Opera senza autore (Werk ohne Autor)

di Domenico Saracino
Opera senza autore - recensione film

In Le vite degli altri, l’esordio che più di dieci anni fa rese Florian Henckel von Donnersmarck uno dei più promettenti autori europei (oltre che Premio Oscar per il miglior film straniero), il capitano della Stasi Gerd Wiesler, incaricato di spiare un famoso intellettuale col fine di indagarne il grado di pericolosità per la Repubblica Democratica Tedesca, viene profondamente cambiato dall’incontro con l’arte e la letteratura cui lo spiato dedica gran parte del suo tempo. Arrivando, nel corso dello sviluppo narrativo, a ribaltare i propositi iniziali e ad aiutarlo, invece di incastrarlo come si aspettavano i suoi superiori.
Opera senza autore (Werk ohne Autor), l’ultimo ambizioso lavoro di von Donnersmarck sembra voler tornare a riflettere – dopo l’inconcepibile e francamente indifendibile parentesi hollywoodiana di The Tourist  –  su questo tema, approfondendo le implicazioni dell’assunto di base; la convinzione, cioè, che l'esperienza artistica possa costituire una forza modellatrice in grado di cambiare radicalmente la percezione, le convinzioni e dunque l’agire stesso del soggetto attivamente o passivamente coinvolto in essa.

È attorno a (e dentro) questo campo di indagine teorica, a questa idea, che il regista tedesco costruisce il suo racconto audiovisivo, incentrato sulla vita di un artista fittizio, Kurt Barnert, la cui storia trae cospicua ispirazione dalla biografia di Gerhard Richter, uno dei più importanti artisti viventi.

Il film narra le tappe principali della vita di Kurt, dall’infanzia profondamente segnata dal regime nazista, sia in termini affettivi, a causa degli effetti devastanti dell’agghiacciante disegno eugenetico portato avanti dal partito nazionalsocialista, che di concezione dell’arte, fino alla consacrazione come artista di fama. In mezzo la grande storia d’amore con Ellie.

Per quanto concerne la parte narrativa, il racconto risulta tutto sommato avvincente e ben gestito, sia nei tempi che nella qualità della scrittura, con picchi dal coinvolgimento emotivo indiscutibile, pur se minati da qualche eccesso di retorica. Tuttavia l’aspetto più riuscito è quello intellettualmente stimolante, ovvero legato all’impianto teorico di base. L’arte, dunque, e la sua capacità di mettere in crisi, di separare, di cernere e quindi rendere discernibile qualcosa. Di rivelare la verità, o almeno qualcosa che possa avvicinarsi ad essa. Si pensi in questo senso, a mero titolo esemplificativo, al noto ingrandimento fotografico in Blow Up, che a questa tecnica affida lo svelamento di particolari fondamentali per permettere al protagonista di avanzare nella propria operazione investigativa, sebbene poi la ricerca si rivelerà comunque infruttuosa, depistata da una realtà impossibile da afferrare fino in fondo. C’è una chiara consonanza tra questa intuizione di Blow up e l’incapacità dell’arte, in Opera senza autore, di identificare il colpevole (e, quindi, di rendere giustizia alle vittime), di smascherare gli inganni. Pur mantenendo inalterato il suo carattere epifanico, l'arte, dice von Donnersmarck, porta inevitabilmente con sé, dentro di sé, nel suo stesso farsi, il vissuto personale, la soggettività dell’artista e dello spettatore. Nel passaggio dall’oggetto al soggetto che caratterizza l’intero Novecento, dalla modernità alla contemporaneità, dalle “belle arti” alle avanguardie storiche, si è persa definitivamente l’illusione di poter stabilire l’autenticità, sia della creatura che del creatore. È l’opera allografica (senza autore, appunto) che soppianta l’opera autografica, l’opera cioè che esiste sotto la forma di un oggetto unico, non riproducibile senza che la perdita di autenticità sia quantomeno evidente.

L’opera esiste e acquisisce statuto di verità solo nella sua attualizzazione, che è sempre a carico del fruitore. È da questa consapevolezza che l’arte contemporanea riparte. Ecco perché nel finale Kurt sa che non serve contrastare, smentire o contraddire le convinzioni dei giornalisti che alla conferenza stampa di presentazione della mostra gli rovesciano addosso ipotesi poco probabili su influenze e intenzioni del suo operato. L’arte può caricarsi di significato solo se nasce dalle tracce che la vita ci ha lasciato addosso, come il grasso e il feltro per il professore e mentore che Kurt conosce alla Kunstakademie di Dusseldorf (dove tra l’altro ha insegnato anche lo stesso Richter, insieme a mostri sacri come Joseph Beuys, Georg Baselitz e Nam June Paik). Se in apparenza gli oggetti artistici di Kurt sono frutto del caso (fotografie prese dai giornali, foto amatoriali di sconosciuti) – e lui stesso fa credere questo a giornalisti e critici durante la conferenza – lo spettatore sa con certezza, perché è il racconto ad averglieli mostrati, che alcuni di essi provengono direttamente dal suo vissuto. E sono quelli a sortire gli effetti più significativi sui fruitori dell’opera d’arte. Per raccontare qualcosa in grado di lasciare il segno non si può prescindere dal recupero dell’io, allora. Dal ricordare e riportare frammenti della nostra storia personale. Contro ogni assurda pretesa di rappresentare efficacemente la collettività, la massa, il popolo. Che è quello che desiderano, non a caso, le due forme di potere dittatoriale che agiscono nel film, dal regime nazista all’occupante sovietico (con la sua ossessione per il realismo socialista, imposto dai russi nella Berlino est post conflitto).

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Florian Henckel von Donnersmarck Tom Schilling Sebastian Koch Paula Beer 188 minuti
Germania 2018
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Nuestro Tiempo

di Giulio Casadei
Nuestro Tiempo di Carlos Reygadas recensione

Che strano oggetto il cinema del messicano Carlos Reygadas. Ogni volta che pensi di averne compreso il funzionamento, ti spiazza facendosi trovare altrove. Era già successo nel passaggio dalle provocazioni di Battaglia nel cielo alla resurrezione dreyeriana di Luz Silenciosa. Stesso discorso con quest’ultimo Nuestro tiempo, solo apparentemente legato al precedente Post Tenebras Lux e invece suo doppio rovesciato. Non che Reygadas avesse altra scelta, in effetti. Quello strano e ambiguo intreccio di visioni che caratterizzava Post Tenebras Lux era apparso da subito come un vero e proprio cul de sac. Magari efficace, nel raccogliere il plauso di una certa critica così come delle giurie festivaliere che gli tributarono riconoscimenti pesanti (tra i tanti il premio alla miglior regia a Cannes), eppure incapace di dettare una linea, anche solo interna al percorso artistico del regista.

Lo iato di sei anni tra un’opera e l’altra segnala questo faticoso processo di rinnovamento e rinascita che si manifesta nell’incipit di Nuestro Tiempo: un gruppo di bambini prima e di adolescenti poi viene pedinato lungamente nelle sue traiettorie ludiche e/o amorose in uno stagno immerso nella campagna messicana. La distanza rispetto a Post Tenebras Lux è evidente: dalla paura e l’inquietudine di una bambina, sola davanti all’approssimarsi di un temporale, si passa al gioco anarchico/erotico di bambini ed adolescenti. Dal buio alla luce. Dalla solitudine alla collettività. Ma senza risvolti luminosi: in questo caso il mondo infantile o adolescenziali funge da contrappunto rispetto a quello degli adulti. Il punto di contatto tra i due film è rappresentato dai figli di Reygadas, qui presenti al gran completo. Così come i loro genitori, ovvero Reygadas stesso e la moglie, in un vertiginoso cortocircuito tra realtà e finzione che sembra esplicitare ed ampliare la natura vagamente autobiografica di Post Tenebras Lux.

Come un’emersione del rimosso. Ritorna il rugby, praticato dal figlio, la crisi coniugale, la relazione aperta, la tensione voyeuristica. Ciò che in Post Tenebras Lux era occultato dietro visioni frammentate ed oniriche, diviene qui il cuore della narrazione. Quasi il controcampo spudorato dell’altro. A tratti sembra di assistere ad un home movie disturbato e malsano. Inevitabile chiedersi quanto di ciò che vediamo sullo schermo provenga dal privato della coppia. Ma al di là del dato biografico a colpire è l’approccio di Reygadas, che non si era mai messo così tanto in gioco, semplificando la sua idea registica – solo occasionalmente tradita dalla tentazione estetizzante fine a sé stessa – e soprattutto assumendo su di sé un ruolo fragile e per certi versi sgradevole che affronta a cuore aperto i peggiori fantasmi del maschile.

In primo luogo l’ossessione per il controllo, che porta Juan a stabilire un rapporto d’intesa con l’amante della moglie. Non solo per sentirsi partecipe dell’infedeltà coniugale, ma anche per mettere alla prova la propria compagna. Anziché censurare il suo comportamento, Juan crea i presupposti per la sua reiterazione. In un momento allestisce persino il set che ospiterà l’incontro sessuale tra la moglie ed un suo amico, assumendo in modo evidente la posizione del regista. In questo senso Nuestro Tiempo è un film dai chiari accenti metafilmici, poiché discorsivizza e mette in abisso la posizione ed il ruolo del regista. Non a caso Juan sceglierà di nascondersi dietro le persiane per assistere alla scena. Più avanti è lui stesso a convincere la moglie ad andare a letto con l’amante, salvo poi pentirsene. Per la prima volta non riesce a sostenere lo sguardo. Magistrale il modo attraverso il quale Reygadas “coreografa” i movimenti verticali  e le esitazioni del proprio personaggio - un doppio sali e scendi dalla finestra - che sanciscono la dolorosa coazione a ripetere nel quale è intrappolato Juan. E qui veniamo al secondo aspetto affrontato da Reygadas: il piacere dell’umiliazione autoinflitta, la fantasia masochista del ruolo di vittima. Una diversa forma di controllo che ha ovviamente a che fare con le dinamiche di potere interne alla coppia. Essere vittima come sola vittoria possibile nella dialettica amorosa. Una vittoria ovviamente effimera che Juan pagherà a caro prezzo. Non prima però di aver attraversato, insieme con la moglie, le principali stazioni di un rapporto terminale. L’insinuarsi dei primi dubbi, le tensioni sotterranee, le esplosioni di rabbia, le tregue e le ricadute, fino al punto di rottura.

Ed è proprio alla parola che Reygadas si affida principalmente per queste sue scene da un matrimonio. Sorprendendo fan e addetti ai lavori, il cineasta messicano mette a freno il suo narcisismo registico, concentrandosi soprattutto sugli scambi tra i due personaggi, sempre mediati dai nuovi dispositivi o da monologhi interiori. Sessioni skype, lunghe mail, sms, ma anche pensieri ed elaborazioni mentali, curiosamente pronunciate dalla voce della figlia della coppia. C’è sempre una distanza incolmabile, sia che si tratti di una mail in cui viene escluso il corpo dello scrivente così come quello del lettore, di un sms letto interiormente dalla propria voce, o persino una lettera scritta a pochi metri dall’altro. Viene meno lo scontro verbale, a vantaggio di forme scritte di comunicazione, come a voler tenere a bada, controllare l’irruenza del corpo, i suoi movimenti spontanei. Non a caso il processo di elaborazione della coppia è accompagnato da questo progressivo venir meno dei due corpi, che per poter comunicare hanno bisogno di restare separati. Anticipando l’inevitabile epilogo, al quale il film giunge stremato dopo quasi tre ore di dolorosa radiografia sentimentale, che trova una corrispondenza segreta nell’ancestrale lotta tra tori. L'amore come campo di battaglia tra polvere e sangue. 

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Carlos Reygadas Carlos Reygadas Natalia López Eleazar Reygadas Rut Reygadas Phil Burgers 173 minuti
Messico, Francia, Germania, Danimarca, Svezia, 2018
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The Nightingale

di Samuele Sestieri
Kent

Erano stati la gestione del ritmo, la costruzione narrativa e, soprattutto, la sensibilità psicologica a farci apprezzare l’esordio di Jennifer Kent, Babadook. All’interno dei meccanismi dell’horror emergeva perfino un certo dolore, tangibile, reale più di qualsiasi uomo nero. Eravamo pronti a scommettere sul secondo film della regista, soprattutto quando le prime indiscrezioni ne parlavano come di un western in salsa revenge-movie. Sulla carta i motivi di fascinazione c’erano tutti: 1820, una giovane irlandese che, in una notte, perde tutto e cerca la sua vendetta. Attraversa la foresta al fianco di una guida aborigena (uno schiavo) che, lentamente, scoprirà essere il suo unico amico. Ma Nightingale è un film che disattende tutte le aspettative, non perché sia alla ricerca di chissà quale libertà autoriale ma, più banalmente, perché non sa assolutamente dove andare. Inoltre – cosa molto più grave - filma stupri ed omicidi con un compiacimento che si avvicina pericolosamente a un certo gusto sadico. Il problema sta proprio nella rappresentazione della violenza che rasenta un'oscenità che mai ci saremmo aspettati dalla regista di Babadook. Pensiamo all’omicidio della neonata, allo stupro della donna di colore, alla prima vendetta con quella lama che squarcia ripetutamente il corpo inanime. La Kent mostra tutto, instancabile, senza alcun senso del ritmo (grave per un film che straborda e supera abbondamente le due ore di durata).

Certo, non cade nel giochino postmoderno dell’ironia a tutti i costi e del grottesco post-tarantiniano, anzi: il film si prende maledettamente sul serio, fino a scivolare precipitosamente verso il ridicolo involontario. Costruisce un insieme di personaggi talmente caricaturali da rivelarsi autoparodie, con i cattivi senza cuore che più cattivi non si può. Tenta la strada del manifesto dalla parte delle minoranze e, tra fiotti di sangue e urla nella notte, inciampa sempre in un manicheismo senza fine. Prova allora il revenge-movie di genere senza avere un’idea di percorso, di vero conflitto (basterebbe un film come il recente Revenge di Coralie Fargeat a farcelo dimenticare: lì non si ha paura di sporcarsi le mani sfidando il verosimile e approdando in territori squisitamente tamarri).

Benissimo puntare oltre, slittare continuamente il momento della vendetta, tradire il climax, ma allora la Kent avrebbe potuto percorrere un’altra strada, cercare un respiro diverso. Invece quando punta sullo smarrimento della sua protagonista, sulla follia e sugli incubi notturni, non riesce nemmeno per un istante a produrre visioni perturbanti, a farci perdere l'orientamento. Assurdo, perché siamo in un film in cui tutti smarriscono le coordinate e si ritrovano a combattere contro i propri demoni. Assistiamo invece a una messa in scena che più bidimensionale non si può: perfino il bosco, regno dell’ignoto e del pericolo, non riesce mai a restituire la sua aurea magica e misteriosa. La foresta è un'immagine, una cornice, è solo un luogo…potrebbe essere un fondale dipinto, perché esiste unicamente come spazio da attraversare e da calpestare.

Alla fine ogni cosa si scioglie nella bella immagine dell'epilogo al mare: il sole è tornato!

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Jennifer Kent Aisling Franciosi Baykali Ganambarr Sam Claflin 136 minuti
Australia, 2018
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Acusada

di Matteo Marescalco
Acusada

Una famiglia sorridente ed apparentemente felice viene fotografata nel soggiorno del proprio appartamento. Le fotografie alimentano il continuo flusso di notizie divorate dalla famelica opinione pubblica. Dolores è, infatti, accusata di aver pugnalato a morte la sua migliore amica al termine di un festino. Ad aggravare ulteriormente la sua posizione contribuisce la diffusione di un video porno girato dalla ragazza e con protagonista la futura vittima. Dolores è pronta ad affrontare il processo nonostante molti indizi sembrano incolparla. In un contesto del genere, il rapporto con i media è fondamentale. Il circo mediatico montato dall’inizio del processo dilania la ragazza ed il rapporto con i suoi familiari.

Dopo La corte, presentato in occasione di Venezia 72, un altro legal drama approda in Concorso al Lido, prendendo spunto da uno dei numerosi casi di cronaca nera che affastellano i notiziari di tutto il mondo. A differenza di quel film, tuttavia, costruito sulla forza delle immagini, dei punti di vista e delle ellissi narrative, Acusada ruota attorno all’ambiguità della sua protagonista: una ragazza mora la cui innocenza si incrina sempre più con lo sviluppo del racconto, rivelando aspetti nascosti del suo carattere.

Il film di Tobal vorrebbe riflettere sui concetti di verità e menzogna in relazione ai meccanismi mediatici attraverso arditi simbolismi che utilizzano gli animali. Il risultato, tuttavia, è deludente ed impelaga il film in una palude dalla quale non riesce a sfuggire. La schematizzazione narrativa e registica svuota di senso l’operazione, priva di un determinato punto di vista sugli eventi raccontati. E così, anche la riflessione sul famelico circo mediatico risulta essere un banale specchietto per le allodole, incapace di generare dubbi a riguardo.

La messinscena sciatta e di stampo televisivo inficia ulteriormente la riuscita del film, spingendo lo spettatore a porsi un interrogativo sulla sua presenza in Concorso. Acusada vorrebbe raccontare ed analizzare tanti aspetti della realtà, dimostrando soltanto un’imperdonabile ansia nel fornire risposte piuttosto che interrogativi.

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Gonzalo Tobal Lali Esposito 108 minuti
Argentina, Messico 2018
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22 July

di Matteo Berardini
22 July - recensione film

Come cicatrizza il corpo lacerato di un paese? Quali processi possiamo mettere in atto per chiudere le ferite e imparare a convivere con i segni del trauma? Da dove inizia l’elaborazione del lutto quando l’impatto è su scala nazionale? Con un incontro che non ci sembra affatto casuale, qui al Lido durante la 75° edizione del Festival del Cinema di Venezia troviamo due film che da parti opposte riflettono sugli stessi quesiti.
Tanto il sorprendente Vox Lux di Brady Corbet quanto questo 22 July di Paul Greengrass lavorano sul rapporto tra terrorismo e trauma, indagando gli strumenti e le strategie che abbiamo a disposizione oggi, nell’era dell’immagine del XXI secolo, per elaborare il dramma collettivo. Ma se Corbet di queste immagini, globali e digitalizzate, fa un discorso faustiano incentrato su rituali anzitutto mediali e mediati, Greengrass affronta l’elaborazione del lutto da una prospettiva lucidamente classica e umanista, dove il linguaggio solido e collaudato del reportage documentaristico – camera a mano, montaggio serrato, stretta adesione alla dimensione tattile del reale – si sposa con la più basilare delle parabole umane, un singolo percorso di riabilitazione che diventa simbolo e prodromo di una guarigione su scala nazionale.

Degli attentati compiuti dal fascista Anders Breivik nel 2011 – prima l’autobomba ad Oslo e poi l’attacco all’isola di Utoya – Greengrass scarta ogni prospettiva mediatica, concentrando l'attenzione sull’orrore collettivo prima e sul percorso individuale dopo.
Con una sensibilità e un’attenzione rare per la rappresentazione della violenza, 22 July ricrea i difficilissimi momenti dell’attentato, offrendo una mezz’ora quasi insostenibile per il suo carico emotivo. In questa prima parte lo sguardo di Greengrass resta sul piano generale, accenna la figura del suo protagonista ma soprattutto rievoca l’accaduto guardando all’insieme degli eventi. Nella seconda parte la storia del processo a Breivik si intreccia a quella del recupero di Viljar Hanssen, il giovane che viene preso come punto di riferimento per raccontare il processo di guarigione intrapreso dalla nazione tutta. In seguito a quanto accaduto infatti Viljar è costretto ad affrontare una feroce ospedalizzazione e lunghi mesi di riabilitazione, dai quali uscirà con un controllo solo parziale del proprio corpo. Ed è proprio il corpo il centro del discorso filmico voluto da Greengrass, quel corpo sfregiato e infranto e perennemente in bilico (Viljar manterrà delle schegge di pallottola nel suo cranio in una posizione di equilibrio precario) che diventa letteralmente il tessuto cicatriziale del paese, della Norvegia ma anche della coscienza europea tutta, chiamata ad una sfida storica dall’urgenza ormai incontrovertibile. Perché se 22 July sceglie la strada familiare del percorso di rinascita, del confronto con il carnefice e il superamento del trauma, lo fa partendo da una rappresentazione dell’Europa come di un terreno a rischio, una comunità ferita al cui interno crescono germi di estremismo nazionalista e nostalgico, recrudescenze apparentemente anacronistiche ma di fatto estremamente concrete, vicine, pervasive.

È a questo contesto emergente che Greengrass riconduce la sua ricostruzione, un’emergenza politica e ideologica alla quale 22 July contrappone un ritorno intimo e sentito all’umano, al tessuto familiare, alla difesa dei propri valori fondanti. Ha un che di spielberghiano questo racconto morale, echi che tornano nella sottotrama dell’avvocato di Breivik, sotto attacco perché convinto di dover offrire al proprio cliente i diritti garantiti dalla legge, o ancora nel confronto palingenetico tra il killer e il sopravvissuto, tra Breivik e Viljar. Il loro duello a distanza attraversa una buona metà del film per chiudersi infine nel confronto durante il processo, anche se forse questa tensione tra i due non si sviluppa con l’intensità che Greengrass avrebbe voluto. Il risultato è un film sbilanciato, che resta fino all’ultimo dalla parte delle vittime e dei sopravvissuti senza dare però a Breivik quello spazio che il confronto con Viljar lasciava presupporre. Data probabilmente l’urgenza della materia Greengrass evita di correre rischi eccessivi, si concentra su strumenti e percorsi ampiamente sperimentati; tuttavia in questa prevedibilità, voluta e rispettata, prende forma un discorso dal cuore solido e preciso, una risposta limpida che trova nella forza individuale e nei legami affettivi, morali, umani, l’unico antidoto possibile alla barbarie populista dettata dall'estremismo contemporaneo.

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Paul Greengrass Anders Danielsen Lie Tommy Hyving Jon Øigarden 133 minuti
USA 2018
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Tramonto

di Matteo Berardini
Tramonto nemes - recensione film

1913. Budapest è una delle grandi città culturali del mondo occidentale, la seconda capitale dell’Impero Austroungarico dopo Vienna. Da queste due città si estende un potere multiculturale che abbraccia una decina di etnie e lingue diverse, un crogiolo di popolazioni e tradizioni tenuto assieme da una struttura antica, apparentemente solida. È il potere reale dell’Arciduca Francesco Ferdinando, tra le ultime reliquie di un ancien regime europeo che sta per sgretolarsi sotto il peso della contemporaneità: un mondo intero è in procinto di crollare, un universo di eleganza, nobiltà di sangue, sfarzo e aristocratico elitarismo, assediato da forze sotterranee e umbratili pronte a reclamare il loro posto sul palco della Storia.
Siamo negli anni del Tramonto, del momento di massima estensione di una struttura sociale che vive la sua decadenza come un conto alla rovescia. Una bomba è sepolta nella carne più profonda della società, una promessa di violenza e caos e furia rivoluzionaria sta per compiersi dal suo mondo sotterraneo.

László Nemes apre il racconto di questa cesura partendo da un quadro, uno scorcio pittorico di una tipica via della Belle Époque. Una scelta che non sembra casuale, considerato come questo secondo film del regista ungherese sia una pura rappresentazione di forze storiche, una messa in scena artefatta, sfacciatamente autoriale, che schiva ogni approfondimento intellettuale a favore di una resa immediata, strettamente pittorica, del momento storico e delle tensioni universali ad esso soggiacenti.
Rispetto al precedente Il figlio di Saul, qui Nemes abbandona ogni aggancio reale alla cronaca storica; la vicenda dei Sonderkommando, confinata in uno spazio-tempo dalle coordinate precise, evapora e diventa la traccia generale di una nuova incursione storica, questa volta astratta e al confine con il surreale. Tramonto è il controcampo più ambizioso e rilanciato di Saul, lo stesso film che dal dettaglio cronachistico passa a trattare gli elementi primigeni della Storia tutta.

Coerentemente con questa tensione per l’assoluto, l’ambientazione del film non è né Vienna né Sarajevo, siamo piuttosto in una Budapest onirica composta di luoghi scollegati tra loro, una rete nebbiosa di nodi vaporosi, sospesi nell’aria, parti fluttuanti di una nuova mappa della città. In questo panorama scomposto Nemes colloca la sua protagonista, l’orfana Irisz  Leiter, arrivata in città da Trieste con l’intento di diventare modista nella lussuosa cappelleria appartenuta un tempo alla sua famiglia. Di quel nobile retaggio resta però ben poco, la stessa attività, per quanto apparentemente intatta nella sua nobile eleganza, è ormai corrotta e decaduta, deformata da una seconda natura volta al traffico di donne per la nobile corona austriaca. Al posto della sua identità perduta Irisz ritroverà qualcos’altro, un insospettato fratello, assassino ricercato dalla polizia ma soprattutto pietra angolare di un moto popolare in procinto di esplodere. Il figlio del caos ha alimentato una forza ormai incontenibile, l’arrivo della sorella sarà la miccia scatenante che porterà al cambiamento.

Oltre l’orrore che rappresenta e al quale dona forma cinematografica e memoria, Il figlio di Saul è un film difficile da dimenticare per la sua composizione formale, un lungo protrarsi di primi e primissimi piani inchiodati al corpo e al viso del suo protagonista, semi-soggettive che diventano lo strumento privilegiato per mettere in scena il rapporto tra lo sguardo e la violenza, la coscienza e la memoria. Tutto quello che esula dallo sguardo di Saul resta inchiodato al fuori fuoco, decade nell’indefinitezza dello sfondo, del non visto, del già sentito di cui resta solo l’assuefazione. La stessa idea di regia, seppur meno rigorosa, torna imponente in Tramonto, si avvinghia al corpo di Irisz, al suo collo e ai suoi occhi straordinari, incandescenti, febbrili, segue la donna mentre intraprende il suo viaggio di formazione dentro le pieghe della Storia. La scelta è rischiosissima e ambigua, perché se crea indubbiamente cortocircuiti e tensioni uniche nel corpo del film, allo stesso tempo ci svela un autore vicino al rischio della maniera, della gabbia formale. Si può per questo respingere Tramonto, volerne fuggire le imposizioni estetiche e assieme denunciarne le limitazioni di sguardo. Allo stesso tempo però è altrettanto vero che qui, nel pieno di un film che segna i minuti antecedenti l’Apocalisse, questo linguaggio così studiato e fedele a sé stesso diventa una fenomenale macchina di senso, una rappresentazione di rara potenza ed efficacia del rapporto tra l’individuo e la massa, il singolo e il magma. Non a caso Irisz è un personaggio che attraversa il film in un costante stato di insicurezza e confusione, una sorta di Alice kafkiana che rotola in un mondo scisso in due del quale nessuna delle due facce le appartiene. Legata a doppio filo allo spettatore da quest’insistenza formale, Irisz si perde e vaga in cerca di riferimenti, tenta di scoprire la verità sul fratello segreto e sulla violenza nascosta sotto la facciata della cappelleria che era di famiglia. Il suo è un moto ondivago capace di muoversi attraverso la superficie e il mondo sotterraneo, e che genera una dialettica costante tra la luce candida del potere Ottocentesco – aristocratico, anacronistico, corrotto – e l’oscurità terrigna della società di massa – incombente, caotica, inarrestabile.

È davvero incredibile come Tramonto riesca a mettere in scena la dialettica tra queste due forze contrapposte, tra il potere oppressivo dell’élite che ha dominato un secolo e il contropotere della massa che cercherà di sommergere, accendere, possedere il successivo. All’eleganza incarnata dal mondo della cappelleria corrisponde infatti un insieme caotico di uomini vestiti di nero, dalla barba incolta e i capelli lucidi, tutti uguali tra loro, anonimi, massificati nella loro portata collettiva e sociale. È una marea nera che lambisce le coste di un mondo in rovina, un’acqua limacciosa e agitata e fatale che appare come forza bruta e irrazionale, scintilla di caos che sembra anticipare un destino di distruzione e violenza bestiale. Perché non c’è rivoluzione autenticamente popolare in quest’insieme confuso e allucinato di corpi, non c’è coscienza di classe o azione politica atta a ridiscutere e rinegoziare i sistemi di produzione. C’è solo sete di annientamento e sopraffazione, energia informe che prende strade oscure certamente non progressiste. Del resto tutto il viaggio intrapreso da Irisz, la sua indagine familiare che si rovescia in percorso di formazione attraverso le due città in contrasto, punta dritto alla grande macelleria della Prima Guerra Mondiale, l’insorgere della massa e assieme la sua crisi, la morte collettiva, il rapido suicidio di un continente che si prepara a dismettere il suo ruolo dalla Storia.


Forse poteva chiudere un attimo prima Nemes, evitare la chiosa finale nelle trincee della Grande Guerra. Tuttavia l’immagine così smaccatamente kubrickiana (si cita Orizzonti di gloria) rilancia già una riflessione sul meccanismo del cinema e della memoria, preparandoci forse ad un nuovo percorso nelle falde del medium chiave del Novecento. Nel frattempo la battuta d’arresto è sul volto di Irisz, lo sguardo sempre ardente e orgoglioso, il suo ruolo da infermiera di trincea che la pone adesso sul fronte del conflitto storico. A diretto contatto con quelle masse che come infinito mare di scintille ha contribuito ad accendere e alimentare, anime esplose dirette a finire sull’altare così carico di orrori della nuova Storia.

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László Nemes Juli Jakab Vlad Ivanov 142 minuti
Ungheria, Francia 2018
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Magic Lantern

di Samuele Sestieri
Magic Lantern

Quando tutte le traiettorie sembrano tracciate, Amir Naderi, il corridore, la furia apolide, il paladino del cinema che fa crollare le montagne, realizza un film piccolo, imprevisto, squisitamente sgangherato. Un film su Hollywood - dice lui - e aggiunge con sguardo febbrile e incantato “it’s a love story”. E alla fine ce la fa, Naderi, a realizzare la sua love story. Che è anzitutto una dichiarazione d’amore nei confronti del cinema, passione di una vita, inseguita, adorata, pensata e costantemente esplorata. Chi ha visto Amir anche una sola volta lo sa bene, perché somiglia tantissimo ai film che fa: un vulcano in continua eruzione, un fiume in piena che si riversa – con toccante generosità - in questo appassionante Magic Lantern al ritmo di una ronde di ophulsiana memoria. Il film sembra davvero il lavoro di un giovane e vitalissimo regista, l’opera prima di chi è cresciuto a pane e Minnelli, allestita con la passione di un eterno cinefilo.

L’immagine è calda e rossastra, non per banale adesione agli standard visivi post-Hugo Cabret, ma per creazione di immaginari interiori. Un film di amori cinefili? Certo, ma non solo. Il cinema è la memoria di Naderi, ma anche il presente e l’avvenire. Proprio per questo i colori si fanno talmente saturi da divenire astratti: tutto potrebbe sciogliersi da un momento all’altro e restituire solo bagliori di luce in movimento, macchie, resti di film. Mettere in scena l’amore significa per Naderi rappresentare un labirinto di affetti, il flusso vivente che attraversa tutto il cinema che ci ha abitato. La lanterna magica, ovvio, è il cinema: la vecchia sala che proietta il suo film di chiusura, il suo ultimo spettacolo. I posti ormai vuoti, l’odore della pellicola, il buio, il silenzio…e la fede nelle immagini. Eppure il cinema non muore qui. Si reincarna, trova nuove forme, cambia pelle. La sala chiude, ma il protagonista viene richiamato – quasi invocato – dalla suoneria ovattata del cellulare, nuova lanterna magica, nuova riconfigurazione della visione. Il cellulare qui è sia mezzo di visione (il protagonista scopre l’identità della donna amata attraverso videoselfie, foto, immagini sintetiche) sia di comunicazione (che non porta mai da nessuna parte se non alla propria interiorità) sia, infine, di trasporto (varco ultradimensionale, portale dell'immaginario contemporaneo).

All’inizio sembra di assistere alla versione naderiana di Sherlock Jr. di Keaton, poi, lentamente, si scivola nei territori hellmaniani del road to nowhere. Il proiezionista entra nel film – proprio come Keaton – e abita tra i suoi fantasmi. Si innamora di una ragazza, candida e bellissima, angelo fantasmatico del cinema che fu. Poi la perde: l’amore vive nella scomparsa, nella ricerca, nell’indagine senza fine. Lei lascia una traccia di sé, il cellulare. L’amante allora la insegue tra le immagini del mondo, tra le strade gravide della città degli angeli, tra i volti che si susseguono come proiezioni da un'altra terra. Il cinema, la sala, la vita: il cortocircuito inizia a prendere forma, il cellulare unisce tempi e dimensioni diverse. Il cinema è reale, ora più che mai, o forse è quello che resta della realtà.

Tutta qui la favola d’amore, fragile ed esilissima, come le cose che rimangono. Si ritorna alla traccia, all'anima, alla base di qualsiasi narrazione: boy meets girl, per l’appunto, che diviene qui un ragazzo cerca una ragazza. Questo ragazzo alimenta il proprio amore nelle mancanze e nei vuoti. Si innamora dell’idea ancora prima che del corpo, dell'immagine ancora prima che della realtà. Imparare ad amare significa dar vita ai fantasmi, credere in loro, preparandosi a un salto nel vuoto. Ricercare il proprio amore negli imperi della mente e nelle terre di nessuno, nei tagli di montaggio, negli istanti tra le immagini. E quando l’intero mondo sparisce, rimangono lui e lei, nessun altro. Lei corre lungo i corridoi, vestita di bianco, come un angelo o uno spettro, fra polvere e pellicole. In questa visione c’è quello che resta del cinema, in attesa di nuove terre dove poter dimorare. Infine, lui e lei si incontrano su una spiaggia deserta, in un’escatologia immaginaria che sembra guardare perfino a Vital di Tsukamoto. La vita continua, oltre la morte – e anche il cinema vince il tempo, sopravvive e ritorna, come atto di resistenza, come ultimo lascito di eterno amore.

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Amir Naderi Monk Serrell Freed Sophie Lane Curtis Jacqueline Bisset 93 minuti
USA 2018
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La profezia dell'armadillo

di Matteo Marescalco
La profezia dell'armadillo

Nella prefazione alla vecchia edizione del graphic novel di debutto di Zerocalcare per Bao Publishing, Makkox parla della straordinaria capacità di Michele Rech di creare singole scene dagli effetti comici che danno vita ad un insieme che, al contrario, suscita nel lettore un profondo senso di disagio e di inadeguatezza. In effetti, uno dei maggiori pregi de La profezia dell’armadillo consiste proprio in questo andirivieni dei sentimenti, nel polpo alla gola provocato dalla rievocazione di eventi trascorsi, su cui viene gettata una luce differente in virtù di una nuova consapevolezza nei loro confronti. Per questo motivo, oltre che per l’inevitabile traslazione mediale dal fumetto al live action, la curiosità attorno al film era assai elevata.

Zero è un ragazzo che vive a Rebibbia e che si arrabatta come può dando ripetizioni, lavorando come disegnatore e cronometrando le file dei check-in all’aeroporto. Una volta tornato a casa, lo aspetta la sua coscienza critica, un Armadillo che, con conversazioni al limite del paradossale, lo aggiorna costantemente su cosa succede nel mondo. A tenergli compagnia è l’amico d’infanzia Secco. La vita dei due ragazzi subirà un cambiamento alla notizia della morte di Camille, compagna di scuola nonché suo amore adolescenziale mai dichiarato. L’immaginario di Zerocalcare è fatto di plum-cake, centri sociali, band musicali punk, di una Rebibbia che custodisce lo scheletro di un mammuth, enorme quanto le responsabilità percepite dai trentenni di oggi, una generazione che al contrario delle precedenti, non ha in mano le chiavi della propria vita. Roma è, ovviamente, il contenitore perfetto per vicende cristallizzate come quelle raccontate da Michele.

Il film diretto da Emanuele Scaringi ed interpretato da Simone Liberati (nel ruolo di Zero) e da Pietro Castellitto (in quello di Secco), segue parallelamente due linee narrative: l’elaborazione del lutto privato (la morte di Camille) ed il lutto pubblico rappresentato dal G8 di Genova e dal massacro alla Scuola Diaz, temi molto cari al fumettista adottato da Roma ed affidati alle animazioni che incorniciano il film ma che non sono state realizzate da Zero. Il rischio maggiore cui andava incontro La profezia dell’armadillo non consisteva tanto nella perdita di qualche personaggio o di talune vignette quanto nella sfumatura del senso più profondo del graphic novel. Quella nostalgia che, come già detto, anima le pagine del libro e restituisce un totale ben più tragico della somma delle sue singole parti non riesce minimamente ad emergere dal film, stretto tra dinamiche tipiche del buddy-movie e tra i gangli di una certa comicità italiota del tutto becera.

Insomma, nel giudicare questo La profezia dell’armadillo è necessario evitare di leggere, almeno per il momento, il graphic novel o, quanto meno, tenersene a debita distanza e considerarlo come un’opera di mera ispirazione per sceneggiatori e regista. Per il resto, dubitiamo seriamente che l’ennesima commedia che si adagia sulla comfort zone tutta romana, riesca a raggiungere lo stesso ampio respiro del libro d’origine.

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Emanuele Scaringi Simone Liberati Pietro Castellitto Kasia Smutniak Claudia Pandolfi Laura Morante 99 minuti
Italia 2018
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Van Gogh - Sulla soglia dell'eternità

di Andreina Di Sanzo
At eternity's gate - recensione film

Già nomi come Akira Kurosawa, Vincent Minnelli, Maurice Pialat e Robert Altman si sono cimentati nella difficile impresa di rendere omaggio all’opera e alla vita del pittore olandese insieme ad altri esperimenti come il documentario di Alain Resnais o l’ultimo impeccabile lavoro di animazione Loving Vincent. Peccato però che  ci abbia pensato anche Julian Schnabel a confrontarsi con questo artista.
Van Gogh - Sulla soglia dell'eternità (At the eternity’s gate) ricostruisce l’ultimo periodo della vita di Van Gogh attraverso il suo punto di vista che coincide spesso con la creazione artistica e con la sua visione delirante del mondo trasposta poi nella sua magnifica arte.

L’ambigua amicizia con Gauguin, il rapporto intenso con il fratello, le visioni e il desiderio di vivere a stretto contatto con la natura - unico sollievo  e momento di tregua per quella mente così affannata - vengono raccontati attraverso la visione distorta che cerca di fornire allo spettatore una soggettiva per comprenderne l’intensità. Tutto però è estremamente divulgativo: i dialoghi sono pomposi e enfatici e il tentativo di restituire quell’immagine vangoghiana finisce per essere fallimentare.

Willem Dafoe è come sempre eccellente nell’interpretazione di un personaggio sempre al limite della propria esistenza ma viene purtroppo mortificato da una regia che tende al lirismo a tutti i costi e che finisce per essere solo pura retorica. Si accentuano le frasi tanto da trasformare il pensiero di Van Gogh in un continuo spot per quelle che oggi si chiamano le mostre experience, dove spesso manca l’opera d’arte stessa ma diventano solo occasione per pubblicare una storia su Instagram e poi scappare a un aperitivo sui Navigli. Come se poi visitare una mostra non fosse già di per sé un’esperienza.

Van Gogh - Sulla soglia dell'eternità è proprio questo: un biopic di cui discutere di fronte a un moscow mule che per filo e per segno vorrebbe guidarci nel tormento di uno dei più importanti e influenti artisti di sempre senza restituire l’essenza di quella sofferenza, lezioso e didascalico. Mentre i  quadri di Vincent Van Gogh diventavano quasi sculture per l’eccessiva quantità che il pittore faceva del colore, rivoluzionando il concetto di opera d’arte che inizia a superare i confini della tela, Schnabel esagera senza impressionare in un film zuccheroso e in fin dei conti di scarso interesse.

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Julian Schnabel Willem Dafoe Mathieu Amalric Oscar Isaac Mads Mikkelsen 110 minuti
USA 2018
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Monrovia, Indiana

di Matteo Berardini
Monrovia, Indiana - recensione film

Dalle grandi istituzioni pubbliche ai campi coltivati della corn belt, dalle complesse architetture sociali di scuole, ospedali, gallerie d’arte e biblioteche alla semplicità della vita nel Midwest americano. Siamo in Monrovia, Indiana, mille abitanti in cinque chilometri quadrati di territorio, una piccola comunità agricola come decine di migliaia di altre negli Stati Uniti, ripresa e scoperta da Frederick Wiseman attraverso volti, negozi, piccoli gesti e abitudini quotidiane. Vite inquadrate tra l’azzurro del cielo che apre il racconto e il marrone scuro della terra smossa di fresco, ultima traccia della toccante cerimonia funebre posta a chiusura del film.

Rispetto a molti lavori girati da Wiseman, veri e propri studi etnografici di strutture socioculturali, Monrovia è un film animato da forze e curiosità diverse, meno attento alle pratiche politiche ed economiche del suo soggetto di partenza ma interessato piuttosto ai suoi abitanti, al loro aspetto, al loro rapporto con lo spazio. A memoria solo National Gallery è costellato da un numero altrettanto ampio di primi piani, ma se il film dedicato alla galleria inglese incastra i suoi volti in una triangolazione di sguardi dal sapore quasi teorico (noi spettatori che guardiamo un pubblico spettatore a sua volta di un’opera d’arte), in Monrovia a farla da padrone è la curiosità antropologica ma quasi infantile di Wiseman, la sete degli occhi di chi è semplicemente e continuamente affamato delle forme del mondo. Per questo Monrovia deluderà chi si aspetta un’indagine approfondita dell’altra America, quel cuore rurale ancorato alla tradizione puritana che oggi vive la sua ora dorata nell’era di Trump.

Monrovia nasce ovviamente dall’urgenza di comprendere le realtà più nascoste e isolate degli Stati Uniti, infinite sacche di resistenza protette da un muro di anacronismo e isolamento, ma quest’intento non si rovescia mai nel didascalismo indagatore di chi cerca l’origine di un problema, la causa prima di un fenomeno impossibile da ignorare. Di certo questa dinamica esiste – e vittorie come quella di Trump o della Brexit ne testimoniano la forza, l’urgenza – ma muoversi a partire da quest’intento avrebbe significato per Wiseman approcciare l’isolamento religioso e rurale di Monrovia con un intento laboratoriale, verticale. Se invece c’è qualcosa che garantisce la coerenza del “metodo Wiseman” è proprio l’orizzontalità dello sguardo, la capacità di questo straordinario cineasta di perdersi nelle realtà attraversate come uno straniero in terra straniera, sempre attento alla portata dei fenomeni osservati ma anche genuino scopritore dell’alterità, dell’ignoto.
Si potrebbe definire il cinema di Wiseman come un infinito percorso di formazione, un bildungsroman che via via va a coincidere con il percorso di una vita intera, dedicata film dopo film, anno dopo anno, alla scoperta dell’umano e delle sue strutture. Per questo motivo Monrovia dedica tanto del suo spazio alla quotidianità dei cittadini ripresi, dei quali si inquadra la forte guida religiosa senza affrontare apertamente argomenti confessionali o politici.

Rispetto all’analisi sociale di In Jackson Height, il quartiere newyorchese indagato nell’insieme delle sue tensioni razziali e identitarie, qui Wiseman lavora più indirettamente, inquadrando le caratteristiche sociali del luogo all’interno di una sinfonia che alterna i campi lunghi degli infiniti spazi agricoli ai primi piani dettagliati dei clienti di un barbiere, il silenzio delle lapidi che compongono il cimitero cittadino ai corpi quotidiani dei clienti di supermercati e negozi di liquori, studenti del liceo e medici di una clinica veterinaria. Sono gli infiniti dettagli di un mondo in miniatura, diviso tra spinte espansionistiche ed agorafobia, come ben testimonia la seduta comunale dedicata alle nuove case in costruzione e ai timori suscitati da questa prospettiva.

Come si diceva Monrovia è un posto di appena mille persone, una sacca isolata in cui la vita prosegue lungo binari sicuri, affidabili, garantiti dalla fede religiosa e dal piccolo numero di abitanti. Qui possiamo ritrovare le fondamenta seriali della società americana, negozi d’armi e chiese battiste, case che affondano nel verde e vengono tramandate per generazioni accanto a supermercati dai banconi colmi di prodotti globalizzati e universali, senza tuttavia che l’insieme di questi elementi vada a comporre un teorema, una ricerca preimpostata. È solo un altro piccolo tassello di mondo, scoperto da un regista straordinario di quasi novant’anni e gli occhi affamati di un bambino.

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Frederick Wiseman 143 minuti
USA 2018
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