimo di questo bisogno di controllo da parte del film, un’esigenza che lo porta in primo luogo a guardare alla parte sbagliata del contesto in cui si trova. È evidente, in particolare, nel primo atto, il più interessante, quello che registra meglio l’impatto dei protagonisti con un mondo distante anni luce da loro e che per questo diventa densissimo di spunti, dall’importanza del caos nella galassia di GTA Online alla nuova interpretazione degli spazi della città digitale, passando per il confronto della troupe con un mondo che, più che non volere regole, è restìo a una serie di istruzioni apparentemente lontane dal nucleo ludico del gioco originale.

Grand-Theft-Hamlet- Documentario- Sam Crane

Eppure Grand Theft Hamlet sembra sottovalutare l’importanza di dettagli che, in prospettiva, avrebbero potuto reggere il film da soli. Li accantona quasi subito, troppo fumosi, forse, per un gruppo di persone che cerca griglie sempre più solide per leggere (e far leggere) ciò che in cui sono impegnati. Sia chiaro, il film non condanna mai il gaming ma dopo questo folle, lucidissimo prologo quell’immaginario viene guardato sempre più dalla distanza: qualcosa si rompe, gran parte del carico di riflessioni stimolato dal film finisce in tralice. La Los Santos di Rockstar Games non è più uno spazio da esplorare ma un luogo in cui Mark e Sam devono sopravvivere alla bell’e meglio, ben diverso, si faccia anzi attenzione a confondere le cose, da quella vita vera da cui provengono notizie tremende, l’assenza di prospettive, addirittura l’improvvisa morte per COVID dell’ultimo parente di Mark. Ma così il film impiega pochissimo a divenire un lavoro quasi d’antiquariato, un classico documentario sul dietro le quinte di un progetto (con tutti i crismi del caso, dal momento di scoramento del cast alla rinascita, passando per la tradizionale improvvisa intuizione che spariglia le carte in tavola fino alla risoluzione del conflitto), quando non un altrettanto tradizionale COVID Movie, ancora incastrato in dinamiche note e comprensibili, sebbene ravvivate da un’atmosfera straniante.

Sul fondo rimane una sorta di garbata ironia, un retrogusto forse involontariamente saccente che lascia intendere come in un videogioco in cui la gente si spara addosso e rapina i minimarket (ma sarà davvero solo questo?) si possa parlare di morte, di epidemie, insomma della serietà di quel quotidiano che di solito resta fuori dal gameplay. E per assurdo in quel mondo si può perfino fare teatro. Eppure quando Grand Theft Hamlet si lancia in quel tipo di racconto manca di entusiasmo, come se, ancora, Mark e gli altri facessero fatica ad appassionarsi davvero a un progetto incastrato in uno spazio che continua a rimanere indefinito. Shakespeare non può dunque che rimanere Shakespeare, inerte a qualsiasi affascinante ribaltamento o rilettura nutrita da un contesto così inedito e spiazzante. Dal punto di vista dei registi la citta di Los Santos è soprattutto una sorta di eterotopia da esplorare alla ricerca di landmarks dove installarsi, nuovi set su cui organizzare lo spettacolo, luoghi vuoti di cui prendere possesso, attorno a cui organizzare strutture performative in realtà classicissime.

Ecco, questo è forse il più grande tiro a vuoto del progetto, uno svelamento che racconta soprattutto quanto l’operazione di Crane e Grylls assomigli soprattutto a una sorta di gentrificazione, a un medium lasciato invecchiare come il teatro che prende possesso di un’ultima roccaforte libera, quella del gaming, e la piega alle sue regole, la incasella, spegne l’anarchia che l’ha nutrita fino a quel momento, senza arrivare a costringere i giocatori a recitare ma comunque puntando sullo svelamento di quanto, a questi ultimi, piaccia farlo piuttosto che impersonare dei malviventi. Non è un caso se il film si chiude con una domanda apparentemente gioiosa ma in realtà particolarmente inquietante: "What now?" "E ora?" si chiedono i due protagonisti. Come a cercare nuovi modi per giocare, divertirsi, ma anche altri spazi da conquistare.

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Sam Crane Pinny Grylls Mark Oostervenn Sam Crane Tilly Stelle 90 minuti
Gran Bretagna, 2024
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The Brutalist

di Rosario Gallone
brutalist recensione film

Era il 21 novembre del 2014 e Roy Menarini si chiedeva, in un pezzo sul sito di Scenari, rivista di approfondimento di Mimesis Edizioni, se, al pari di un Grande Romanzo Americano, si potesse individuare anche una categoria definibile Grande Film Americano. La risposta, affermativa, lo vedeva elencare, tra i possibili titoli, The Tree of Life di Terrence Malick, Boyhood di Richard Linklater, Interstellar di Christopher Nolan, Gran Torino di Clint Eastwood e Il petroliere di Paul Thomas Anderson. Ed è proprio da Il petroliere che il processo entra in una fase diversa, in un percorso inedito di de-spettacolarizzazione della Storia Americana e del Cinema Americano. O della Storia Americana così come raccontata dal Cinema Americano. Cos’altro è il film con Daniel Day-Lewis se non una rivisitazione di Greed, Il figlio di Giuda e Il gigante asciugata dello spettacolo? C’è in tutti un incontro/scontro tra Religione e Capitale, le due anime che intossicano l’America (che, infatti, nel successivo Vizio di forma sarà indicata come “tossica”). Quell’America che, nell’incipit di Il petroliere, partorisce (fisicamente, dalla terra) Daniel Plainview, ovvero la deriva sociopatica del Capitale cui si opporrà (ma è davvero così?) Eli Sunday. E quest’ultimo torna a sua volta, risorge (o continua a esistere) in The Master, dove cambia nome e diventa Lancaster Dodd (Lancaster come il Burt di Il figlio di Giuda, di nuovo), un uomo che fa del suo sapere (è un fisico) l’arma con cui incastrare i deboli (gli ignoranti, i creduloni). Fred Quell (Joaquin Phoenix), invece è un sociopatico come Daniel, la Guerra lo ha reso tale. La Guerra e quel Sogno Americano che viene promesso a tutti, ma donato a pochi. Fred è un rebel without a cause (il titolo originale di Gioventù bruciata) e Lancaster provvede a trovargliela (la Causa è il nome del culto che fonda). Ancora una volta l’America sembra fare tutto e il contrario di tutto: il capitalismo e la sua demonizzazione, la ribellione e il suo ingabbiamento (in Vizio di forma la tossicodipendenza e la disintossicazione). In realtà si tratta di due facce della stessa medaglia, ovvero il business. Tutto è affare in America.

La dialettica business/arte/architettura è anche quella alla base di The Brutalist, ma stavolta il protagonista è un immigrato (anch'egli rovinato come Quell dalla Guerra) che, pertanto, si scontrerà col razzismo latente di una élite che, proprio perché non originaria di un paese (al pari dello stesso László Tóth), si arroga un diritto di prelazione sulla terra che è solo e unicamente commerciale, acquisito coi soldi. Questa élite non è l'America, ne è diventata sua padrona grazie al denaro. D'altro canto in Cena con delitto di Rian Johnson e Finché morte non ci separi di Matt Bettinelli-Olpin e Tyler Gillett abbiamo due famiglie simili ai Van Buren di The Brutalist: ricconi che rivendicano una "storia" che non hanno e che trattano con ipocrita condiscendenza, salvo rivoltarglisi contro, chi considerano un usurpatore (un'immigrata nel primo e una “plebea” nel secondo). La differenza è che mentre quelli di Johnson e di Bettinelli-Olpin/Gillett sono prodotti di genere che inquadrano la prima America di Trump, Corbet, e non da ora, ha ben altre ambizioni autoriali (e il suo film acquisisce senso aggiunto nel venire distribuito durante il secondo mandato, non consecutivo, del tycoon americano).

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Quello intrapreso da Corbet è quasi un viaggio al contrario: un attore americano che professionalmente matura in Europa, tra Assayas, Bonello, Östlund, Haneke, Hansen-Løve e Von Trier, e che da questa prospettiva (corroborata dalla condivisione con la compagna e coautrice norvegese, Mona Fastvold, il cui ruolo è tutt'altro che ancillare), giunge alla sua terza regia (dopo The Childhood of a Leader - L'infanzia di un capo del 2015 e Vox Lux del 2018) per mettere in scena un'America "stuprata" i cui violentatori sono alla continua ricerca di una sorta di "art washing" con cui mondare i loro peccati mentre di fatto ne perpetuano l’abuso (si pensi ai Sackler – ancora una volta tossicodipendenza e disintossicazione come due facce dello stesso business - e al MET di New York, così ben raccontati in Tutta la bellezza e il dolore - All the Beauty and the Bloodshed di Laura Poitras). L'arte è fumo negli occhi dietro cui celare la logica del profitto, unico motore di un'intera nazione. Pure Corbet, un americano dal sentire europeo, ricorre a un ideale trompe-l'œil. Il suo fumo negli occhi è il VistaVision, formato di pellicola tipico del kolossal, per un'opera che, al contrario, è quasi intimista, e in cui gli unici campi lunghi sono a Carrara e a Venezia, mentre nella parte americana (che, in un gioco metalinguistico intrigante, è ricostruita a Budapest, ovvero nell'Ungheria da cui proviene il protagonista) prevalgono le inquadrature antropocentriche. I grandi spazi, l'immensità e la magnificenza, in The Brutalist, sono europee, negli Usa se ne può avere solo una riproduzione in sedicesimo. E allora qual è il Sogno? Quello rovesciato di una libertà, solo illusoria, di un europeo immigrato in America o quello di un autore americano libero di esprimersi solo in Europa (come Orson Welles, Joseph Losey e, di recente, Woody Allen)? La scelta è sicuramente dipesa anche dal budget limitato (10 milioni di dollari per soli 34 giorni di riprese), che non avrebbe consentito una ricostruzione tale da poter essere sfoggiata in inquadrature di ampio respiro, ragion per cui potremmo azzardare che The Brutalsit è un film brutalista, che punta all'essenziale, mostra la struttura, è imperfetto nel suo eccesso, disdegna gli orpelli che fanno lievitare il budget. È arte vs capitale. E l'arte vs il capitale è il cinema. Tutta la carriera da regista di Corbet è improntata su questa volontà di non scendere a compromessi con l'idea di merce che Hollywood auspica, e quindi al disegno, ostinatamente perseguito (come Tóth), di non farsi violentare dal Capitale. La sua libertà è rovesciata, è un'indipendenza conquistata con la diaspora. Ha un costo, ma è decisamente più contenuto rispetto a quello pagato da chi insegue il Sogno Americano.

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Brady Corbet Adrien Brody Guy Pearce Felicity Jones Stacy Martin Joe Alwyn Raffey Cassidy Alessandro Nivola 215 minuti
USA 2024
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A Complete Unknown

di Alessio Baronci
A Complete Unknown - recensione film Mangold

Forse era già tutto nello stranissimo, straniante incipit di Indiana Jones ed il Quadrante Del Destino, quello con il treno in corsa, la fuga, come nei western del canone e il protagonista interpretato da un Harrison Ford vistosamente ringiovanito a colpi di CGI, che si muove fluido e agile malgrado i quasi ottant’anni tra gli scompartimenti di quel treno come un personaggio di Call Of Duty. È un prologo che assomma in sé le fondamenta del cinema di James Mangold, il tentativo di ricostruire e preservare il passato, il suo rapporto prorompente e violento con il contemporaneo, forse soprattutto la tradizione e la presenza tangibile del suo regista sulla scena, che prende posizione, ragiona sui caratteri, sui limiti di questi clash. Tradisce in maniera giocosa la sua presenza, Mangold, dice “io sono qui” e forse evidenzia quanto in certo cinema contemporaneo l’emersione dell’autore tra le immagini stia tornando a essere un fatto non secondario e la decisione dell’esatta posizione del punto macchina (fino a esiti concettualmente coraggiosissimi, da Zemeckis all’ultimo Albert Serra) sia divenendo, di nuovo, un fatto politico.

Fare cinema, ancor meglio, posizionarsi all’interno di un flusso, di una tradizione, è un fatto fisico, sembra lasciar intendere Mangold, e forse è anche per questo che in A Complete Unknown sceglie di raccontare proprio “quel momento” della vita di Bob Dylan, quello della svolta elettrica, e forse è anche per questo che il film inizia con il primo di moltissimi pellegrinaggi del giovane cantautore al capezzale del malato ma ancora agguerrito Woody Guthrie, eminenza, archivio, senatore di quel folk di cui Dylan vorrebbe cogliere lo spirito e divenire erede. Dylan passeggia nella New York notturna, si perde, finisce in periferia, capisce che parlare con Guthrie è qualcosa di molto simile a una prova da conquistare e forse è solo attraverso questa strana lente tutta materiale, legata alla fatica, che Mangold pare trovare la quadra del suo cinema postclassico, qui forse all’apice di un passo convintamente analogico, con cui si affanna a costruire attorno al suo racconto di formazione un mondo che costantemente pare voler accogliere immagini, riferimenti, spunti tutti da riordinare: dallo sguardo sporco, quasi gonzo con cui D.A. Pennbaker raccontò il cantautore nel suo leggendario documentario del 1967 al mastodontico lavoro che Todd Haynes dedicò a Dylan agli inizi degli anni ’00,  passando per la polvere, il fumo, i libri e gli arredi eccentrici del Greenwich Village, per lo spirito del racconto di frontiera, come ha detto qualcuno, e soprattutto per una coralità quasi altmaniana (e se il primo referente del film fosse un classico come Nashville?).

Ci sarebbe da ragionare su questo approccio, su questa rincorsa all’archivio, su questa tradizione, su questa memoria ricostruita a forza di sangue e sudore (ancora, un fatto fisico…) su cui sembra stia perdendo il sonno parecchio cinema americano, o che comunque guarda a un immaginario mai così american made (anche Here, in fondo fa un discorso simile), come se certi registi intuissero qualcosa di catastrofico stagliarsi sull’orizzonte e volessero provare a preservare con le unghie e con i denti la cultura occidentale in tutta la sua complessità. A colpire, però, del florilegio di immaginari mosso da Mangold, è una singola inquadratura, un punto fisso che esorbita dal caos. A un certo punto, durante il primo incontro tra Bob Dylan e Sylvie Russo, lo sguardo di Mangold (come quello di Dylan) viene attratto da Alan Lomax, impegnato a registrare stralci del concerto che stanno ascoltando i due protagonisti. Alan Lomax è stato musicista folk ma soprattutto etnomusicologo tra i più importanti del secolo scorso. La sua vita è stata votata alla registrazione e all'archiviazione della memoria sonora americana, della sua tradizione popolare nel senso più stretto del termine, quello della pancia d'America, della provincia, che la crescente urbanizzazione e il progresso rischiavano di far scomparire. Non è scontato. Al di là di qualsiasi iperbole, A Complete Unknown potrebbe davvero essere contenuto in questa brevissima sequenza, che non solo sostiene il racconto ma forse definisce senza possibilità di fraintendimento il senso dell’operazione di Mangold e del suo ruolo all’interno di essa.

A Complete Unknown - recensione film Mangold

L’archivio, ormai è chiaro, è uno spazio ideologico ma in Mangold la sua costruzione nasconde qualcosa di accademico, didattico in un certo qual modo. Si riuniscono immagini, spunti, dettagli per rimettere ordine nella scala dei piani e delle priorità, per reimparare ad approcciare, a guardare la Storia, come in fondo già ha provato a fare Justin Kurzel nel bel The Order, che rimbalza, seguendo le coordinate del thriller, tra i numi del genere, da Sam Peckinpah a John Boorman a Point Break e Kathryn Bigelow. Ma forse anche per mettere in discussione ciò che si intende per Storia stessa.

È un film profondamente politico ma soprattutto coraggioso, A Complete Unknown, perché trova la forza di fare le domanda più scomode, di chiedersi cosa sia, davvero, la Storia, la tradizione, il passato e forse soprattutto di dire, apertamente, all'America contemporanea (non dissimile da quella di sessant'anni fa) che non sa più raccontare il suo passato, descrivere la sua tradizione, forse persino capire gli americani. E così il giovane Dylan lotta per posizionarsi in un flusso culturale protetto, tuttavia, da freddi intellettuali che si definiscono custodi del folk più puro ma che in realtà non possono essere più lontani dal popolo stesso, difensori di uno spazio polveroso, che non si guardano attorno per rendersi conto di quanto folk ci sia nell’R&B nero in cui Dylan sembra intuire il (suo) futuro.

Eppure sarebbe così facile riequilibrare lo scontro. Basterebbe uno scambio di chitarre, un avvicendamento sul palco di Newport tra Dylan e Johnny Cash, che Mangold inscena con un’ironia quasi da melò (che sia il “suo” Cash, quello di Walk The Line? Che sia un altro modo per dirsi “degno” del canone?), tradendo lo sguardo guascone di chi vuole portare la tua attenzione sull’architettura del racconto, sull’exploit finzionale che irrompe nella dimensione realistica. Come a dire che la pace, l’equilibrio competono solo al cinema, nel mondo vero c’è ancora troppo da fare per arrivare allo stesso risultato.

Categoria
James Mangold Timothée Chalamet Elle Fanning Monica Barbaro Edward Norton 141 minuti
USA 2024
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La metamorfosi dello sguardo: Wolf Man

di Jacopo Bonanni
Locandina

                                                                                        “Guardati dalla luna!” - John Landis

Fin dagli albori della civiltà, il fenomeno della metamorfosi, comune a tutte le tradizioni folkloriche, si configura come uno dei mitologemi più radicati e diffusi nell'immaginario collettivo, al pari del patto faustiano con il demonio. L’influenza di questo processo, ereditato dai culti totemici, risulta ancora più evidente se ne analizziamo la complessità delle implicazioni filosofiche e l’impatto culturale esercitato sulla nostra società. Basti pensare all’inquietante metamorfosi in insetto di Gregor Samsa, che nel celebre racconto di Kafka non si limita a rappresentare la trasformazione in altro ma diventa simbolo della perdita stessa di ogni forma, traducendo in chiave esistenziale l’incapacità umana di cogliere la verità del mondo circostante. Oppure alla radicale mutazione dell’attrice Demi Moore in The Substance, in cui Coralie Fargat attualizza i paradigmi del body horror per offrire una riflessione lucida e affilata sul rapporto morboso e autodistruttivo tra identità e immagine nella contemporaneità, sostenendo l'assunto per cui «noi esistiamo solo in quanto immagini» (Bocchi) e pertanto siamo impreparati ad accettare il nostro inesorabile decadimento: la nostra metamorfosi biologica.

The Substance

Sempre nell’ambito cinematografico, l’icona polisemica del licantropo, esiliato a causa della sua natura ibrida e blasfema, ha rivestito un ruolo cruciale nel dibattito sull’evoluzione dello sguardo e sul conflitto tra tradizione e innovazione nel cinema horror contemporaneo. Come ha osservato Craig Ian Mann nel suo saggio Phases of the Moon: A Cultural History of the Werewolf Film, anche l’evoluzione dell’archetipo del lupo, prima demonizzato e poi rivalutato, non è un processo recente, tuttavia ha raggiunto una piena consacrazione a livello mediatico soltanto a partire dagli anni Ottanta, grazie a un trittico imprescindibile per ogni appassionato: Un lupo mannaro americano a Londra, L'ululato e Wolfen, la belva immortale. Questi film non soltanto hanno sancito definitivamente la rottura col passato ma hanno emancipato il licantropo dal ruolo di eterno comprimario nelle produzioni hollywoodiane.

Wolfen

Da allora, tutte le opere dedicate ai lupi mannari, anche quelle ritenute mediocri dalla critica, oltre a incentivare i progressi tecnologici in materia di effetti speciali, hanno plasmato una nuova generazione di autori, affascinati dalla rappresentazione, simbolica e non, del mostro sul grande schermo. Tra le interpretazioni più originali degli ultimi anni, tralasciando parodie discutibili come WolfCop e Werewolves Within, spiccano titoli capaci di oltrepassare i confini del genere per intercettare le istanze socioculturali del nostro tempo, come il glaciale When Animals Dream, il grottesco The Wolf of Snow Hollow e il crepuscolare Blackout di Larry Fessenden.

Blackout

Oggi, però, la voce più autorevole in materia diventa quella dell’australiano Leigh Whannell, il cui Wolf Man è la storia di uomo diviso a metà, alla ricerca del suo posto nel mondo. Il film, dichiaratamente ispirato alle dinamiche del lockdown, esplora il collasso delle figure genitoriali e la disintegrazione delle relazioni interpersonali all’interno di un nucleo familiare, isolato e minacciato dall'insorgere di un'epidemia sconosciuta, simboleggiata dall’apparizione di un misterioso licantropo, che costringe i protagonisti a barricarsi nella propria abitazione per difendersi dagli esiti imprevisti di un possibile contagio. Questo è ciò che il regista sembra suggerirci all’inizio, ma cosa accadrebbe invece se ci fossimo sbagliati, se il pericolo non provenisse dall’esterno, se il “nemico invisibile”, o meglio asintomatico, fosse già uno degli abitanti della casa? Per Whannell, la risposta è negli occhi di chi guarda.

Wolf Man

Il film prosegue la riflessione iniziata dal regista con L’uomo invisibile sul valore politico delle immagini, intese come strumento di analisi del presente, per mettere a fuoco le ragioni psicologiche e le modalità di rappresentazione delle angosce palpitanti della società, che albergano dentro e fuori dalla mura domestiche. Se nel lavoro precedente Whannell analizzava il tema del controllo e della manipolazione in una relazione tossica, stavolta con Wolf Man si interroga sulla crisi dell’identità maschile e la stigmatizzazione della malattia mentale attraverso la metamorfosi di Blake Lovell: un padre di famiglia, incompreso e vulnerabile, destinato a trasformarsi in una creatura estranea, una minaccia non tanto per sé stesso quanto per i suoi familiari. Nel film, il personaggio interpretato da Christopher Abbott vive in uno stato di coscienza alterato, sospeso tra il terrore di essere emarginato e il bisogno di essere accettato, in un crescendo di frustrazione che esplicita la condizione di disorientamento congenita del genere umano.

Curse of the Werewolf

A differenza dell’iconografia tradizionale, dove la trasformazione in lupo mannaro era associata a un’antica maledizione connessa ai cicli lunari, nella contemporaneità l’“implacabile condanna” perde il suo alone mistico e leggendario. Infatti, secondo la versione proposta dal regista australiano, la licantropia si configura piuttosto come un morbo contemporaneo, il frutto di un retaggio patriarcale ereditario da combattere e sradicare. Il dramma personale di Blake Lovell, a cui viene sottratta ogni possibilità di appartenenza e di legame affettivo, ne è un esempio emblematico. La sua crisi interiore affonda le radici nel trauma infantile legato alla perdita del padre: una presenza opprimente e intimidatoria che continua a ossessionarlo, minando la sua vita sentimentale. È questa la ragione che lo spinge a tornare nel luogo dove tutto ha avuto origine, nel tentativo disperato di saldare il suo debito con il passato. Non è dunque la mutazione in sé a trasformarlo in un mostro ma un conflitto irrisolto, che innesca un processo di spersonalizzazione e regressione allo stato bestiale. Durante l’arco della visione, Blake non si trasformerà in un’entità sovrannaturale bensì nell’ incarnazione del genitore che ha sempre temuto, perpetuando così quel ciclo di violenza e sopraffazione da cui aveva sempre cercato di affrancarsi fino al tragico epilogo.  

Wolf Man

Nell’adattamento di Whannell, ispirato all’omonimo cult diretto da George Waggner, non c’è spazio per l’autocompiacimento nostalgico, tantomeno per il manierismo calligrafico, involontariamente caricaturale, di un’operazione “tassidermica” come il remake di Joe Johnston con Benicio Del Toro. Da questo punto di vista, Wolf Man condivide con il Nosferatu di Robert Eggers quell’urgenza autoriale di risemantizzare le icone del terrore alla luce di una fase storica contraddistinta da cambiamenti epocali: entrambi i film sono testimoni di una trasformazione collettiva, l'orrore non proviene più dall'esterno ma da una rarefazione personale.

Nosferatu

Viviamo in un mondo profondamente segnato dall’esperienza pandemica, che ha stravolto il nostro tessuto sociale e ridefinito l’assioma “homo homini lupus”: l’uomo si trasforma e fagocita i suoi simili, ma sulla base di nuovi parametri. Temi ricorrenti come l’isolamento, la paura del contagio e la percezione dell’altro come minaccia hanno riportato in superfice paure ancestrali che il cinema horror ha saputo aggiornare e trasfigurare. La vera metamorfosi, in definitiva, è quella dello sguardo: ciò che un tempo escludevamo a priori, in quanto ritenuto inverosimile, è diventato reale, e la nostra stessa percezione della realtà ne esce irrimediabilmente mutata. Ed è proprio questa consapevolezza a provocare nello spettatore un senso di disagio alla fine della visione che si protrae nel tempo, ben oltre i titoli di coda. 

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Leigh Whannell Christopher Abbott Julia Garner Matilda Firth 103 minuti
USA, 2025
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