L'Impero

di Emanuele Polverino
L'Empire - recensione film dumont

Vincitore del premio della giuria al 42esimo Festival del cinema di Berlino, L’Empire è l’ultimo film di Bruno Dumont, presentato in anteprima italiana al Bellaria Film Festival e in arrivo nelle sale dal 16 giugno.

Se con Ma Lute siamo stati spettatori di un cambio di rotta all’interno del corpus filmico del registra francese, dominato da grottesche figure felliniane, chiari rimandi al realismo poetico pasoliniano – spesso citato in molte sue interviste –  e da un diverso tipo di approccio al reale, l’Empire sembra essere a tutti gli effetti il punto di congiunzione tra la durezza del quotidiano della campagna francese, dipinta in lungometraggi precedenti come l’Humanité e Flanders, la fanciullesca innocenza (con tutti i suoi vari crismi del caso) di P'tit Quinquin e la fantascienza da Invasione degli Ultracorpi di Coincoin et les Z'inhumains.
Ed è proprio da quel finale aperto che Dumont decide di partire per strutturare il suo ultimo film: tornano i paesaggi della Normandia con le sue spiagge sconfinate e i piccoli paesini distanti tra loro pochi chilometri, tornano i pescatori con le loro barche malandate, e tornano, perché in realtà non se ne sono mai andati, gli alieni.
Bianco e nero, 0 e 1. Sono le due razze extraterresti - masse informi in grado di ri-modellarsi e riprodurre la realtà intorno a loro - che, probabilmente da sempre, sono in lotta tra loro nel tentativo di annientarsi a vicenda. Le quali, durante il loro peregrinare nello spazio profondo, hanno identificato la Terra come teatro perfetto nel quale poter consumare la loro ultima battaglia. Gli 1, le forze del “bene”, sono capeggiati da un consiglio di figure angeliche rappresentate da Jane (Anamaria Vartolomei). Gli 0, le forze del “male”, sono guidate da uno spietato dittatore che cercherà in tutti i modi di far germogliare il seme del male su tutta la terra attraverso suo figlio, affidato al cavaliere nero Jony (Brandon Vlieghe).
C’è sempre stata, nel cinema del regista francese, l’idea che qualcosa all’interno del mondo fosse in continuo contrasto. Una forza primigenia in grado di muovere i personaggi all’interno del quadro nel tentativo di spingerli verso altrove, verso la meraviglia aldilà dell’orizzonte. Una forza spesso riconducibile a inspiegabili cataclismi naturali – come non pensare all’incendio in Hors Satan (2011) – o a violente azioni umane – l’esplosione in Hadewijch (2009) –, sintomo di una ricerca quasi istintiva verso quella forza polarizzante.
E così Dumont, sembra voler dare una risposta proprio in questo senso, bene e male che da tempo immemore si sono sfidati nel tentativo di governa sulla terra, il male per ritornare al nulla, e il bene per cercare di convivere con gli umani. Visti da una parte come involucri vuoti perfetti per procreare, dall’altra come buffi esseri con poco spirito di sopravvivenza. Creature perfettibili abbandonate a loro stesse, in attesa che qualcosa, o qualcuno, li arrivi a guidare verso il loro destino.Se L’Empire, come detto in precedenza, ha segnato un ulteriore passo all’interno del dittico P'tit Quinquin- Coincoin et les Z'inhumains, è però evidente che Dumot sia voluto ritornare su molti aspetti che hanno segnato il suo chiaccherato (e spesso stroncato) inizio di carriera.
Scene di sesso primordiale riprese con dei campi lunghi che tanto ricordano Flanders e Hors Satan, riferimenti ai genitali femminili - presenti in maniera esplicita e brutale nell'Humanité - quale origine unica del mondo: quando Jane va a trovare il consiglio supremo del suo popolo sulla nave madre, lo fa attraversando un varco dalla forma vaginale; mentre, quello degli 0, ovvero il male, è un buco nero. Origin
L’uomo e la donna che si incontrano nuovamente come numeri primi, esseri (quasi) perfetti che sembrano vivere ancora nel Giardino dell’Eden, ma da cui sono destinati a cadere. E se il frutto proibito in origine per Adamo ed Eva fu la mela, per Dumont saranno il corpo e l’anima.
<< Anche se siamo nemici, lo senti anche tu che i nostri corpi terreni si appartengono, senti anche tu quello che sento io nell’animo >> dice Jane a Jony. La distanza tra 0 e 1, un semplice codice binario, acceso o spento. E quando quel vuoto si viene a colmare, in quel finale spettacolare, cioè che rimane non può essere che l’uomo stesso.

L’Empire è tanto Dumont, ma non è solo Dumont. È l’evidenza del fatto che un certo tipo di cinema esiste ancora, autori – o presunti tali – in grado di affermare con forza una personale idea di immagine nel tentativo di intercettare nuovi linguaggi, nuovi mondi e nuove possibilità

L’Empire è la dimostrazione che parlare di multiverso con originalità, nell’era della Marvel, di Star Wars e Dune, è ancora possibile

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Bruno Dumont Anamaria Vartolomei Lyna Khoudri Camille Cottin Brandon Vlieghe 110 minuti
Francia 2024
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Da Emmanuel Carrère a Jonathan Glazer, la comune immaginazione dell'orrore

di Simone Rossi
carrere glazer

Nel settembre del 2022 esce in Francia il nuovo libro di Emmanuel Carrère. Non è un romanzo, non è un saggio, è una meticolosa raccolta. Ogni mattina, per dieci mesi circa, lo scrittore – qui nelle vesti di giornalista inviato dal settimanale «Obs» - ha riferito le udienze del processo agli autori degli attentati terroristici avvenuti a Parigi il 13 novembre 2015, che tra il Bataclan, lo Stade de France e i bistrot presi di mira, hanno causato centotrenta morti e oltre trecento feriti.

Il suo libro dal titolo V13 arriva in Italia per i tipi di Adelphi e come riportato in quarta di copertina è il resoconto di «un processo che non sarà, come a volte si dice, la Norimberga del terrorismo: a Norimberga gli imputati erano alti dignitari nazisti, qui sono figure di secondo piano, dato che quelli che hanno ucciso sono morti». Dunque seduti tra i banchi non ci sono i Rudolf Hoess, ma gli inutili facilitatori, i fiancheggiatori talvolta inconsapevoli: il processo non consiste tanto nel riconoscimento e l'assegnazione di una colpa quanto nella restituzione ai familiari delle vittime e all'opinione pubblica di uno scenario realistico di quanto accaduto, il più possibile senza buchi, senza spazi di ambiguità; una ricostruzione serrata delle motivazioni degli attentatori, del modus operandi della strage, di quanto era stato fatto per scongiurare i terribili accadimenti di quella notte maledetta. Un viaggio dentro e attorno all'orrore e allo spaesamento di una metropoli come Parigi, colpita al cuore, nuovamente, dopo i fatti di Charlie Hebdo. Non è questa la sede per stigmatizzare le falle di un sistema di sicurezza nazionale che avrebbe dovuto prevedere e contenere l'inferno (per questo rimandiamo al bel film di Cedric Jimenez, I cinque giorni dopo il Bataclan, racconto di una città mappata eppure sfuggente, dove l'occhio delle camere di sicurezza – estensione del controllo umano – mostrano i propri punti ciechi, la negazione della visione d'insieme, il limite dello sguardo) quanto per muoversi nel tempo cristallizzato generato dall'Ile de la Cite, dove è stata costruita un'enorme scatola di tamburato bianco (45 metri per 15) senza finestre e capace di contenere seicento persone. Lo spazio prefabbricato di un processo.

v13 prcoesso

Ma cosa viene mostrato alle parti civili che partecipano al “processo del secolo”? Nel caso di Charlie Hebdo non ci si era risparmiati: foto scattate sulla scena dell'attentato, lo scempio dei corpi, l'intero video della sorveglianza con i fratelli Kouachi che spuntano fuori dal nulla, uccidono per un minuto e quarantanove secondi e fuggono via. Stavolta, invece, il presidente in accordo con gli agenti che per l'intera seconda settimana del V13 hanno proceduto alla meticolosa ricostruzione di quella sera, hanno compiuto la scelta opposta. Mostrare il minimo indispensabile: foto, ma da lontano; piantine; ambienti distrutti, ma vuoti; una quantità di “marcatori”, ma nessun corpo insanguinato. E poi un atto di sostituzione decisivo: al posto del materiale video disponibile un contributo audio (un frammento infinitesimale, appena 22 secondi delle due ore e 38 minuti incise su una piastra da uno spettatore che stava registrando il concerto al Bataclan). Perché? Per la giuria la mole di materiale raccolto, di testimonianze, di informazioni fornite nel tempo ai familiari delle vittime e all'opinione pubblica tutta, sono sufficienti a “dare un'idea” di quello che è successo. Un'idea talmente forte e chiara da far intuire l'abisso senza il suffragio delle immagini, senza la loro spietata assenza di ambiguità, arrivando al centro del dolore.

La zona d'interesse di Jonathan Glazer sembra farsi carico di questo azzardo. Non tanto e non solo sposando un punto di vista esterno al campo di concentramento di Auschwitz, frapponendo dunque un muro tra lo spettatore e l'orrore, ma concependo all'alba e al tramonto dell'opera gli estremi dello sguardo/visione. Le lettere bianche del titolo sprofondano nel nero della cornice e lo schermo resta così, inalterato, per due minuti e quattordici secondi. Nulla cambia a parte il suono che man mano cresce d'intensità spingendo lo spettatore a un lavoro di selezione: cogliere un ronzio, il canto lontano di un uccello, lo scorrere dell'acqua, il fruscio del vento. Quando l'immagine finalmente invade il campo già conosciamo il quadro raffigurato. Lo abbiamo ricostruito mentalmente. L'incipit scelto da Glazer è una dichiarazione d'intenti: vedere è superfluo quando abbiamo a disposizione gli strumenti per immaginare. In questo senso il dispositivo de La zona d'interesse compie una scelta che va ben oltre l'iniziale spaesamento/ribaltamento della messa in scena, in quanto le porzioni di spazio narrativizzate (quelle che descrivono la noiosa vita borghese della famiglia Hoess fatta di rituali, ripicche, gelosie, pasti e ore di sonno) convivono con le porzioni di puro spazio, non trasformate in ambienti, che trovano nel recinto del muro a un tempo il loro punto limite e la loro via di fuga. Se La zona d'interesse emerge dal buio più profondo per continuare a suggerire una visione superficiale di disturbo, l'unica opportunità di avere una prospettiva lucida sugli eventi non può che provenire dal futuro, da quello che non si è ancora fatto immagine, e che può essere colto solo attraverso una stra-visione (in senso kubrickiano): una luccicanza temporanea che filtra dallo spioncino di una porta che separa due secoli.

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Glazer porta alle estreme conseguenze il modo di raccontare l'olocausto già proposto in tempi recenti da Il figlio di Saul di Laszlo Nemes e Austerlitz di Sergei Loznitsa: negarne la rappresentazione per metterne a fuoco il ruolo contemporaneo di luogo della memoria. Tenere la camera stretta sull'unico protagonista in campo (il sonderkommando Saul) sfocando o lasciando fuori dall'inquadratura l'azione intorno, o raccontare attraverso una serie di quadri fissi il turismo da campo di concentramento fatto di spuntini e selfie: i due gesti equivalgono all'erezione di un muro. Non è più tempo di costruire una drammaturgia attorno allo sterminio nazista degli ebrei quanto di testare la nostra disponibilità a scandalizzarci del vuoto. Di questo vuoto, che sarebbe lo spazio della contemplazione, abbiamo paura perché è l'esatto contrario del mondo che ci stiamo abituando a considerare: un territorio dove la disponibilità illimitata di immagini non ci permette più di provare a guardare oltre, a sentire altro, a fare tesoro del suono che arriva da lontano. Quello stesso vuoto che pare sorgere dalle viscere del corpo di Rudolf Hoess e lo costringe a fermarsi sulle scale appena uscito dal suo ufficio a Berlino per piegarsi e infine vomitare la sua stessa anima. La zona d'interesse è la banalità del male “condivisa” tra chi la mette in atto, chi l'accetta e chi l'osserva. Per sfuggire a questo appiattimento sull'orrore ci viene in soccorso proprio Hannah Arendt quando fa riferimento al concetto di “difficile appartenenza” e traccia il profilo dell'ebreo paria consapevole, di colui che si rende partecipe della comunità in cui vive preservando la capacità critica dell'outsider. Glazer e il suo film ci chiedono questo: di stare dentro un meccanismo, di accettarne le regole, nottetempo di minarne il campo, per non limitarci a demonizzare il passato, ma per cercare nel presente i segni di una sua restaurazione. Perché il tempo non è una linea che scivola in avanti, ma si muove in circolo, come il miracolo ingegneristico dei forni crematori, come la rosa che cresce splendida dalla cenere dei morti.

Siamo noi a scegliere da quale parte del giardino stare. Siamo noi a dover decifrare le visioni di Hoess: una finestra sul futuro o sul passato? Saperlo vedere (riconoscere) è il vero atto politico.

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UNA SPIEGAZIONE PER TUTTO

di Saverio Felici
Una Spiegazione per tutto recensione film Reisz

Una Spiegazione Per Tutto risolve con stile una contraddizione spesso urticante al cuore del cinema d’autore europeo: la tendenza a presentarsi come sacca di resistenza alla commercializzazione, appiattendosi allo stesso tempo su un proprio campionario di filoni e tendenze non meno rigidi dei temuti genres hollywoodiani. Spesso basta poco, la consapevolezza della propria maniera, la lucidità del sovvertire il minimo, per cavare un suono diverso dallo strumento. Lo trova l’ungherese Gábor Reisz al suo terzo lungometraggio, incoronato a Orizzonti dopo due piccoli lavori passati a Torino e mai distribuiti. Saggiamente sforbiciato di 25 minuti, Una Spiegazione per Tutto porta ora in sala una vorticosa e a tratti spiazzante variazione su diversi temi dell’audiovisivo continentale. Un’opera familiare nell’impostazione e imprevedibile nello sviluppo, che svecchia la maniera grazie alla collisione tra mondi cinematografici, sottolineandone le contraddizioni nel contesto di un mesto spaccato sociale.

Tanti film-spettri infestano e possiedono Una Spiegazione per Tutto, chiamando in causa il nostro senso di già-visto nei confronti del suo esile spunto. Due gli archetipi della commedia cui il film si rifà: il coming of age liceale da un lato, lo scontro di civiltà tra famiglie di differente estrazione e credo ideologico dall’altro. Altre suggestioni abituali: una scansione diaristica del plot, la frammentazione dei punti di vista, l'assenza dal film del fatto chiave (qui, un presunto quanto feroce alterco politico di cui ognuno ha una versione differente, e che non vedremo mai).
Il dramma personale di Abel (Gáspár Adonyi-Walsh), la cui bocciatura all’esame di maturità diverrà suo malgrado un caso nazionale, è allora la storia di un “protagonista sbagliato”, ragazzino non troppo sveglio nella Budapest orbaniana, che carambola fuori da un teen movie e dentro la Storia: quella ingombrante, con la maiuscola, come la materia che tanto odia, e che travolgerà i patemi individualisti del suo piccolo film.

Districarsi dai rovi del passato, quindi della società intera, è il sogno di ogni adolescente incapace di quel vitalismo apollineo che gli si presuppone. Ed è quindi l’ossessione segreta di questo anti-eroe, teenager inquieto  in linea a certi protagonisti di Maurice Pialat, svegliatosi dall’era del movimento studentesco in quella della destrosità repressa e infelice.
La sua è quindi una lotta metacinematografica per liberare il bildungsroman dalle maglie del film-teorema, istituzione mitteleuropea che da Fassbinder in poi incastra personaggi-allegorie nei marchingegni delle proprie tesi. Le due figure paterne che ne stritolano l’esistenza sono infatti ideologie politiche incarnate, la cui sgradevolezza e complessità di fondo bastano a elevare il testo scritto da Eva Schulze al di sopra di tanti prodotti analoghi (saldamente arroccati sul cliché del progressista-martire e del fascio-scimmia). Nessuna consapevolezza ideologica guida questi “adulti”: piuttosto un rancore sordo e infantile, un senso di frustrazione endemico, come quello che tormenta il personaggio dell’enorme István Znamenák. I ragazzi, spaventati e impotenti come mai il Novecento li avrebbe immaginati, non possono che sbattere ignari contro muri invisibili, soffocanti come il formato-gabbia dei 4:3 che ne stringe i volti in un film angoscioso, trappola senza uscita perché scavata da decenni e generazioni.

Merita infine una menzione il dialogo (ovviamente casuale, e quindi ancor più importante) che Una Spiegazione per Tutto intrattiene con un recente prodotto-gemello dell’industria nostrana: il funereo Altro Ferragosto di Paolo Virzì.
Registi e autori del continente registrano ormai da anni la freddezza di quel Pubblico (nella doppia accezione di masse e di spettatori) per cui vorrebbero farsi portavoce di istanze sane. Diverse filmografie, diverse rappresentazioni di questa drammatica e un po’ patetica guerra intestina: tanto l’odiato popolino è abominevole in Virzì, tanto Reisz riconosce agli ungheresi (non cialtroni ma lavoratori, tassinari, parrucchiere, idraulici) la sobria dignità del proprio malessere. L’iperrealismo smorza il tono giudicante della macchina da presa, in un momento storico in cui la centralità comunicativa che fu del cinema è ormai passata ad altri media - e questo temuto giudizio non sembra più prenderci granché.

La croce diventa allora l’eredità del nostro passato recente: svilito e dimenticato nell’Italia dell'autore livornese, ritornante fin troppo presente nell’Ungheria di Reisz. Da una parte, un messaggio finale di morte e apocalisse privata annega nel Mediterraneo-Stige le speranze riformiste; dall’altra, un’elegia della rinascita che scacci i fantasmi cammina sulle acque del Balaton. Una Spiegazione per Tutto chiude su un bisogno di fuga urlato, sì, ma forse illusorio: perché i suoi piccoli anti-eroi sono innocenti quanto cretini, e l’invito a rompere per sempre con i padri nasconde forse un’incapacità ancora irrisolta di farci i conti.

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Gàbor Reisz Gáspár Adonyi-Walsh István Znamenák András Rusznák Rebeka Hatházi 128 minuti
UNGHERIA 2023
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Attraverso lo Specchio: Perfect Blue

di Jacopo Bonanni
Copertina

«Non mi pareva che essere io, proprio io, io vero, io in persona, fosse la stessa cosa che essere la mia immagine»
La scacchiera davanti lo specchio, Massimo Bontempelli (1922)

Lo psicologo e filosofo sovietico Alexander Spirkin sostiene nei suoi libri che l’essere umano tende, per sua stessa natura, ad assimilare e a interiorizzare le caratteristiche della società in cui cresce e da cui inevitabilmente viene influenzato, per imitazione o per antitesi. Ne consegue che non è possibile comprendere a fondo la produzione di un autore senza conoscere il contesto storico e socioculturale in cui essa si colloca. Il caso Satoshi Kon non fa eccezioni. Per analizzare l’impatto epocale che le sue opere hanno esercitato sull’immaginario cinematografico orientale (e non), è necessario rilevare i mutamenti in atto su scala globale. In tal senso, gli anni novanta rappresentano un decennio cruciale, a livello internazionale, per il mondo dell’animazione. Infatti, mentre nei cinema occidentali spopolano i futuri classici del cosiddetto “Rinascimento Disney”, che risolleveranno le sorti del colosso americano dell’intrattenimento dopo una fase di stallo, nel paese del Sol Levante una nuova generazione di autori - guidata da Mamuro Oshii (Ghost In the Shell), Hideaki Anno (Neon Genesis Evangelion) e Shin'ichirō Watanabe (Cowboy Bepop) - sancisce definitivamente la fine dell’ età dell’innocenza dell’animazione giapponese e l’ingresso in quella della maturità. Questa transizione viene siglata da una serie di opere seminali per il genere, qualitativamente eccelse, in grado di oltrepassare i confini nazionali e farsi apprezzare anche all’estero grazie alla massiccia diffusione del mercato home video.

Evangelion

Influenzati dall’esperienza dello Studio Ghibli e dagli scenari apocalittici descritti in film come Akira, gli anime, ritenuti fino quel momento produzioni ancora acerbe rispetto ai manga in termini di tematiche trattate, smettono di essere percepiti come veicoli di pura evasione per trasformarsi, sia sul grande che sul piccolo schermo, in efficaci strumenti di indagine antropologica capaci di riflettere le angosce e le frustrazioni dei più giovani, analizzando i conflitti presenti all’interno di società altamente tecnologizzate fino a mettere in discussione le politiche sociali ed economiche che hanno condotto il paese sull’orlo del collasso, tra la fine degli anni ottanta e l’inizio del nuovo millennio. Tutte le narrazioni sviluppate in quest’arco temporale risentono inevitabilmente degli influssi nefasti del “decennio perduto”: un periodo storico estremamente drammatico per la popolazione giapponese, vittima di un clima di instabilità e sfiducia generalizzate che culminerà con il tragico terremoto di Kobe e il durissimo attentato terroristico della setta religiosa Aum Shinriykō alla metropolitana di Tokyo, sconvolgendo l’opinione pubblica.

Akira

Tra gli esponenti più originali e rappresentativi di questa nuova stagione cinematografica, contraddistinta da una maggiore libertà sul piano artistico e da una rinnovata sensibilità su quello culturale, si distingue la figura di Satoshi Kon: un autore fuori dagli schemi, un “agente della paranoia” moderna a metà strada tra Lewis Caroll e Philip K. Dick, destinato a rivoluzionare con le sue visioni premonitrici il futuro dell’animazione e dell’arte in senso lato, al pari di maestri del calibro di Hayao Miyazaki e Katsuhiro Ōtomo. Non a caso, sarà proprio il creatore di Akira a proporre il nome di Kon, suo protetto e collaboratore, come regista di Perfect Blue: un progetto liberamente ispirato all’omonimo romanzo di Yoshikazu Takeuchi, scrittore e giornalista impegnato nello studio della comunità otaku, ovvero gli appassionati di anime e manga. Forte della sceneggiatura di Sadayuki Murai (Knights of Sidonia), l’adattamento di Kon, più complesso e stratificato della sua controparte letteraria, sfrutta al massimo le potenzialità tecniche ed espressive del linguaggio animato che il regista già padroneggia, tramutando lo script originale, incentrato sulle vicissitudini sanguinolente di una giovane cantante idol perseguitata da uno stalker, nel viaggio allucinato di una novella Alice alla ricerca dell’innocenza perduta nei recessi più oscuri della civiltà delle immagini, dove i confini tra la vita reale e la finzione cinematografica si assottigliano, fino a perdere del tutto significato.

Perfect 2

Attraverso gli occhi di Mima Karogoe, protagonista di una storia di alienazione urbana e schizofrenia latente ambientata alle soglie dell’alfabetizzazione informatica, tra simulacri digitali, identità sdoppiate e ossessioni voyeuristiche, Kon non solo anticipa l’insorgere delle psicosi collettive che alimentano la trilogia di Matrix ma denuncia senza pietà le aberrazioni di un sistema, quello dello showbusiness, che non fa prigionieri, come testimonia il controverso universo nipponico delle idol. Parliamo di una fabbrica di lolite iper-sessualizzate, date in pasto alle fantasie morbose del pubblico maschile in cambio di fama e successo e poi inghiottite dagli ingranaggi della depressione o relegate nell’anonimato più totale al compimento della maggiore età. Un circo mediatico inarrestabile, fondato sulla mercificazione del corpo femminile che, a pensarci bene e con le dovute proporzioni, non si discosta eccessivamente dal modello proposto dall’industria dello spettacolo occidentale: la parabola della popstar Britney Spears lo può confermare. La riflessione di Kon si estende anche alla nascente cultura degli otaku: un'espressione estremamente popolare nella sua accezione positiva ma che in patria ha assunto, a fasi alterne, anche una connotazione negativa fino ad indicare delle vere e proprie devianze comportamentali, amplificate dai media, soprattutto in seguito ai ripugnanti omicidi commessi da Tsutomu Miyazaki, soprannominato l’“Otaku Killer”, un individuo profondamente disturbato, colpevole di aver rapito, violentato e ucciso quattro bambine tra i tre e i sette anni. Quest' episodio da cui il film attinge nel delineare il profilo dello stalker, ha contribuito a sottolineare quei processi ossessivo/compulsivi di auto-emarginazione casalinga e disagio esistenziale, vissuti da migliaia di adolescenti, che avrebbero sollevato il problema degli hikikomori: un fenomeno sociale estremamente diffuso negli anni a venire anche negli Stati Uniti e in Europa.

Perfect 2

Quando Perfect Blue debutta in anteprima nelle sale, durante il festival Fant’Asia’ 97 di Montreal in Canada, il film suscita immediatamente l’interesse degli addetti ai lavori, aggiudicandosi i favori della critica. È evidente che lo sconcertante esordio alla regia di Kon non è il solito lungometraggio figlio dell’anime boom ma il manifesto avant-pop di un artista colto e visionario. Si tratta infatti di una pellicola d’animazione anomala anche per gli standard giapponesi dell’epoca: un sofisticato thriller psicologico dall’architettura onirica, diviso tra realismo e astrazione, che il veterano del cinema Roger Corman non esita a definire con entusiasmo il bizzarro risultato di “un’ideale collaborazione tra Alfred Hitchcock e Walt Disney”. Come la maggioranza degli autori postmoderni, Kon non fa mistero delle ispirazioni cinematografiche di cui si nutre il suo cinema, soprattutto per quanto riguarda l’intelaiatura a spirale della sua narrazione, esplicitando le affinità elettive nei confronti di alcuni registi anticonvenzionali come Terry Gilliam, e in particolar modo verso coloro che hanno interiorizzato e fatta propria la lezione del maestro inglese della suspense come Brian De Palma e Dario Argento, con cui il regista nipponico condivide l’interesse per la rappresentazione della follia, il tema del doppelgänger e la parzialità dei punti di vista.

Perfect 3

A partire da Perfect Blue, la relazione tra la psiche e lo schermo assume un ruolo centrale nella poetica di Kon, tanto è vero che la presenza assidua dello specchio all’interno dei sui film, come riflesso simbolico dell’interiorità dei suoi personaggi, non rappresenta soltanto l’emblema dell’ordine e della simmetria ma rivela la natura metamorfica dell’individuo, contiene l’inverosimile e il paradosso, tutto ciò che nella quotidianità non è visibile e che va scoperto a qualunque costo, esponendosi a qualsiasi rischio per prendere coscienza della propria identità personale. Di conseguenza anche lo schermo del cinema, inteso come dispositivo principe dell’esperienza mediale, si fa specchio ed è compito del regista governare il flusso ininterrotto di immagini che invadono la mente del pubblico, sfidando lo sguardo ad andare oltre le apparenze, per affrontare la realtà e decodificare la complessità del mondo che ci circonda. Un compito che il cinema di Satoshi Kon, una vera e propria “macchina dei sogni”, non ha mai smesso di adempiere, nonostante la prematura scomparsa del suo creatore avvenuta nel 2010.

Kon

La sua breve ma significativa filmografia continua a essere, ancora oggi, una fucina di suggestioni e considerazioni sempre rivolte alla crescita cognitiva dello spettatore, ma anche un’occasione di analisi e di confronto per approcciarsi agli artisti che, a loro volta, sono stati influenzati dalle opere di Kon, da Christopher Nolan (Inception) a Darren Aronofsky (Requiem for a Dream, Il Cigno Nero), fino ad arrivare a David Lynch (Inland Empire). Per questa ragione, tornare a vedere al cinema un film come Perfect Blue a distanza di quasi trent’anni dal suo concepimento, nell’epoca della post-verità, dell’esclusione sociale e dell’equivocità delle esperienze multimediali, suscettibili a ogni genere di contraffazione, significa tornare a interrogarci sulla nostra contemporaneità senza rifugiarci nella celebrazione del passato ma celebrando, semmai, il talento di un autore in anticipo sul futuro, quello che stiamo vivendo.

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Satoshi Kon 81 minuti
Giappone, 1997
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Challengers

di Maria Sole Colombo
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Luca Guadagnino è nato in Sicilia nel 1971. A dispetto del numero vergato sulla carta di identità, però, è un autore fanciullo – e dunque, negli anni 20 di questo secolo, un autore della Generazione Z. Lo è diventato grazie a una trilogia un po’ sghemba – Call Me by Your Name, We Are Who We Are e Bones and All – , tre canti sentimentali e insieme politici che rivendicano fin dal titolo le urgenze identitarie care allo spirito del tempo. Della Gen Z Guadagnino intercetta il mood, i simboli e i volti (lancia Timothée Chalamet, tanto per dire) ma riesce soprattutto in un’impresa portentosa: il suo cinema è compiutamente queer nella misura in cui arriva a dar forma a ciò che, per definizione, forma non ha. È un cinema che sa rappresentare appieno la fluidità, in tutte le sue accezioni possibili: essere fluidi significa rigettare convenzioni e ansie definitorie, essere e amare chi si vuole, ma anche abbracciare uno stato liquido, sfuggente, di sfumata melanconia. Opere come We Are Who We Are nuotano in un languore che flirta con l’abbandono e sconfina in una forma laica di cupio dissolvi (non a caso, Guadagnino frequenta volentieri i paesaggi acquarellati del Nord Italia – lui che, borbonico e massimalista, potrebbe tranquillamente fare il Dolce & Gabbana del cinema italiano).

Challengers, ambientato nel mondo del tennis agonistico, si inserisce con piena coerenza nella filmografia di Guadagnino, e le pone al contempo sfide nuove e ardimentose: come si coniugano il “cinema del languore” e l’epica sportiva? Come possono, corpi abbandonati ed efebici, protendersi nel gesto atletico perfetto, atto sovrumano di volontà? E ancora: c’è spazio per i palpiti mélo cari al regista, nella drammaturgia meccanica del racconto sportivo? L’apparente contraddizione è risolta nella proposta coraggiosa di un cinema pansessuale: l’elettricità statica che percorreva i corpi acerbi di Call Me by Your Name e Bones and All, animandoli di vibrazioni incerte e latenti, accende i protagonisti di Challengers di una vitalità piena, compiuta, prepotente. Il personaggio di Tashi Duncan, incarnata da Zendaya in una prova di nervosa perfezione, è il centro gravitazionale e l’anima del film: tennista magnetica e feroce, che un maledetto infortunio trasformerà in “promessa mancata”, Tashi diviene il vertice di un triangolo amoroso e incestuoso con due fratelli-nemici, Patrick (Josh O’Connor) e Art (Mike Faist).

Zendaya è l’oggetto del desiderio irraggiungibile, la promessa di una felicità destinata a infrangersi, ma è anche Guadagnino: la regista, la demiurga, l’arbitro di gara. È la depositaria del “verbo” dell’autore, che non a caso, in una delle prime scene del film, le mette in bocca parole che sanno di manifesto programmatico: giocare a tennis – dice lei – è come fare l’amore. Quest’equivalenza informa di sé l’ossatura narrativa di Challengers e le scelte stilistiche che gli danno carne e sostanza. La trance agonistica è la trance erotica, il campo da gioco è lo spazio geografico in cui si inscrivono geometrie sentimentali complesse. Le regole del tennis irreggimentano e insieme assecondano precise leggi del desiderio, mentre il gesto tecnico perfetto, che chiude game set e match, è l’orgasmo a cui s’approda alla fine dell’amplesso.

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Nel finale di Challengers, frenetico e commovente, il gioco si fa scoperto. Già da qualche minuto la pallina aveva cominciato a schizzare da una parte all’altra del campo chiamando a sé la macchina da presa, lanciata all’inseguimento delle sue traiettorie ubriache. La partita decisiva che fa da cornice a tutta la vicenda culmina nella foga di un abbraccio omoerotico (doppio fedele, anche nella composizione del quadro, di una scena d’amore speculare e gemella, consumata sul letto di una camera d’hotel). Ecco, quell’abbraccio finale è un’immagine limpida, un’esplicita chiave di lettura del racconto: la vera storia d’amore è quella tra Patrick e Art. Il punto è che Challengers non è un film “sottile”. Guadagnino è un esteta ingordo, che non ha paura di affidarsi ciecamente al proprio gusto. Non ha paura nemmeno del kitsch, e si concede di conseguenza immagini scopertamente patinate: frequenta gli spazi dei più triti porno gay (la sauna, gli spogliatoi), seziona al microscopio muscoli turgidi e gocce di sudore. Reclama un tempo cinematografico disordinato ed elastico, che permette brusche accelerazioni e lunghe parentesi digressive – il ralenti, non a caso, è figura ricorrente e pervasiva del film. La musica può irrompere di prepotenza, pompando ogni scena di pulsazioni adrenaliniche. Il cinema di Guadagnino è ossessionato dalla forma e nondimeno pare posseduto da una fascinazione infinita per immagini organiche – con la macchina da presa che volteggia come in un rituale d’accoppiamento, che sublima con la sua danza una penetrazione impossibile.

Questo dualismo si impernia su una tessitura mélo di estrema complessità: la scrittura di Challengers si allinea al battito non di uno, ma di tre cuori. I personaggi sono superfici, corpi plastici da contemplare da vicinissimo, ma sono anche volumi, percorsi da mondi interiori ben cesellati. Le leggi di attrazione disegnano traiettorie imprevedibili ma credibili, tratteggiano psicologie perverse e affascinanti, animate da sentimenti tanto intensi da chiamare a sé la furia degli elementi (l’uragano che si scatena nel prefinale del film).

Ha del miracoloso, che Guadagnino sia riuscito a inscrivere questa coreografia sensualissima nel campo da tennis – uno sport aristocratico, elegante, cerebrale; uno sport “non di contatto”. Il prodigio prosegue dopo i titoli di coda: cosa sono gli outfit “tennistici” sfoggiati da Zendaya in occasione dei numerosi eventi di promozione del film? Rielaborazioni giocose e camp dei codici della moda sportiva: stilemi dello sportswear strappati all’imperativo barboso della comodità, liberati dal grigiume del “buon gusto”. Challengers può anche questo, tutto è desiderio, tutto è gioco, tutto è vita. Io, Luca Guadagnino, sono l’amore.

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Luca Guadagnino Zendaya Josh O'Connor Mike Faist 131 minuti
USA 2024
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Leme do Destino

di Emanuele Polverino
Leme Do Destino – recensione film bressane

Dalle parole alle immagini, sulla purezza dello sguardo come gesto necessario e innato verso la ciclicità della vita e la forza distruttiva della natura. Un caleidoscopico viaggio attraverso un mondo che vive di numeri primi, dove il controcampo diventa un dialogo tra quadro e fuori campo – come tra passato e presente - e le immagini riacquistano unicità vincendo la finzione della scrittura. Leme do Destino è l'ultimo film di Júlio Bressane, passato recentemente per il Buenos Aires Festival Internazionale del Cinema Indipendente.

Era il 1975 e durante l’intervista a Grande Otelo (famosissimo attore del cinema classico brasiliano) – in un cortometraggio dal nome Viola Chinesa reperibile su YouTube o Vimeo, sottotitolato in italiano in quanto parte di una retrospettiva del 2012 su Fuori Orario – Julio Bressane regalava al mondo quello che in seguito passerà alla storia come manifesto ideologico del cinema sperimentale brasiliano (costola del Cinema Novo): «l’arte è imitazione, imitazione di un processo della natura, non copia. L’arte è deformazione, l’arte è anormalità, l’arte è conflitto. Pertanto, il cinema è erotico». E ancora oggi, a distanza di quasi 50 anni, Bressane rimane saldamente ancorato ai dettami di ciò che venne fuori da quella poliedrica e allucinogena intervista con Otelo, un pamphlet di idee che segneranno la sua carriera di cineasta ribelle, anarchico e rivoluzionario. In costante antitesi con ciò che l’industria negli anni è diventata, e sempre più relegato a una dimensione di poète maudit, simbolo di quel brevissimo periodo in cui nel cinema prevalevano le libertà ideologiche ed espressive. A partire da un’idea che vede nella forza dei fenomeni naturali la più alta forma di comunicazione a cui l’uomo può aspirare, una riproduzione allegorica di un mondo platonico verso cui la macchina da presa dovrebbe dirigere il suo sguardo per poter ambire alla purezza massima dell’immagine. Immagini che in Bressane diventano passione e slancio erotico per il semplice motivo di essere imitazione del mondo, forza centripeta che spinge l’uomo sempre più verso la semplicità del reale (importantissimo per questo motivo, nel finale del film, il ricorso al formato e a un linguaggio puramente documentaristico)

Scritto a quattro mani con la moglie, Rosa Dias, Leme do Destino (Rudder of Destiny il titolo internazionale) diventa la loro ottava collaborazione ed è la storia di due donne, di cui non sapremo mai i nomi, che in maniera del tutto naturale – sempre a riprendere quell’idea di ciclicità e ripetizione che caratterizza il cinema dell'autore – diventano amanti. Le due sono entrambe scrittrici, e condividono l’idea che il modo migliore per scrivere un romanzo sia quello di farlo per sé stessi, dove la pubblicazione andrebbe a fare perdere quella unicità da numero primo.

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Di fatto l'dea di arte a cui Bressane ha sempre ambito, arrivando a professare la necessità, se non il dovere, per un regista di ignorare, in fase di creazione del film, lo spettatore in quanto interlocutore. Questo perché un’opera che punti unicamente alla soddisfazione del pubblico quale fine ultimo, è un film che non potrà far altro che veicolare immagini false e allineate all’idea concomitante di successo monetario. Un cinema che quindi si allontana dall’idea di purezza delle immagini per diventare vera e propria industria, dove la trama e l’intreccio prendono il sopravvento sul montaggio quale simbolo distintivo di ogni regista. Un film che decide di parlare attraverso una sceneggiatura, per Bressane, e non per immagini, cadrà inevitabilmente nel circolo vizioso consumistico per cui ciò che conta davvero è il valore monetario della produzione e non il valore di un’opera in quanto tale.

Un appiattimento delle immagini che il regista brasiliano aveva già analizzato nel bellissimo Sedução da Carne (2018) e che riprende con forza in questo suo ultimo lungometraggio, per ribadire ancora una volta l’importanza della visione di un film per il film in quanto tale, e non perché basato su qualcosa o qualcuno. Un gesto, come dice lo stesso Bressane in una masterclass del 2018, che dovrebbe essere indirizzato «a sentire le immagini» e non a ricercare una trama o un intreccio, e che garantirebbe al cinema come arte una forza tale (attraverso la purezza delle immagini quale diretta espressione del reale) da attraversare e sorpassare tutte le altre, compresa la letteratura. Nel tentativo di staccarsi dalla mediocrità delle produzioni contemporanee, e di elevare ciò che più di tutto è in grado di catturare la forza distruttiva della natura e il suo naturale erotismo come passione per il conflitto: il cinema.

Leme do Destino è l’ennesimo tassello che cesella la carriera di un regista sempre troppo poco considerato (in Italia ha avuto fortunatamente parecchio risalto grazie ad alcune retrospettive, tra festival minori e puntate di Fuori Orario), fortemente anticommerciale e fieramente libero da ogni vincolo e lontano da ogni restrizione produttiva.

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Júlio Bressane Josie Antello Simone Spoladore João Vitor Silva Debora Olivieri 73 minuti
Brasile 2023
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Los colonos

di Mattia Caruso
Los colonos - recensione film galvez

Patagonia, inizi del Novecento. Tre uomini – un ex tenente inglese (Mark Stanley), un mercenario texano (Benjamin Westfall) e un giovane “mestizo” (Camilo Arancibia) – partono per rivendicare alcune terre e, insieme, aprire una tratta verso l'Atlantico per conto del capitalista José Menéndez (Alfredo Castro). Ma, con il proseguire del viaggio, diventa drammaticamente chiaro come il vero obiettivo della spedizione sia un altro.

C'è una linea invisibile che unisce Los colonos, esordio del cileno Felipe Gálvez Haberle, già vincitore del premio FIPRESCI a Cannes 2023, a un film come Re Granchio di Alessandro Rigo de Righi e Matteo Zoppis. Una sensibilità che non si esaurisce nelle location o nella fotografia, satura e contrastata, di Simone D'Arcangelo, che i due film condividono, ma che ha prima di tutto a che fare coi modi in cui il racconto, la leggenda e l'immaginario (anche di genere) dialogano col reale, col presente, con la Storia, fino a deformarla o reinventarla. È da qui, da questa dimensione oscura e altra, dove il reale si perde tra le suggestioni di un incubo allucinato, che parte Los colonos. Un contro-mito fondativo che racconta di una mistificazione per troppo tempo taciuta, dell'invenzione di una pacificazione – quella tra coloni e nativi selk’nam – di fatto mai avvenuta. Ma anche delle metamorfosi di un Potere che, pur cambiando pelle (il passaggio dal colonialismo ai regimi dittatoriali, due periodi storici con cui il cinema sudamericano si sta confrontando sempre più spesso negli ultimi anni), resta sempre lo stesso.

Prendendo la forma del classico viaggio attraverso la wilderness, coi suoi paesaggi incontaminati a dominare la scena e sovrastare i personaggi, Los colonos parte così facendo propri i codici del western per poi ribaltarli (l'opera di “civilizzazione” compiuta dai protagonisti richiama il classico scontro tra natura e cultura, pervertendolo), raccontando la nascita di una nazione edificata sul sangue, sulla pulizia etnica, sul denaro, lo stupro e il latrocinio. Un mondo dove l'uomo bianco occupa terre e disegna confini, indifferente a tutto quello che ci sta in mezzo, elevando il genocidio a naturale stato delle cose, e la prevaricazione a unico mezzo possibile al servizio del Capitale. Un sistema degenere capace, però, di sopravvivere sempre e comunque, inventandosi, all'occorrenza, una giustizia fatta a propria immagine e somiglianza, passando sopra a crimini secolari in virtù di una posticcia e artificiale unificazione.

È tra le contraddizioni di questo sistema che si insinua allora la macchina da presa di Gálvez. Mettendo al centro di quella vicenda rimossa e invisibile il dispositivo cinematografico stesso. Facendo emergere, da una parte, l'ambiguità insita nelle immagini, la capacità mistificatrice nascosta dietro l'“ufficialità” del documento storico (esemplare la scena finale, con la letterale messa in scena di una pacificazione forzata), dall'altra, la verità che vi si nasconde dietro, capace di resistere, fiera e muta, a ogni appropriazione indebita, a ogni riscrittura menzognera, a ogni mito fondato sul sangue. Ieri come oggi.

 

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Felipe Gálvez Haberle Alfredo Castro Mark Stanley Benjamin Westfall Camilo Arancibia 97 minuti
Argentina, Cile, Danimarca, Francia, Germania, Regno Unito, Svezia, Taiwan 2023
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The First Slam Dunk

di Emanuele Polverino
slam dunk recensione film

Uscito recentemente su Amazon Prime Video, in modalità di acquisto o noleggio, The First Slam Dunk è l’adattamento del manga omonimo, scritto e diretto dallo stesso Inoue Takehiko, che decide di trasporre la sua opera anche al cinema, dopo averla adattata per la televisione negli anni ’90 subito dopo l’uscita del fumetto. Il film si articola nel tempo di una singola partita, la più famosa e significativa per i lettori del manga, che vede antagonisti lo Shōhoku di Miyagi Ryota, il perno di tutta la storia, e il San'nō, la squadra degli invincibili giganti, in grado di rimanere imbattuta per sedici anni di fila.

Se l’opera originale utilizzava le singole partite di qualificazione ai campionati nazionali per esplorare il passato di ogni componente della squadra, questa volta Inoue decide di costruire la sua narrazione attorno a un singolo protagonista, diverso da quello del manga, ovvero il già citato Miyagi Ryota. Playmaker e simbolo di una squadra composta da seconde scelte, talenti troppo puri per poter essere domati (Mitsui Hisashi e Rukawa Kaede) e dilettanti allo sbaraglio (Sakuragi Hanamichi).
Ed è attraverso un perfetto uso dei flashback, che scandiscono il ritmo della storia come i rimbalzi sul parquet, che la profondità del manga trova spazio anche nel film: ogni personaggio, durante tutto il corso della partita, si ritroverà a fare i conti con il proprio passato, a partire dai duri momenti dell’infanzia di Miyagi e la morte di suo fratello, passando per Mitsui e il suo abbandono dal mondo del basket, fino ad arrivare a Sakuragi. Da cui le fila del racconto cinematografico incontreranno quelle del manga: i suoi flashback sono il riassunto dei volumi che precedono gli eventi narrati dal film, con la fatica e il sudore spesi per arrivare a giocare la partita più importante dell’anno.

slam dunk intr

E così, the First Slam Dunk diventa la perfetta trasposizione dello spokon per eccellenza, ipercinetico e schizzato; lo spazio e il tempo dell’azione si dilatano e contraggono tra ralenti e velocizzazioni, dove uno sguardo in grado di avvolgere tre tavole diventa un istante, un frame, poco prima di un tiro decisivo. La palla diventa testimone indiretto dei sentimenti di ognuno dei protagonisti, prodromo in grado di scandire l’arrivo di ogni flashback – un tiro da tre di Mitsui, un passaggio di Miyagi o una schiacciata di Rukawa – simulacro di uno sport che vede nel collettivo il suo più grande punto di forza, dove l’eccellenza del singolo al servizio della squadra diventa esaltazione massima del talento. Anatomie dei corpi che grazie all’animazione diventano perfetto controcampo del tratto preciso e mai scomposto di Inoue, dove la potenza del gesto atletico si ripercuote sul terreno di gioco con lo stesso fragore delle tavole del manga: un tuffo nel vuoto alla Dennis Rodman che si cristallizza in pochissimi frame come in una singola pagina del manga, preludio di un flusso di coscienza che si condensa nel tempo di un tiro e il rumore della retina che sancisce il ritorno al tempo e allo spazio della partita. “Difendiamo, qui e ora”. Ed è proprio nel finale di partita che il film trova il suo massimo momento di vicinanza con l’opera originale, nella quasi totale assenza di sonoro e un’animazione che si fa via via sempre più astratta, dove in uno stacco di montaggio – come nelle tavole del manga – le distanze si annullano, il tempo si contrae e il linguaggio filmico incontra quello del disegno.

Un film che riesce senza dubbio ad accontentare i fan più agguerriti dell’opera originale, diventandone manifesto ideologico e riuscendo ad affascinare anche chi ancora non conosceva le gesta sportive dei cinque ragazzi dello Shōhoku.
Ed è proprio qui che Inoue compie il suo piccolo miracolo, condensando 20 volumi in poco meno di due ore, dando alla storia un taglio differente e più cinematografico, ma senza tradire il cuore pulsante del manga. Un testo che ancora oggi, a distanza di più di trent’anni, riesce a essere intergenerazionale e punto di riferimento non solo all’interno del genere, ma come vero e proprio slice of life in grado di appassionare generazioni di lettori.  

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124 minuti
Giappone 2022
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Historias Extraordinarias

di Saverio Felici
HISTORIAS EXTRAORDINARIAS recensone film Llinas

L’unica certezza di fronte ad Historias Extraordinarias, è quella di avere a che fare con un prototipo. Come per ogni prototipo, anche per il primo film narrativo di Mariano Llinás e del Pampero Cine occorre ripensare i criteri di giudizio: quelli che abbiamo, codificati più di cento anni fa dalla lentissima, quasi immobile evoluzione del mezzo cinematografico, non sembrano aiutarci più di tanto. Se persino il cinema sperimentale si è da decenni appiattito sui modelli dei propri santi patroni, figurarsi quello narrativo - figurarsi quello narrativo di genere. E’ proprio nella convergenza immaginaria tra installazione museale, blockbuster epico e b-movie che Llinás intende concepire un film che, regole alla mano, non si può fare. Rianimando gli scheletri delle più vecchie teorie, Historias Extraordinarias dà vita ad un modello semplicemente diverso, forse non replicabile nello specifico, ma indicativo di potenzialità intrinseche al mezzo troppo precocemente date per esaurite. 

Cos’è, in concreto, Historias Extraordinarias: tre storie di suspense senza inizio e senza conclusione, ognuna strutturata su una decina di ulteriori storie, ognuna con i propri eroi, comparse, divagazioni e nuove storie ancora. In oltre quattro ore totali, le lande argentine (che ancora oggi danno il nome alla casa) diventano il foglio bianco su cui liberare il moto di tre protagonisti-vettori. Sono sguardi senza voce, negazioni di personaggi senza nome né passato, alla deriva nel labirinto di storie umane che disegna l’epopea. Il loro discorso è indiretto, senza dialoghi: un narratore mai inquadrato racconta, il film ne segue le parole. Un pensiero che si forma in immagini nel momento stesso in cui è enunciato, appunti visivi dal taccuino di una vecchia betacam.

Ridefinendo i dogmi dello storytelling, Historias Extraordinarias riallaccia il cinema ad una matrice (anche) letteraria spesso messa in secondo piano nella genealogia del medium. Sono gli autori stessi a chiarirlo nella presentazione-manifesto che accompagnò il film a Torino: “Due passioni reggono il corso di queste storie - la felicità di viaggiare, e la gioia di narrare”. Raccontare e (di)vagare: allo spettatore il compito di districare i collegamenti (formali, tematici, narrativi) tra le infinite parti che compongono il trionfo, costellazione vertiginosa il cui senso sta, come sempre, nello sguardo di chi vi si perde. Barocchismo esasperato e/o improvvisazione ludica: l’impossibilità a tirare una linea tra le due apparentemente opposte modalità creative ci dà la profondità di questo flusso ibrido, e delle sue potenzialità espressive.

Mariano Llinás vede nel cinema una terra inesplorata, e nel reale un caos di fotogrammi che i vecchi codici non sanno più riarticolare. Historias Extraordinarias esiste dunque anche come bonario sfottò alla pigrizia endemica dell’Industria, delle solite formule e le solite forme - se per “forma” di un film ne intendiamo la struttura interna di rapporti significanti, seguendo la formulazione del recentemente scomparso e pochissimo ricordato David Bordwell. Ridiscutere questi rapporti diviene allora la priorità - portare il medium dove ancora non si trova, a costo di farne terra bruciata nel ritorno quasi sprezzante all’amatorialità. Audiovideo da home-movie, attori non professionisti guidati in diretta, disintegrazione dei tre atti in cacofonie organizzate: nell’ansiosa ricerca di una futuribilità per il cinema che caratterizza questi anni, cos’è poi Historias Extraordinarias (e il suo splendido compendio Trenque Lauquen) se non la polarità opposta e complementare alla trascendenza tecnico-tecnologica suggerita da James Cameron con i suoi Avatar. Ironica ma significativa coincidenza come le date di uscita del dittico della Weta e quello del Pampero Cine combacino: un periodico insistere che tutto è ancora vuoto, da costruire, che si parta dal tutto o dal niente.
Llinás, Citarella, Mendilaharzu e Moguillansky avevano chiara dall’inizio la meta di questo apparente nomadismo: “dimostrare e dimostrarci che l’avventura e il rischio sono ancora territori possibili per il cinema; che un film può essere fatto sulla strada, costituito da quell’infinito labirinto di cammini”. 

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Mariano Llinás Mariano Llinás Agustín Mendilaharzu Walter Jakob 245 minuti
Argentina 2008
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One Day

di Brunella De Cola
one day recensione

È la notte del 15 luglio del 1988 quando Dexter (interpretato da Leo Woodall, un giovane Michael Pitt) e Emma (interpretata dall’attrice indiano-britannica Ambika Mod) si conoscono a Edimburgo, alla festa della loro laurea, sulle note di Your Love di Frankie Knuckles. Trascorrono la notte insieme, si baciano, si toccano e si sfiorano ma non fanno sesso: secondo le volontà di Emma, parlano fino ad addormentarsi. Emma è brillante e intelligente, la ragazza che si è laureata con lode e ha il poster di Fino all’ultimo respiro in casa; Dexter è il ragazzo borghese che, dando un po’ tutto per scontato nella vita, ha come piani futuri solo l’obiettivo di diventare “ricco e famoso”. La mattina seguente, sempre per volontà di Emma, si ritrovano a scalare l’Arthur's Seat, il famoso vulcano spento di Edimburgo e a trascorrere l’intera giornata insieme, fino all’interruzione causata dall’arrivo dei genitori di Dexter. I due ragazzi, seppur innamoratesi l’uno dell’altra, decidono di rimanere amici e così li ritroviamo, anno dopo anno, nel corso delle puntate della serie, sempre il 15 luglio, San Svitino, il giorno in cui se piove, poi pioverà per tutta l’estate. One Day è quindi il racconto di due vite intrecciate, quella di Emma e Dexter, attraverso molti anni. Così cambiano i tagli di capelli, i lavori, le relazioni ma, tra gli alti e i bassi di entrambi i ragazzi, il loro legame è qualcosa di molto più potente della vita stessa che scorre.

È una perfetta trasposizione del libro omonimo di David Nicholls, questa miniserie Netflix, in cui lo scrittore appare come executive producer e la sceneggiatura degli episodi è invece affidata per la gran parte alla vincitrice del BAFTA Nicole Taylor. Una serie che dà largo spazio anche al tema della diversità, coinvolgendo vari attori di colore: oltre che la co-protagonista Ambika Mod, anche il ruolo della migliore amica di Emma, Tilly, è interpretato dall’attrice Amber Grappy. Così, sulle note dei New Order, Radiohead, Nico, Lou Reed, Portishead, Cat Power e molti altri, ci ritroviamo, anno dopo anno, Dexter e Emma, a volte sopraffatti dalla durezza della vita, nel loro cammino personale non sempre brillante, forse realisticamente con più bassi che alti. Tuttavia, nonostante le opportunità mancate tra i due (come ad esempio il viaggio in Grecia) e le delusioni che entrambi prendono dalla vita, il loro legame sussiste: Emma pensa sempre a Dexter e per quest’ultimo la ragazza è un punto di riferimento fondamentale anche quando si ritrova senza bussola, perso nelle droghe e nell’alcolismo.

Ambika Mod e Leo Woodall sono gli Em & Dex perfetti in una serie in 14 puntate che ci fa riflettere sul senso dell’amicizia e dell’amore. Perché l’amore è in fondo uno dei legami d’amicizia più potenti, come ci insegnava anche Harry ti presento Sally. E anche se a volte ci si incammina su strade diverse, si intraprendono altre relazioni amorose e la vita scorre su binari differenti, il filo rosso che lega alcune persone resta indistruttibile, anche quando si discute e magari si arriva a punti di divergenza totali, anche quando ognuno sembra essere sul proprio cammino, così distante dall’altro, quando il silenzio è l’unica forma di comunicazione. E se tra due persone c’è questo tipo di legame, ci sarà per sempre, perché anche distrattamente, l’uno penserà all’altra e viceversa, e il ricordo riaffiorerà sempre nelle menti di entrambi.

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Ambika Mod Leo Woodall Eleanor Tomlinson Essie Davis Miniserie da 14 episodi
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