A Fidai Film

di Leonardo Strano
A Fidai Film - recensione film aljafari

Il cinema d’archivio è un linguaggio audiovisivo che certifica ancora molto chiaramente gli effetti dissociativi prodotti dalla postmodernità sul rapporto tra individui e cosa pubblica. Con la sua irrisolta dicotomia tra formule di conservazione sociale e gesti di auto narrazione privata – ultimamente inflazionati dalla fortuna dell’auto fiction -  è un genere, un campo espressivo, che non sembra offrire soluzioni di sintesi all’apparente separazione tra personale e collettivo prodotta dallo sgretolamento delle cornici ideologiche, dalla contestuale fine delle grandi narrazioni tradizionali e dal conseguente ripiegamento sul sé più intimo di chi ha provato l’horror vacui identitario. Eppure, è un linguaggio che, sulla carta, per l’incrocio di tensioni che lo costituiscono (tra pubblico e privato, individuale e sociale, personale e socioculturale), si apre a una dialettica generativa rara, che, come pochi altri linguaggi dell’arte, mette in dialogo i soggetti creativi, disponibili a manipolare l’alterità attraverso immagini eterodirette, e cioè non proprie, e l’architettura simbolica del loro spazio pubblico. 

Quando riesce a non cedere al conservatorismo fine a se stesso (se non propagandistico magari legittimato dalle ontologie della documentalità, dell’ontologia indessicale, dalla logica di chi sostiene che una traccia faccia già testimonianza d’esistenza) e nemmeno alla contemplazione borghese di chi gioca con il proprio alfabeto privato, è un linguaggio che incontra una terza via, quella di una dialettica relazionale, di una riscrittura aperta che problematizza qualcosa di già dato, qualcosa spesso di morto e sepolto o qualcosa di non visto, e inietta in esso un po’ di luce, o possibilmente una frizione, un’impressione di movimento, che poi si può anche solidificare in un affondo politico. Come in A Fidai Film, ricognizione storiografica su materiale disperso – a causa dell’invasione, nel 1982, da parte dall’esercito israeliano di Beirut, della distruzione del Palestine Research Center e del saccheggio del suo intero archivio – ma anche gesto di manipolazione ispirato all’avanguardia avanzata, in cui le immagini del passato, rubate e censurate, sono viste di nuovo, come per la prima volta.

O forse sarebbe meglio dire non viste per la prima volta. Operando una cancellatura sulle manipolazioni propagandistiche del governo israeliano e riorganizzando invece materiale da esso censurato, Kamal Aljafari infatti procede per “cancellature” – direbbe Emilio Isgrò, che si inventò il concetto negli anni 60 riproponendo la pagina bianca di Mallarmé, “puro regno del possibile”  – per produrre un vuoto dialettico più che un nuovo dato storico tra altri dati storici già dimenticati, che interroghi su ciò che è trapassato nell’oblio della dimenticanza collettiva. Aljafari si relaziona con gli inserti audiovisivi prodotti dalle politiche che hanno scritto e riscritto le sorti di individui attraverso una manipolazione segnica, fosse essa una rimozione o una aggiunta, con un iconoclasmo creativo che ricorda anche quello dei graffitari di cui parlava Baudrillard nei suoi discorsi sulla saturazione segnica della società (in particolare “Kool Killer ovvero il sorgere dei segni”).

fidai film ghdas

Come gli autori di graffiti, i “writers”, che con le loro sovrapposizioni indebite, con le loro cancellature e imposizioni segniche, rendono esplicita l’epidemia dei segni nella società, la trasformazione della realtà in segno simulacrale manipolabile e manipolato (a cui loro si accostano per combatterlo con rabbia), ecco che Aljafari si dota di un segno rosso che riarticola i rapporti gerarchici all’interno di immagini già manipolate dal potere, riaprendo una lotta chiusa dalla storia ma nuovamente spalancata dalla forza del gesto, dalla mano che torna al passato per rimestare nel buio. Il risultato è un riorientamento che propone un nuovo modo di ricordare attraverso il contatto con l’invisibile, piuttosto che con la commemorazione del visibile. Cancellando le immagini di altri, infatti, il regista non solo si riappropria della pratica di cancellazione propagandistica, ribaltandola, ma rigenera la domanda di visibilità, la necessità di vedere, di chi ha registrato quelle stesse immagini: cioè fa sì che la memoria di quel passato perduto assuma la forma di una richiesta di sguardo concreto, di un voler vedere, di un voler agire, e si istanzi quindi oltre il rituale della distaccata e progressiva dimenticanza che invece caratterizza il commemorare.

A Fidai Film è in fondo allora un lavoro che per proporre una risoluzione dialettica alle formule dissociate del linguaggio postmodernista del cinema d’archivio si allinea a ciò che la necropolitica (in particolare Achille Mbembe) ha scritto sul rapporto tra memoria, euristica, morte e archivi. Si chiede insomma quale sia il rapporto tra soggetto individuale creativo e soggetto collettivo pubblico e cosa significhi archiviare per entrambi quando le memorie storiche svaniscono e le nazioni utilizzano le istituzioni architetturali (appunto gli archivi storici) non per produrre un surplus di conoscenza dei singoli ma per cristallizzare in uno status controllabile l’angoscia di morte (di dissoluzione, di distruzione) e legittimarsi come padroni del sapere costituito. Guardando le immagini finali del film di Aljafari ci si scontra con la naturale immagine sintetica che lo Stato cerca di produrre attraverso l’archivio, l’immagine della totalità: una totalità sepolcrale costruita su una “morte strutturale” - la morte di chi ha filmato e di chi è stato filmato. E si incontra invece con una riframmentazione, che lascia abbastanza spazi aperti per risignificare l’archivio non come uno dei tanti sigilli della burocrazia del destino ma come una casa infestata, in cui gli spettri del passato si fanno presenti, gridano e ancora ci ri-guardano.

Categoria
78 min
Palestina, Germana, Qatar, Brasile
Immagine con larghezza massima
Larghezza massima

Hexham Heads

di Mattia Caruso
Hexham heads - recensione film delanghe driesen

Non è un caso che Hexham Heads – mediometraggio sperimentale di Chloë Delanghe e Mattijs Driesen, presentato in concorso alla 60° Mostra Internazionale del Nuovo Cinema di Pesaro – parta proprio dall'abusatissima etichetta “tratto da una storia vera” per riflettere sulle immagini e sul rapporto che abbiamo con esse. Prendendo spunto dalla serie di presunti eventi paranormali che hanno avuto luogo ad Hexham, Inghilterra, nei primi anni settanta, in seguito al ritrovamento di due misteriose teste di pietra alte 6 centimetri, il film si pone infatti l'obiettivo di partire dal dato “reale” tipico di tante narrazioni contemporanee, horror compreso, per ricostituire quel genere attraverso un approccio altro, quello di un cinema sperimentale che gioca proprio con le immagini iper-codificate dell'horror per riscoprirne l'origine fantasmatica.

È così che Hexham Heads, al di là delle sue suggestioni J-horror e di elementi che strizzano l'occhio al recente revival folk, diventa soprattutto una riflessione sul mistero della riproduzione fotografica, su come le immagini, cioè, "infestino" la nostra realtà, distorcendola o permettendoci di passarle attraverso. È un un viaggio liminale, del resto, il film di Delanghe e Driesen. Un viaggio fatto di passaggi, porte e finestre da attraversare, suoni perturbanti e aspettative tradite, formati (dal VHS alla pellicola in 16mm) e linguaggi differenti, dove foto e fotogrammi paiono ridefinire continuamente la propria funzione e la realtà che dovrebbero rappresentare.

Citando esplicitamente la “stone tape theory” – la convinzione, cioè, secondo cui alcuni oggetti inanimati siano in grado di “registrare” l'energia derivante da eventi del passato per poi “riproiettarli” in condizioni favorevoli – il film crea così, attraverso un luogo cristallizzato nel tempo e “sovrimpresso” alla realtà, un parallelo tra fantasmi e fotografia, cinema e soprannaturale, tentando di fissare quelle presenze su pellicola, di trattenerle il tempo di un'istantanea.
Un film teorico e sensoriale al tempo stesso, insomma, in cui la riflessione su immagini, cinema e genere si fa un tutt'uno con l'esperienza filmica, con l'inquietudine generata da un horror atipico e fuori da ogni canone. Nella sfida, forse impossibile, di ridare un nuovo peso alle immagini e al nostro modo di guardarle.

Categoria
Chloë Delanghe Mattijs Driesen 34 minuti
Regno Unito, Belgio 2024
Immagine con larghezza massima
Larghezza massima

Memoir of a Snail

di Emanuele Polverino
Memoir of a Snail - recensione film elliot

Quindici anni rappresentano un lasso di tempo molto lungo per chiunque, ancor di più per un regista che sin dal suo primo corto, Uncle (1996), è stato in grado di richiamare a sé uno stuolo imponente di ammiratori. Adam Elliot, però, in questo periodo non sembra essere affatto cambiato. Anzitutto perché oggi, come 15 anni fa, il suo secondo film, Memoir of a Snail, si porta a casa il premio più prestigioso del Festival international du film d'animation d'Annecy, il Cristallo al miglior lungometraggio.

Grace è una donna di mezza età che all’ombra di un grande albero si ritrova a percorrere a ritroso tutta la sua vita, tra memorie personali e racconti altrui. Orfana di madre dalla nascita, trascorre l’infanzia e la preadolescenza in totale povertà insieme a suo fratello gemello Gilbert, l’ancora di salvezza verso cui è sempre protesa, e suo padre, un ex performer di strada, alcolizzato, goloso di liquirizie e costretto su di una sedia a rotelle da un brutto incidente. Brutalmente separati e costretti a vivere lontani, Grace e Gilbert verranno affidati a due famiglie completamente diverse: una coppia di mezza età senza figli, amanti dell’ordine, rappresentanti di una società di semafori di giorno e scambisti di notte, per Grace; una coppia di contadini ultra bigotta, con cinque figli e un’ossessione liturgica verso le mele, per Gilbert. I due si ritroveranno a essere fratelli-amici di penna – elemento autobiografico che torna presente dopo essere stato perno narrativo in Mary and Max – sognando, un giorno, di ritornare a vivere insieme.

Sono passati anni da Mary and Max ma la delicatezza narrativa di Elliot non sembra essere in alcun modo mutata. È proprio attraverso l’uso dei flashback, alternati tra le memorie di Grace, le lettere di Gilbert e i ricordi dei vari personaggi che si succederanno durante tutto l’arco della storia, che il film sembra sorvolare dolcemente sopra quasi mezzo secolo di cambiamenti.
Un puzzle che a mano a mano si ricompone alla ricerca del pezzo finale, quel tassello mancante che rappresenta il futuro incerto, verso il quale Grace cerca in tutti i modi di non incamminarsi. Rinchiusa all’interno di una teca di vetro come le sue amate lumache, l’unico ricordo della madre prematuramente scomparsa, osserva il mondo scorrere fuori dalla finestra, godendosi gli unici attimi di felicità con la sua amica Pinky, un’arzilla vecchietta che ama mangiare biscotti all’hashish, fumare marijuana, curare il suo giardino e bere whisky. Perfetto controcampo caratteriale di Grace, Pinky rappresenta tutto quello che l’amica ha sempre sognato di essere ma non è mai stata in grado di diventare. Sarà un colpo di fulmine sotto forma di baffuto vicino, Ken, che ama aspirare le foglie secche dal suo giardino, e la paura di rimanere da sola per tutta la vita, a scombussolare la vita di Grace. Un quasi matrimonio che segnerà il punto di non ritorno nella già precaria autostima della protagonista.

memoir of a snail

Se da una parte c’è la voglia del regista australiano di toccare temi delicati come il solipsismo esasperato, specchio di una contemporaneità post-pandemica, attraverso la costruzione di un personaggio, quello di Grace, che sembra incarnare un hikikomori ante litteram, è il ricorso a una spensierata e leggera ironia, a tratti anche nera – vedi i momenti più cupi, come la morte di alcuni personaggi – ad alleggerire tutto il film. In grado di trasportarci all’interno di un racconto dai connotati terapeutici e pedagogici (che per alcuni risulterà forse troppo spinto verso uno stucchevole pietismo). Una storia, quasi parabola, che con intelligenza riesce a mascherare le turbe dell’universo adolescenziale passando dal particolare della storia di Grace all’universale senso di impotenza nei confronti della morte. Con un binomio tematico che evidenzia in maniera indelebile la notevole maturità narrativa del regista nativo di Melbourne, in grado di elevare ancora una volta la tecnica della stop motion, cambiando la palette del nero e grigio di Mary and Max al beige di Memoir of a Snail, per rimandare al colore delle lumache e a quel deserto che tanti anni terrà separati l'un dall'altra i due gemelli. 

Un film, come si è detto, in grado di trattare temi estremamente profondi (la morte, l'abbandono, il bullismo, etc.) con la leggerezza tipica di una favola per bambini, arrivando a un prefinale che con forza impone alla sua protagonista una necessaria presa di coscienza del mondo intorno a essa, riuscendo così a disvelare quella patina di autocommiserazione che non le permetteva di uscire dalla sua prigione di vetro.
Una metafora che trova compimento negli ultimi frammenti, ricucendo gli strappi del passato e volgendo lo sguardo verso il futuro. Perché, proprio come le lumache che non conoscono altre direzioni, l'unico modo per vivere una vita piena è guardare avanti senza voltarsi indietro.

Categoria
Adam Elliot Sarah Snook Eric Bana Jacki Weaver 94 minuti
Australia 2024
Immagine con larghezza massima
Larghezza massima

La laguna del soldado

di Alessio Baronci
La-Laguna-Del-Soldado-Documentario-Pesaro-2024

Campo/Fuori Campo, passato/presente ma soprattutto trauma/ricostruzione. Nel bene e nel male è un film ostinatamente senza mezze misure, La laguna del soldado, scoperto, chiarissimo nel suo approccio, in ciò che vuole dire e, soprattutto, nel modo in cui vuole farlo.
Così questo saggetto ricolmo di amara ironia, che prova a intrecciare Storia, riflessione sul post colonialismo e ambientalismo ripercorrendo, oggi, la regione del Paramo, centrale nella strategia di riconquista dell'America Latina da parte del liberatore Simon Bolivar, e soffermandosi tanto sulle lotte di indipendenza di cui quegli spazi furono teatro quanto sui volti e sulle parole di quei contemporanei che con quella regione, con quegli ecosistemi ancora traumatizzati, devono confrontarsi, questo film di Pablo Alvaro Mesa usa tutti gli strumenti di quei documentari che si propongono di ragionare sulle ferite degli immaginari: i fantasmi, solo evocati (quello dei conquistadores, quello di Bolivar, il cui Delirio, straordinaria bellissima poesia che scrisse quasi per autoinvestirsi del ruolo di liberatore delle Americhe, apre il film), la tragedia lasciata fuori campo, la presenza umana ridotta al minimo, il racconto del dramma della colonizzazione irrimediabilmente potenziato dai contemporanei che lo evocano dalla distanza. 

È indubbio che le sue carte migliori La laguna del soldado se le giochi davvero nel bel primo atto, vicinissimo al linguaggio del cinema contemplativo, con la macchina da presa che si immerge nel silenzio e si sofferma a osservare per lungo tempo la natura priva di presenza umana, gli altipiani, i fiumi, la vegetazione ricchissima. In questi spazi costantemente rimessi al centro dell’inquadratura, (ri)-visti dallo sguardo del regista, pare esserci la ricerca di un nuovo modo non solo di tornare alla natura ma proprio, più pragmaticamente, di misurare nuovamente le distanze tra noi e il mondo esterno, di ridare un nome alle cose, di ricostruire la vera e propria cornice ermeneutica dopo la tragedia culturale del colonialismo. O forse anche solo di riprendere contatto con il linguaggio visuale che in effetti, dopo una prima parte così sperimentale, diventa più leggibile. Tornano dunque in primo piano i volti, i corpi degli eredi dei colonizzati e le forme del genere vengono assecondate con più convinzione, a tal punto che da quel momento in poi La laguna del soldado "parla" la sintassi riconoscibile di un documentario convenzionale, che si attarda sui sentieri montani e, forse soprattutto, sui particolari del Fralejon, la pianta endemica del Paramo, diffusa fin dai tempi di Bolivar e di cui ora viene riscoperta l'importanza "ambientalista" data la sua capacità di conservazione del vapore acqueo. Ecco, forse alla seconda parte del documentario di Pablo Alvarez Mesa manca la vertigine concettuale che l'ha preceduta ma il muoversi in uno spazio noto, ricostruito, leggibile, permette al contempo di soppesare la portata politica dell'immaginario a cui si fa riferimento, anche solo attraverso la scelta dei materiali, il montaggio, gli spunti offerti dalla messa in scena.

A colpire allora, da un lato è lo sguardo affettuoso con cui Mesa osserva lo spazio che lo circonda, teso tra la razionalità scientifica e un atteggiamento quasi animista tipico della sua cultura ancestrale con la natura, ma soprattutto, dall'altro, l'ironia giocosa con cui, tra i fotogrammi, si diverte a cambiare di segno, nel presente, a tutto l'immaginario dei conquistatori, delle loro pratiche, dei loro riti, che pare dominare ancora l'inconscio collettivo degli abitanti di quella terra.

La-Laguna-Del-Soldado-Documentario-Pesaro-2024

Non stupisce, allora, se tutti gli studiosi, i botanici, i biologi intervistati da Mesa concordino nel raccontare le loro attività di ricerca come un tentativo di riprendere possesso degli ecosistemi del Paramo per proteggerli e studiarli ma senza mai escludere l'elemento umano dall'equazione e dunque, ad esempio, senza costringere gli abitanti della regione ad allontanarsi da particolari zone per esigenze di conservazione, quasi fossero essi stessi dei conquistadores etici.

A rimanere fissa, saldissima, è la fiducia nell'immagine, nell'archivio costantemente aggiornato della biologia del Paramo che si costruisce attraverso il linguaggio proprio del cinema: "Stiamo scattando una fotografia del qui ed ora della foresta", racconterà uno dei ricercatori nel corso del documentario, giusto pochi secondi dopo che un etologo ragioni come, per studiare i comportamenti dei pipistrelli che popolano la zona, la prima mossa da compiere è rallentare al massimo la registrazione dei loro versi, affidandosi quasi a uno "zoom" che ingrandisca le frequenze dei loro ultrasuoni. E mentre la ricerca lavora a una "biblioteca naturalista" (altra immagine ricorrente), questo continuo osservare, portare in superficie, rinominare, ricostruire attraverso le immagini arriva a svelare certi segreti meccanismi della contemporaneità.

Forse, in prospettiva, la seconda parte de La laguna del soldado chiede semplicemente più pazienza da parte dello spettatore, che si ritrova di fronte ai passaggi più disincantati, amaramente cinici del documentario, centratissimo nel raccontare certe storture del governo locale (che secondo alcuni degli intervistati si comporta in modo non troppo distante da chi quelle terre le ha martoriate centinaia di anni fa) ma anche nell'osservare amaramente lo stato di salute dello spirito ribelle, militante locale, che è quasi obbligato a reinventarsi attraverso questa lettura etica, scientifica della Reconquista, se è vero che il guerriero Bolivar ora è ridotto a un nome simbolico da evocare con calore ma senza troppa convinzione e della sua campagna, della sua avventura, non rimane altro che del materiale buono per dei musei.
Come a voler chiudere su un'ultima dicotomia, su una Storia che, nel momento in cui chiede di essere rievocata torna in gioco come farsa, quasi a porre in campo Quetzalcoatl, il serpente piumato azteco simbolo del tempo circolare, che mangia sé stesso, forse l'ultima vestigia apposta a uno spazio che chiede, con tutto sé stesso, di tornare all'origine di un'identità.

Categoria
Pablo Alvaro Mesa 77 minuti
Canada Colombia 2024
Immagine con larghezza massima
Larghezza massima

Small Hours of the Night

di Emanuele Polverino
Small Hours of the Night - recensione film HUi

C’è una donna, e c’è un uomo. Il bianco e il nero. La luce e l’oscurità. Un mondo che brucia e cade ai confini della storia.
Presentato all’ultimo International Film Festival Rotterdam e in concorso alla sessantesima Mostra Internazionale del Nuovo Cinema di Pesaro, Small Hours of the Night è il quarto lungometraggio del regista singaporiano, Daniel Hui. Un film in grado di eviscerare dalla memoria i drammi che scandirono la conquista dell’Indipendenza di Singapore, donando spazialità al dolore e trasformando una stanza buia nell’anticamera materiale di un paese sommerso dal sangue.

Il nero invade lo schermo, una fioca luce illumina il volto di un uomo seduto a un tavolo. Il fumo che scaturisce dalla sua sigaretta macchia l’oscurità, uno sguardo in camera e siamo lì anche noi. Pochi secondi dentro il film e le intenzioni del regista sono ben precise: non sei un semplice spettatore.
La voce fuori campo di una donna irrompe e spezza il silenzio, è il racconto di un tempo passato e la memoria di un amore perduto. Quello di un amante brutale, schiavo di regime e pedina senza volto del male; cieco esecutore di un Potere inviso ma inespugnabile, carnefice e portatore di un odio atavico che racconta con il sangue la nascita di uno stato. Storie che si intrecciano nei ricordi della donna, a volte narrati direttamente da lei, a volte restituiti dalla sua voce filtrata attraverso un registratore comandato dall’uomo, come una voce dall’oltretomba in un tempo indefinito. Ma una una scritta su schermo nero ci annuncia che siamo alla fine degli anni 60, l'incontro è un interrogatorio e l’uomo è l’estensione fisica del governo, non pone domande ma ascolta la voce di lei – dalle sue parole intuiamo, senza averne la certezza, che i due si conoscono. L’uomo guarda in camera, ci interroga con lo sguardo, non esiste controcampo. La nostra voce è quella della donna, rotta dal dolore per la prigionia e preoccupata per la sorte dei suoi cari.
Bianco e nero, i colori primari di questo proto-noir; un film in cui la narrazione si fa racconto e ricordo, dove è il lento oscillare di una lampada a rompere il buio per riportare alla luce gli orrori passati. Una verità che danza negli angoli più reconditi della stanza-paese, incroci di parenti che portano alla memoria le angoscianti illusioni ottiche catturate da Chantal Akerman in Hotel Monterey. Figure che si stagliano sui muri come in un teatro di ombre cinesi, crimini non mostrati ma restituiti dalla mente-proiettore della donna – la finestra sul mondo che trasmuta nel negativo di una pellicola - simbolo delle minoranze di estrema sinistra che subirono le atroci rivendicazioni politiche e razziali del potere vigente.

pesaro 52

È la storia riconsegnata a e dalla luce, che rompe l’oppressione dell’oscurità e la claustrofobia del formato usato da Hui, un 4:3 simbolo politico ancor prima che artistico, ben lontano dalle velleità arthouse degli ultimi tempi.
Immagini che si fondono e mutano in un mondo invaso dalla pioggia, una goccia che si unisce alla cenere sul pavimento è il sangue di innocenti che si amalgama alla terra. Un vetro-schermo che restituisce un mondo al di fuori che sembra bruciare, in un tripudio di forme e ombre sfocate che ricordano i lavori di Stan Brakhage. Eterogenee e liquide, immagini restituite e primarie che scandiscono la prima parte del film. Una lampada che gira vorticosamente – quasi il flash di una macchina fotografica - e finalmente il volto della donna che emerge dall’oscurità.

Una seconda parte che sarà perfetto controcampo della prima, una luce quasi malefica che permea lo schermo, la donna seduta su una sedia e il suo corpo martoriato dalle torture. Si guarda intorno, l’uomo è sparito e la sua voce arriva da un posto indefinito, noi siamo lui. La stanza rimane, forse la stessa, ma se prima il binomio risultava essere stanza-luogo, adesso diviene stanza-tempo. Un orologio che segna sempre date diverse ben precise, coordinate di sommari processi politici a esponenti del partito comunista. Crimini minori sentenziati con condanne a morte sommarie, uno stato che nasce sui corpi di innocenti.
Un bucolico finale e la figura di lei, inquadrata con un campo lunghissimo, che pian piano si immerge nelle acque di un lago. Un ritorno al brodo primordiale che sembra essere, agli occhi del regista, l’unica via di salvezza da propri ricordi e da un futuro ancor più incerto.


Il regista singaporiano sembra aver imparato al meglio la lezione di Joshua Oppenheimer e del su docu-film The Act of Killing, presentato nel 2012 al Telluride Film Festival. Nel quale, i diretti esecutori dei crimini della purga anticomunista, avvenuta in Indonesia tra il 1965 e il 1966, restituivano le immagini di quegli orrori mettendoli in scena attraverso l’utilizzo dei loro generi cinematografici preferiti (gangster, western etc.). Ed è attraverso l’espediente del noir, dei suoi colori primari bianco e nero, che Daniel Hui mutua il racconto della Storia, senza mai mostrare ma lasciando che le immagini arrivino a noi da una dimensione altra.
Small Hours of the Night è un film che non lascia scampo a nessuno, personaggi e spettatori. In grado di rimanere rigorosamente fedele a sé stesso nel suo essere estremamente politico, e nettamente al di fuori da discorsi e logiche di mercato. Un film-manifesto che con coraggio dichiara le sue intenzioni e si pone di fronte allo spettatore – diventando, a tratti, quasi un’istallazione – nel tentativo di risvegliarlo dal suo letargo.

Categoria
Daniel Hui Yang Yanxuan Vicki Irfan Kasban 103 minuti
Singapore 2024
Immagine con larghezza massima
Larghezza massima

Kind of kindness

di Maria Sole Colombo
kind of kindness recensione film

Con Kinds of Kindness, presentato in Concorso a Cannes 2024, Yorgos Lanthimos torna in sala a meno di un anno dal trionfo di Povere creature!. Cominciano le congetture: c’è chi loda la prolificità del greco, leggendovi il segno di una creatività incontenibile, e chi guarda con bonaria apprensione alla sua bulimia; c’è chi attende con viva speranza il ritorno dell’accoppiata Emma Stone/Willem Dafoe, e chi teme il confronto impossibile con l’opera precedente. Siamo nel regno delle ipotesi e delle speculazioni, ma una considerazione pare quantomai significativa: Kinds of Kindness ha un cast di prim’ordine, non c’è dubbio, ma è anche un film a episodi, e segna il ritrovato sodalizio tra Lanthimos e il suo sceneggiatore “storico”, Efthymis Filippou, figura centrale nella scena della Nuova onda greca. Kinds of Kindness si configura dunque, fin dalle sue premesse produttive, come opera “minore”: niente più che una parentesi, un divertissement, una raccolta di racconti all’interno di una filmografia magniloquente e ambiziosissima, tutta tesa a realizzare maestosi film-mondo. Si fregano le mani, speranzosi, i partigiani del “primo Lanthimos”, che leggono nella parabola del regista la vicenda di una progressiva corruzione, di un inesorabile compromesso con la macchina hollywoodiana.

Ma veniamo al film: il primo episodio racconta di un uomo che preferisce l’agio della schiavitù alla vertigine della libertà; il secondo ci dice di una moglie devota e di un marito che, non riconoscendola più, la chiama a un crudele martirio; il terzo parla di una setta imbecille, come tutte le sette, e dei sacrifici a cui costringe i suoi adepti. I fili narrativi sono labilissimi, quelli tematici spiccano invece a caratteri cubitali: come sempre, Lanthimos è interessato a sondare gli abissi del nonsenso, l’idiozia del mondo, la piccolezza intrinseca di tutto ciò che è umano, troppo umano. La struttura a episodi conferma l’impressione che ogni racconto funga, nella visione del suo autore, da parabola sapienziale, a dimostrazione di una verità unica e incontrovertibile: l’uomo è una povera creatura, l’amore è un’illusione, la solidarietà un inganno. E ancora: la società si fonda su convenzioni sciocche e arbitrarie, che accettiamo per paura di rimanere soli. Lezioncine di (a)morale, nichilismo for dummies.

Film dopo film, per veicolare questa sua gelida visione del mondo, Lanthimos ha messo a punto un impianto estetico raffinato e personale, che si ripropone pressoché invariato anche in Kinds of Kidness. Lo strumento principe è lo straniamento, la figura retorica privilegiata è l’iperbole. La premessa narrativa che apre ogni vicenda è un «metti che, per assurdo». Ogni elemento della messa in scena partecipa a questo sforzo: dalla colonna sonora algidissima, usata a mo’ di chiosa caustica, alla recitazione fortemente antinaturalistica, tesa a privare l’interazione umana di qualsiasi spontaneità; dalla scrittura asettica, perturbante, alla composizione fredda e calcolata dei quadri. I film del greco, non a caso, sono zeppi di dettagli inverosimili, personaggi con cui è impossibile empatizzare, consessi sociali regolati da leggi controintuitive.

emma stone kindo f kindness

Lanthimos è un regista maturo, evidentemente padrone del mezzo cinematografico, ma è anche un autore sadico, moralista, misantropo. È uno di quegli autori che si posizionano “al di sopra” – dello spettatore, del mondo che raccontano – e che rivendicano un potere dittatoriale sull’immagine. Se il cinema serve a dimostrare teoremi, non può esserci spazio alcuno per un palpito imprevisto, una vibrazione latente, un dettaglio che ecceda la visione totalizzante del suo autore. Per capire come sono fatte le cose, occorre smontarle. E quindi: un film è un’autopsia, un regista è un chirurgo.

Semplificando all’eccesso la parabola del regista, possiamo individuare in Dogtooth il momento in cui questa concezione del mondo (e del cinema) acerbamente si definisce; in The Lobster l’opera che sancisce la possibile convivenza tra visione autoriale e sistema industriale; in La favorita e ancor più in Povere creature! – per chi scrive – il tentativo un po’ piacione di sintonizzare questa poetica con le sensibilità e gli umori del contemporaneo. E Kinds of Kindness? Non è difficile, a proposito di questo film, parlare di uno stile che si è fatto maniera, di una visione che si è tramutata in dogma. Ma la verità è che, a prescindere da quel che crediamo del “Lanthimos pensiero” – del suo occhio-padrone, che controlla e ordina il reale – Kinds of Kindness tentenna proprio in questa sua vocazione “dimostrativa”, in questa sua missione di catechesi nichilista.

Se il film comincia nel segno di una scrittura precisissima e affilata, l’impaginazione si fa via via più abbozzata, sbadata, schematica. Il primo atto si dimostra ancora ficcante, ed è potente la visione che ne emerge (l’amore è una carneficina, una sistematica prevaricazione: preferiamo essere schiavi, però, che essere soli). Ma già nel secondo racconto le armi del Nostro appaiono spuntate, e l’episodio conclusivo sembra raccontarci, più che altro, di una ricerca morbosa del disturbante, di un disperato ricorso all’effetto shock. Le sbavature sono minime, ma fatali: d'altronde Lanthimos si è messo nella posizione impossibile di un vedutista che, impostosi un rigidissimo impianto prospettico, perda di vista una linea di fuga. Basta un millimetro, e salta il banco. E se nel primo atto il greco è ancora credibile, dall’alto del suo scranno di autore-vate, nel prosieguo del film comincia a somigliare a un folle che, da solo nel deserto, predica a squarciagola di un’apocalisse imminente.

Categoria
Yorgos Lanthimos Emma Stone Jesse Plemons Willem Dafoe Margaret Qualley Hunter Schafer Mamoudou Athie 164 minuti
Irlanda, UK, USA
Immagine con larghezza massima
Larghezza massima

Il gusto delle cose

di Andrea Vassalle
Il gusto delle cose recensione

“Il senso di un film è ciò che parola e gesto presi insieme provocano, qualcosa che passa dietro un volto, qualcosa di indefinibile, di misterioso e magnifico” - Robert Bresson

C'è un momento ne Il gusto delle cose in cui la cuoca Eugénie (Juliette Binoche) si trova in piedi alle spalle del suo chef e compagno Dodin (Benoît Magimel); allunga lentamente una mano verso di lui, quasi a volergli sfiorare dolcemente la testa, e la ritrae subito quando l'uomo si volta di scatto, come se avesse percepito il lieve movimento. Non è un gesto consueto per il personaggio, che in quel momento sembra estraniarsi da sé, e risulta indipendente, sospeso, svincolato. Nella sua fugacità racchiude il legame tra i due protagonisti, il loro esprimersi e percepirsi attraverso i gesti e i silenzi, prima che con le parole, ma anche l'impossibilità di toccarsi e congiungersi pienamente. Un gesto non è un fatto semplicemente fisico e corporeo ma una sintesi tra corpo e immagine, pensiero e linguaggio. «L’esibizione di una pura medialità», scriveva Giorgio Agamben, in una muta eloquenza, proprio come per l'immagine, che sottende l'essere-nel-linguaggio dell'uomo. Nel cinema l'immagine si fonde con il gesto, e se da una parte ne è la reificazione, dall'altra ne conserva il movimento, come mostrò Deleuze. Il gusto delle cose è un film che prende forma proprio attorno ai gesti (soprattutto quelli che concernono la cucina) e non è un caso probabilmente che uno dei punti di riferimento cinematografici di Tran Anh Hung sia Robert Bresson.

Per la prima mezz'ora sappiamo pochissimo del contesto narrativo e dei suoi personaggi, appena i loro nomi, ma ci troviamo trascinati in un'ammaliante sinfonia di azioni che si fanno gesti, che iniziano nell'orto e procedono in cucina. Mani che puliscono, che tagliano, che controllano pentole e mestoli, che modellano e quasi accarezzano il cibo, in una vera e propria coreografia composta da forme, colori, suoni e movimenti. Non c'è bisogno di parole o di narrazioni, è tutto incluso nell'eloquenza e nella liberazione della gestualità, che rivela l'anima dei due protagonisti e racconta il loro legame, trascendendo in qualcosa di altro, di sublime. La cucina come arte, dunque, dove la fugacità di un gesto - interrotto, sospeso, finalità senza fine - si trasforma in immagine. Gli ospiti definiscono Eugénie un'artista, complimentandosi dopo il lauto pranzo, e i suoi piatti suscitano in loro (e nello spettatore) sensazioni e passioni intense. La natura immaginifica della cucina si manifesta attraverso Pauline, la giovane nipote della governante, che all'assaggio della salsa bourguignonne riesce a vedere i singoli ingredienti e la loro preparazione (non li immagina solamente, li vede, li sente, in uno dei momenti più significativi del film), come singole immagini e frammenti sprigionati dal cibo, per arrivare poi alla soglia delle lacrime quando assapora l'omelette norvegese, in una sorta di sindrome di Stendhal culinaria.

Il gusto delle cose recensione gd

Se gli elementi narrativi sono rarefatti e non immediatamente delineati, l'ambientazione appare subito chiara. Il gusto delle cose è fortemente legato alla sua epoca, il XIX secolo, tanto che il tempo sembra far parte della narrazione stessa, veicolato in primo luogo attraverso la luce che illumina i volti, i luoghi, i piatti, dando una rilevante connotazione espressiva (pensiamo anche alla scena finale, dove la luce trasforma l'ambiente e rievoca immagini). È un racconto che può trovare spazio e compiutezza solo nel passato, con ritmi e percezioni differenti, prima che la società, come scriveva sempre Agamben in Mezzi senza fine, iniziasse a fare i conti con la perdita del gesto e della naturalezza. Proprio in quei ritmi e in quella naturalezza Dodin ed Eugénie trovano una profonda dedizione, indicatrice del rapporto che negli anni si è sviluppato tra di loro. Cucinare è il modo che hanno per rivelarsi, per comunicare («converso con voi attraverso quello che mangiate», dice Eugénie), per connettersi l'uno con l'altra. Tra i vapori che ammantano la cucina si annida un sentimento che travalica parole e intenzioni, un amore silente e vicendevole. Perché cucinare significa compiere un atto di riguardo, donarsi e dedicarsi all'altro con gesti d'amore che ne Il gusto delle cose celano anche una vena sottilmente erotica - i rapporti sessuali sono lasciati fuori campo, è con la cucina che si esplicita, anche fisicamente, la passione.

Sono due i pasti, mostrati interamente e nel dettaglio della loro preparazione, che scandiscono il film: quello iniziale, offerto agli amici e commensali di Dodin, e quello che Dodin stesso organizza per Eugénie. Il diverso modo in cui Tran Anh Hung li mette in scena è segno del progredire del racconto e ancor più dell'intimo evolvere dei sentimenti. La prima sequenza è una concertazione, esaltata da un montaggio ritmico e ammaliante e da sinuosi movimenti di macchina; il secondo è un assolo raccolto, quasi sussurrato, con cui "il Napoleone della gastronomia" dedica il suo amore a Eugénie, per poi sedersi a guardarla (a contemplarla) come già era avvenuto in camera da letto. Eppure Il gusto delle cose non è un film fatto solo di dettagli e di manifestazioni, ma è sotteso dalla relazione tra ciò che è visibile e ciò che è invisibile, tra quello che appare e quello che non viene mostrato. Due sono anche i pasti che non vengono messi in scena, per esempio, nonostante siano presentati e attesi, così come a rimanere fuori campo sono i rapporti sessuali e quel vivido passato che ha dato forma al rapporto tra i due protagonisti. E a ben vedere (a ben sentire, anzi) la colonna sonora del film è composta unicamente dai versi di uccelli di ogni tipo, che si fanno sempre più insistenti (sovrastando talvolta le voci); tuttavia non li vediamo mai, come se provenissero da un'altra epoca o da un altro luogo. Uno spazio in cui l'amore di Dodin e Eugénie può trovare finitezza, evocato dalle immagini finali che si offrono come una re-visione eterna e sospesa, richiamando il concetto di stasi descritto da Paul Schrader nel suo Il trascendente nel cinema.

Categoria
Tran Anh Hung Juliette Binoche Benoît Magimel Emmanuel Salinger 135 minuti
Immagine con larghezza massima
Larghezza massima

Twilight of the Warriors: Walled In

di Emanuele Polverino
Twilight of the Warriors: Walled In - recensione film Soi Cheang

Presentato in anteprima europea in occasione della “Midnight screenings” alla settantasettesima edizione del Festival di Cannes, Twilight of the Warriors: Walled In è il nuovo film del regista honkongese Pou-Soi Cheang.
Dopo il multiforme e assolutamente non inquadrabile Mad Fate (lanciato in anteprima mondiale al settantatreesimo Festival del cinema di Berlino), che in un certo senso sembrava accogliere, a suo modo, una tendenza ormai consolidata nelle produzioni cantonesi (basti pensare all’allucinogeno Peg O’ my heart di Nick Cheung, passato per Udine all’ultimo Far East Film Festival) di ritorno a un certo tipo di narrazione fortemente incentrata su credenze tipiche del retroterra rurale della città – molti dei film etichettati come “Categoria III” (un largo uso di elementi scabrosi) facevano leva su questo tipo di componenti. Elementi squisitamente religiosi e dichiaratamente anacronistici, in un ricorso sistematico ad amuleti, rituali sciamanici e sedute spiritiche. Un disperato ultimo slancio alla ricerca di una identità culturale che sembra ormai troppo lontana. Uno spirito che ha sempre caratterizzato gli horror fantasmatici – con cui lo stesso regista ha dato il via alla sua carriera a fine anni 90, inizio 2000 – e le produzioni di serie B.

Sono passati ventisette anni dal 1997, ed è evidenza comune a Hong Kong, per chi l’Handover lo subì sulla sua pelle, a non voler accettare, o perlomeno passivamente subire, le conseguenze del passaggio sotto il controllo della Mainland cinese. E se negli anni molti registi già affermati, che furono simbolo fulgido della golden age hongkongese, hanno cercato a loro modo di reagire al cambio di rotta - basti pensare ai viaggi oltreoceano di John Woo, al graduale avvicinamento di Tsui Hark alle megaproduzioni della "madrepatria", alla costante radicalizzazione e astrattismo dello stile in Johnnie To - c’è chi, supportato dalle maggiori (e ultime rimaste) case di produzione cantonesi, ha deciso di reagire e piantare saldamente i piedi a terra.
Twilight of the Warriors: Walled In si presenta quindi come un ulteriore tassello all’interno di questo processo di orgogliosa lotta culturale che il suo regista, Soi Cheang, sembra aver intrapreso negli ultimi anni, dal bellissimo e spiazzante Limbo. Un thriller a tinte nerissime, in un bianco e nero di rara potenza figurativa, che nel 2021 aveva fatto balzare sulla sedia gli amanti del cinema hongkongese, risvegliando in molti la speranza (drasticamente mal riposta) di una possibile rinascita.
Se, come detto in precedenza, gli ultimi brandelli di coscienza popolare, nella maggior parte delle produzioni, sembrano risiedere all’interno di gestualità, rituali e fantocci, dal valore puramente simbolico e pittoresco, i film di Pou-Soi Cheang sembrano trarre forza dalla storia stessa della città. Dai muri e dalle fondamenta che hanno contributo, negli anni antecedenti all’Handover, a elevare Hong Kong tra le più grandi metropoli del mondo, quale simbolo tecnologico e polo finanziario per tutta l'area sudorientale.

walled

Siamo nei primi anni 80, periodo in cui molte persone provenienti dalla mainland cercano in tutti i modi di entrare, legalmente e non, a Hong Kong. Esuli della rivoluzione culturale in cerca di una possibile rinascita, nell’unico posto in grado di offrire loro la possibilità di cambiare vita.
Chan Lok Kwan è un ramingo come molti altri, un guerriero senza patria e padrone che si guadagna da vivere combattendo in incontri organizzati dalla triade locale, comandata da Mr. Big (Sammo Hung), uno dei pochi superstiti delle prime guerre tra clan nella zona. Le circostanze porteranno Chan Lok Kwan a rifugiarsi nel complesso di Walled City – realmente esistita, la città murata di Kowloon nel 1990 contava quasi 50 mila abitanti - un agglomerato multiculturale di case, negozi e bordelli, controllato dal boss della triade Torando (Louis Koo), veterano di sanguinose battaglie di strada e maestro di arti marziali.
Il destino di Chan Lok Kwan - «it’s the goddamn fate» si dirà ad un certo punto - incrocerà quello degli abitanti di Walled City, riportando alla luce ferite passate e vendette non ancora consumate.

Twilight of the Warriors rappresenta la volontà di Pou-Soi Cheang di riappropriarsi di ciò che andò perso nel 97, nel tentativo di ristabilire una connessione con quel glorioso passato che rese grande la città. Tutto questo lo fa passando da uno dei luoghi più caratteristici: Walled City-Kowloon. Un santuario che porta sui suoi muri, come fossero cicatrici sul corpo, i segni di un passaggio d'epoca, dal periodo in cui Hong Kong poteva ancora ritenersi polo culturale del continente asiatico, simbolo virtuoso e modello economico. Una riconquista che passa direttamente dalla Storia, abbandonando per strada i rituali e i feticci, per tornare ad affidare il proprio destino alla danza mortale delle arti marziali. Una città che torna a respirare, un vento che si insinua tra gli ultimi spiragli urbani rimasti, per risollevare ciò che è rimasto sotto le ceneri di una città ormai morta.
Ossimori e disarmonie invadono così le immagini di Pou-Soi Cheang, parossistiche rappresentazioni dell’esasperata (dis)evoluzione di una metropoli che ha visto pian piano scomparire il suo orizzonte, e la dicotomia con il mondo rurale. Inglobato all’interno della rete urbana, il rimanente substrato agreste ha cominciato ad emergere dal di dentro come un virus, creando purulente escrescenze urbanistiche come il complesso di Kowloon. Disallineamenti nello skyline di Hong Kong, che portano con sé il peso della Storia.

Twilight of the Warriors: Walled In, inoltre, si dimostra un’opera in grado di modificare e reindirizzare i dettami della grammatica narrativa delle produzioni cantonesi, riuscendo a inserirsi all’interno di un dialogo stilistico che in occidente vede nella saga di John Wick il suo più virtuoso rappresentante. Intercettando, seppur lateralmente, un’idea di cinema che non nasconde la volontà di voler ampliare il suo raggio di influenze transmediali, arrivando ad accogliere un confronto anche con il mondo del videogame: per gli amanti del genere, molti spunti del film ricordano SIFU, un videogioco di arti marziali che già al suo interno conteneva chiari riferimenti al mondo cinematografico, tra Oldboy e The Raid – una struttura verticale, quella dei film di Gareth Evans, chiaramente ripresa e rimodella da Soi Cheang, tra la fisiognomica e il puro astrattismo dei corpi. In un flusso senza sosta di idee e rimandi che vede, di anno in anno, assottigliarsi sempre più la distanza tra i due universi.

«Hong Kong changes in the blink of an eye. Building are constantly being rebuilt». Un film che evidenzia, forse definitivamente, l’enorme talento di un regista in grado di non abbassare la testa nemmeno all’interno di contesti produttivi dettati dalla nuova "madrepatria" cinese, dimostrando che un cinema libero ad HK è ancora possibile, in grado di librarsi al di sopra degli immensi grattacieli, per poter tornare ad ammirare la città dall’alto.

Categoria
Pou-Soi Cheang Louis Koo Sammo Hung Raymond Lam Terrance Lau 125 minuti
Hong Kong 2024
Immagine con larghezza massima
Larghezza massima

L'Impero

di Emanuele Polverino
L'Empire - recensione film dumont

Vincitore del Premio della Giuria al 42esimo Festival del cinema di Berlino, L'impero è l’ultimo film di Bruno Dumont, presentato in anteprima italiana al Bellaria Film Festival e in arrivo nelle sale dal 16 giugno.

Se con Ma Lute siamo stati spettatori di un cambio di rotta all’interno del corpus filmico del registra francese, dominato da grottesche figure felliniane, chiari rimandi al realismo poetico pasoliniano – spesso citato in molte sue interviste –  e da un diverso approccio al reale, L'impero sembra essere a tutti gli effetti il punto di congiunzione tra la durezza del quotidiano della campagna francese, dipinta in lungometraggi precedenti come l’Humanité e Flanders, la fanciullesca innocenza (con tutti i crismi del caso) di P'tit Quinquin e la fantascienza da Invasione degli Ultracorpi di Coincoin et les Z'inhumains.
Ed è proprio da quel finale aperto che Dumont decide di partire per strutturare il suo ultimo film: tornano i paesaggi della Normandia con le sue spiagge sconfinate e i piccoli paesini distanti tra loro pochi chilometri, tornano i pescatori con le loro barche malandate e tornano, perché in realtà non se ne sono mai andati, gli alieni.

Bianco e nero, 0 e 1. Sono le due razze extraterresti - masse informi in grado di rimodellarsi e riprodurre la realtà intorno a loro - che, probabilmente da sempre, sono in lotta tra loro nel tentativo di annientarsi a vicenda. Queste, durante il loro peregrinare nello spazio profondo, hanno identificato la Terra come teatro perfetto nel quale poter consumare la loro ultima battaglia. Gli 1, le forze del “bene”, sono capeggiati da un consiglio di figure angeliche rappresentate da Jane (Anamaria Vartolomei). Gli 0, le forze del “male”, sono guidate da uno spietato dittatore che cercherà in tutti i modi di far germogliare il seme del male su tutta la terra attraverso suo figlio, affidato al cavaliere nero Jony (Brandon Vlieghe).

dumont gd

C’è sempre stata, nel cinema del regista francese, l’idea che qualcosa all’interno del mondo fosse in continuo contrasto. Una forza primigenia in grado di muovere i personaggi all’interno del quadro nel tentativo di spingerli verso altrove, verso la meraviglia aldilà dell’orizzonte. Una forza spesso riconducibile a inspiegabili cataclismi naturali – come non pensare all’incendio in Hors Satan (2011) – o a violente azioni umane – l’esplosione in Hadewijch (2009) – sintomo di una ricerca quasi istintiva verso quella forza polarizzante.
E così Dumont sembra voler dare una risposta proprio in questo senso, bene e male che da tempo immemore si sono sfidati nel tentativo di governare sulla terra, con il male intento a ritornare al nulla e il bene che cerca di convivere con gli umani, esseri visti da una parte come involucri vuoti perfetti per procreare, dall’altra come buffe creature dallo scarso spirito di sopravvivenza. Comunque sia perfettibili e abbandonate a loro stesse, in attesa che qualcosa o qualcuno arrivi a guidarle verso il loro destino.

Se L'Impero, come detto in precedenza, segna quindi un ulteriore passo all’interno del dittico P'tit Quinquin- Coincoin et les Z'inhumains, è però evidente che Dumot sia voluto ritornare su molti aspetti che hanno segnato il suo chiacchierato (e spesso stroncato) inizio di carriera.
Scene di sesso primordiale riprese con dei campi lunghi che tanto ricordano Flanders e Hors Satan, riferimenti ai genitali femminili - presenti in maniera esplicita e brutale nell'Humanité - quale origine unica del mondo: quando Jane va a trovare il consiglio supremo del suo popolo sulla nave madre, lo fa attraversando un varco dalla forma vaginale; mentre, quello degli 0, ovvero il male, è un buco nero. E ancora, uomo e donna che si incontrano nuovamente come numeri primi, esseri (quasi) perfetti che sembrano vivere ancora nel Giardino dell’Eden, ma da cui sono destinati a cadere. E se il frutto proibito in origine per Adamo ed Eva fu la mela, per Dumont saranno il corpo e l’anima. 
«Anche se siamo nemici, lo senti anche tu che i nostri corpi terreni si appartengono, senti anche tu quello che sento io nell’animo», dice Jane a Jony. La distanza tra 0 e 1, un semplice codice binario, acceso o spento. E quando quel vuoto si viene a colmare, in quel finale spettacolare, cioè che rimane non può essere che l’uomo stesso.

L'Impero è tanto Dumont, ma non è solo Dumont. È l’evidenza del fatto che un certo tipo di cinema esiste ancora, autori – o presunti tali – in grado di affermare con forza una personale idea di immagine nel tentativo di intercettare nuovi linguaggi, nuovi mondi e nuove possibilità. L’Impero è la dimostrazione che parlare di multiverso con originalità, nell’era del DC Universe, della Marvel e di Star Wars, è ancora possibile.
«
Ecco tutto».

Categoria
Bruno Dumont Anamaria Vartolomei Lyna Khoudri Camille Cottin Brandon Vlieghe 110 minuti
Francia 2024
Immagine con larghezza massima
Larghezza massima

Da Emmanuel Carrère a Jonathan Glazer, la comune immaginazione dell'orrore

di Simone Rossi
carrere glazer

Nel settembre del 2022 esce in Francia il nuovo libro di Emmanuel Carrère. Non è un romanzo, non è un saggio, è una meticolosa raccolta. Ogni mattina, per dieci mesi circa, lo scrittore – qui nelle vesti di giornalista inviato dal settimanale «Obs» - ha riferito le udienze del processo agli autori degli attentati terroristici avvenuti a Parigi il 13 novembre 2015, che tra il Bataclan, lo Stade de France e i bistrot presi di mira, hanno causato centotrenta morti e oltre trecento feriti.

Il suo libro dal titolo V13 arriva in Italia per i tipi di Adelphi e come riportato in quarta di copertina è il resoconto di «un processo che non sarà, come a volte si dice, la Norimberga del terrorismo: a Norimberga gli imputati erano alti dignitari nazisti, qui sono figure di secondo piano, dato che quelli che hanno ucciso sono morti». Dunque seduti tra i banchi non ci sono i Rudolf Hoess, ma gli inutili facilitatori, i fiancheggiatori talvolta inconsapevoli: il processo non consiste tanto nel riconoscimento e l'assegnazione di una colpa quanto nella restituzione ai familiari delle vittime e all'opinione pubblica di uno scenario realistico di quanto accaduto, il più possibile senza buchi, senza spazi di ambiguità; una ricostruzione serrata delle motivazioni degli attentatori, del modus operandi della strage, di quanto era stato fatto per scongiurare i terribili accadimenti di quella notte maledetta. Un viaggio dentro e attorno all'orrore e allo spaesamento di una metropoli come Parigi, colpita al cuore, nuovamente, dopo i fatti di Charlie Hebdo. Non è questa la sede per stigmatizzare le falle di un sistema di sicurezza nazionale che avrebbe dovuto prevedere e contenere l'inferno (per questo rimandiamo al bel film di Cedric Jimenez, I cinque giorni dopo il Bataclan, racconto di una città mappata eppure sfuggente, dove l'occhio delle camere di sicurezza – estensione del controllo umano – mostrano i propri punti ciechi, la negazione della visione d'insieme, il limite dello sguardo) quanto per muoversi nel tempo cristallizzato generato dall'Ile de la Cite, dove è stata costruita un'enorme scatola di tamburato bianco (45 metri per 15) senza finestre e capace di contenere seicento persone. Lo spazio prefabbricato di un processo.

v13 prcoesso

Ma cosa viene mostrato alle parti civili che partecipano al “processo del secolo”? Nel caso di Charlie Hebdo non ci si era risparmiati: foto scattate sulla scena dell'attentato, lo scempio dei corpi, l'intero video della sorveglianza con i fratelli Kouachi che spuntano fuori dal nulla, uccidono per un minuto e quarantanove secondi e fuggono via. Stavolta, invece, il presidente in accordo con gli agenti che per l'intera seconda settimana del V13 hanno proceduto alla meticolosa ricostruzione di quella sera, hanno compiuto la scelta opposta. Mostrare il minimo indispensabile: foto, ma da lontano; piantine; ambienti distrutti, ma vuoti; una quantità di “marcatori”, ma nessun corpo insanguinato. E poi un atto di sostituzione decisivo: al posto del materiale video disponibile un contributo audio (un frammento infinitesimale, appena 22 secondi delle due ore e 38 minuti incise su una piastra da uno spettatore che stava registrando il concerto al Bataclan). Perché? Per la giuria la mole di materiale raccolto, di testimonianze, di informazioni fornite nel tempo ai familiari delle vittime e all'opinione pubblica tutta, sono sufficienti a “dare un'idea” di quello che è successo. Un'idea talmente forte e chiara da far intuire l'abisso senza il suffragio delle immagini, senza la loro spietata assenza di ambiguità, arrivando al centro del dolore.

La zona d'interesse di Jonathan Glazer sembra farsi carico di questo azzardo. Non tanto e non solo sposando un punto di vista esterno al campo di concentramento di Auschwitz, frapponendo dunque un muro tra lo spettatore e l'orrore, ma concependo all'alba e al tramonto dell'opera gli estremi dello sguardo/visione. Le lettere bianche del titolo sprofondano nel nero della cornice e lo schermo resta così, inalterato, per due minuti e quattordici secondi. Nulla cambia a parte il suono che man mano cresce d'intensità spingendo lo spettatore a un lavoro di selezione: cogliere un ronzio, il canto lontano di un uccello, lo scorrere dell'acqua, il fruscio del vento. Quando l'immagine finalmente invade il campo già conosciamo il quadro raffigurato. Lo abbiamo ricostruito mentalmente. L'incipit scelto da Glazer è una dichiarazione d'intenti: vedere è superfluo quando abbiamo a disposizione gli strumenti per immaginare. In questo senso il dispositivo de La zona d'interesse compie una scelta che va ben oltre l'iniziale spaesamento/ribaltamento della messa in scena, in quanto le porzioni di spazio narrativizzate (quelle che descrivono la noiosa vita borghese della famiglia Hoess fatta di rituali, ripicche, gelosie, pasti e ore di sonno) convivono con le porzioni di puro spazio, non trasformate in ambienti, che trovano nel recinto del muro a un tempo il loro punto limite e la loro via di fuga. Se La zona d'interesse emerge dal buio più profondo per continuare a suggerire una visione superficiale di disturbo, l'unica opportunità di avere una prospettiva lucida sugli eventi non può che provenire dal futuro, da quello che non si è ancora fatto immagine, e che può essere colto solo attraverso una stra-visione (in senso kubrickiano): una luccicanza temporanea che filtra dallo spioncino di una porta che separa due secoli.

fgh

Glazer porta alle estreme conseguenze il modo di raccontare l'olocausto già proposto in tempi recenti da Il figlio di Saul di Laszlo Nemes e Austerlitz di Sergei Loznitsa: negarne la rappresentazione per metterne a fuoco il ruolo contemporaneo di luogo della memoria. Tenere la camera stretta sull'unico protagonista in campo (il sonderkommando Saul) sfocando o lasciando fuori dall'inquadratura l'azione intorno, o raccontare attraverso una serie di quadri fissi il turismo da campo di concentramento fatto di spuntini e selfie: i due gesti equivalgono all'erezione di un muro. Non è più tempo di costruire una drammaturgia attorno allo sterminio nazista degli ebrei quanto di testare la nostra disponibilità a scandalizzarci del vuoto. Di questo vuoto, che sarebbe lo spazio della contemplazione, abbiamo paura perché è l'esatto contrario del mondo che ci stiamo abituando a considerare: un territorio dove la disponibilità illimitata di immagini non ci permette più di provare a guardare oltre, a sentire altro, a fare tesoro del suono che arriva da lontano. Quello stesso vuoto che pare sorgere dalle viscere del corpo di Rudolf Hoess e lo costringe a fermarsi sulle scale appena uscito dal suo ufficio a Berlino per piegarsi e infine vomitare la sua stessa anima. La zona d'interesse è la banalità del male “condivisa” tra chi la mette in atto, chi l'accetta e chi l'osserva. Per sfuggire a questo appiattimento sull'orrore ci viene in soccorso proprio Hannah Arendt quando fa riferimento al concetto di “difficile appartenenza” e traccia il profilo dell'ebreo paria consapevole, di colui che si rende partecipe della comunità in cui vive preservando la capacità critica dell'outsider. Glazer e il suo film ci chiedono questo: di stare dentro un meccanismo, di accettarne le regole, nottetempo di minarne il campo, per non limitarci a demonizzare il passato, ma per cercare nel presente i segni di una sua restaurazione. Perché il tempo non è una linea che scivola in avanti, ma si muove in circolo, come il miracolo ingegneristico dei forni crematori, come la rosa che cresce splendida dalla cenere dei morti.

Siamo noi a scegliere da quale parte del giardino stare. Siamo noi a dover decifrare le visioni di Hoess: una finestra sul futuro o sul passato? Saperlo vedere (riconoscere) è il vero atto politico.

Categoria
Immagine con larghezza massima
Larghezza massima
Iscriviti a