I diari di Angela - Noi due cineasti

di Giulio Casadei
I diari di Angela - Noi due cineasti recensione

Nel titolo c’è tutto il senso di questo lavoro. I diari di Angela, il resoconto di una vita, quella di Angela Ricci Lucchi scomparsa pochi mesi fa. Al plurale, ad indicare non solo il numero consistente di quaderni messi insieme negli anni, ma anche la pluralità di esperienze incluse al suo interno e di tecniche utilizzate per raccoglierle. In bilico tra la parola scritta, il disegno e l’acquerello. Fatti pubblici e privati, cronache di viaggio, idee e appunti sparsi. Omaggio alla memoria ma anche primo passo di una fase nuova, inevitabilmente diversa eppure altrettanto importante. Anzi, decisiva: continuare i progetti lasciati in sospeso e pianificarne di nuovi. Raccogliere l’eredità, farsi testimoni e portatori di un’idea di cinema, lavoro, mondo intrisa di umanità e responsabilità che segue tre linee guida: vedere, sentire, comprendere. Senza comprensione niente ha senso. I viaggi e gli incontri, la ricerca ed il montaggio. Tutto per la propria arte: risignificare i passaggi storici e traumatici del Novecento attraverso un lavoro attivo sul suo archivio audiovisivo.

Il passato, certo. Ma anche il presente. Si veda il frammento in Bosnia: davanti alle domande di chi ha perso tutto servono necessariamente delle risposte. Per offrire un orizzonte di senso più ampio, per sottrarre le immagini e le esperienze al flusso indistinto e caotico dell’esistenza e della televisione, che tende sempre a sostituire una guerra con un’altra. Eppure ne I diari di Angela il lavoro è tenuto ai margini, quasi sempre fuori campo, ad eccezione di un paio di momenti in Russia e a casa, davanti alla moviola. Alla ricerca di immagini di cui innamorarsi. In questo caso ci viene offerto il controcampo quotidiano del lavoro. Ciò che vi si cela dietro ma che allo stesso tempo sostiene, alimenta, testimonia un certo modo di stare al mondo e di intendere il proprio cinema. La vita di tutti i giorni, dunque. Ma anche e soprattutto i viaggi in giro per l’Europa e l’Oriente, la Bosnia, la Turchia, l’Iran, la Russia, l’Armenia, a caccia di tracce, testimonianze, fotogrammi. Per ogni luogo almeno una persona rimasta impressa nella memoria: l’archivista russa ed il suo gatto, sorprendentemente affettuoso con Angela, lo straripante Walter Chiari del viaggio armeno, la guida bosniaca, i gendarmi turchi che gli salvarono la vita nel 1978. E poi il taglialegna e soprattutto Laura, figure imprescindibili della casa sulla collina.

Più privato che pubblico si diceva. Ma senza ricatti emotivi. Il concetto di diario nel suo senso più puro. Frasi semplici, brevi, descrittive a scolpire il presente (già passato), fissare i pensieri ed i ricordi. Schizzi leggeri come acquarelli di cui Yervant Gianikian si serve per commentare le immagini, accompagnarle in questo viaggio attraverso i ricordi materiali ed immateriali che assume le sembianze di un vero e proprio bilancio artistico ed esistenziale. Senza lezioni di sorta. In punta di piedi, umilmente, dolcemente. Come quelle immagini che emergono dall’archivio privato: l’albero di mela cotogna sorto in mezzo alle macerie e ai palazzi sventrati di Sarajevo, gli acquarelli che raccontano l’ustione di Yervant che lo condusse ad un passo dalla morte, la preparazione del vino, l’orto con i suoi frutti, le pizze di pellicola nascoste attentamente per il passaggio della frontiera, i fotogrammi del soldato durante la Prima Guerra Mondiale. E poi quel bacio di Angela rivolto alla telecamera, sulla spiaggia. Più bella di qualsiasi dichiarazione d'amore. 

Noi due cineasti. Dall’uno al due. Dal diario, racconto in prima persona, al lavoro della coppia. Campo (Angela e la sua macchina fotografica) e controcampo (la macchina da presa che la filma). Pensando a domani.

 

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Yervant Gianikian Angela Ricci Lucchi Yervant Gianikian Angela Ricci Lucchi 125 minuti
Italia
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Isis, tomorrow - The lost souls of Mosul

di Giovanni Bottiglieri
Isis Tomorrow - recensione film

«Prima dell’Isis ero iscritto a scuola, c’era lavoro e il Paese era in pace», mentre un’alta colonna di fumo nero arriva sino in cielo, oscurando il sole pallido del deserto e delle macerie di una città che fu.
Le prime immagini e i primi suoni di Isis tomorrow – The Lost Souls of Mosul ci fanno subito intendere come la portata del fenomeno Isis abbia determinato il destino di milioni di famiglie irachene. Questo documentario, diretto da Francesca Mannocchi e Alessio Romenzi compie un’indagine sull’anima, non a caso nel titolo, dei morti viventi a cui è stato tolto l’affetto dei propri padri, figli, fratelli. Un territorio martoriato dai conflitti e dall’assenza del governo, che si occupa in maniera blanda di evitare lo scoppio di collera nei confronti delle famiglie dei membri dell’Isis; uomini disperati anch’essi, che abbracciano l’unica fede in grado di sollevarli dalle sofferenze del mondo: la morte. Ma i veri protagonisti del film sono i bambini che con una lucidità spiazzante parlano di armi, di cadaveri, di paradiso e futuro.

Questa pellicola, che tenta un’equidistanza dai carnefici e dalle vittime, si propone di sollevare una riflessione sulla materia attualissima e forse troppo vicina di una guerra in corso che non si chiude con la liberazione della città di Mosul da parte dell’esercito iracheno. Il film insiste, forse troppo, sulla pietà, che spesso cade nel pietismo, nei confronti di coloro a cui è capitata la sfortuna di avere un soldato dell’Isis in famiglia. La promessa di violenza, attraverso questo film, è quella che prende il posto delle macerie, delle bombe, dei mortai e degli aerei che hanno trasformato Mosul in un pezzo di archeologia della sofferenza. Al futuro appartengono i simboli e le ideologie, i semi di una follia più efficace e più pericolosa. I ladruncoli che si muovono tra le macerie con le carriole e raccattano quelle poche cose che potrebbero avere valore, sono il simbolo dell’anarchia e dell’assurdità del quotidiano, un terreno fertilissimo per organizzazioni radicali come quella dell’Isis, che trovano nella disperazione e nella promessa di una vita migliore il giusto grado di fedeltà assoluta al loro progetto. Di contro, l’esercito iracheno tenta con i video e con le fotografie scattate dal cellulare di mostrare il suo buon operato, testimoniato dai pacchi di cibo per le famiglie dei caduti dell’esercito regolare. Il denaro e i beni di prima necessità sono così in grado di comprare forza-lavoro sia da uno schieramento che dall’altro, ma l’ideologia della fede è in grado di radicarsi nel profondo; se ciò durerà nel tempo sarà determinato dall’operato di un governo che dovrebbe occuparsi dei propri bambini, che sono, ancora una volta, in prima linea.

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Francesca Mannocchi Alessio Romenzi 82 minuti
Italia, Germania 2018
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Il segreto di una famiglia

di Samuele Sestieri
Il segreto di una famiglia - recensione film trapero

Pablo Trapero torna a Venezia, fuori concorso, con Il segreto di una famiglia (La quietud). A differenza de Il Clan, qui non sussiste nemmeno il genere come ipotetica, lontana via di fuga. Rimane la famiglia - l’altro volto dello Stato - pronta a saltare in aria a colpi di tramonti rossastri e altisonanti retaggi d’autore. Una famiglia, questa, di nuovo unita a causa dell’ictus del padre: madre e figlie tornano a sedersi alla stessa tavola, nella villa di sempre. Un ritorno in famiglia con cui poter inaugurare, programmaticamente, il proprio giochino al massacro. Parte subito, senza troppi preamboli, il girotondo di segreti e rancori familiari che, proprio dietro l’angolo, nascondono il doloroso passato della dittatura militare argentina (viene da riflettere, qui alla Mostra, sulla tendenza diffusissima di film dove la storia intima finisce per fondersi con quella nazionale: Cuàron e Guadagnino ne sono l’esempio più calzante). E tutto va a rotoli: il rimosso torna a galla, i processi familiari diventano cronache nazionali. Il conflitto si risolve subito nell’isteria, tra movimenti di macchina che definire accademici sarebbe un eufemismo e composizioni da tavola studiate come fossimo davanti a una trinità pastosa e fasulla.

Il segreto di una famiglia è un film già fatto, impostato, finito dalla prima inquadratura. Quello di Trapero si conferma un cinema asfittico che non ha mai bisogno del proprio spettatore. I legami familiari diventano puri pretesti narrativi che sanno esattamente dove andare a parare: sogniamo i territori del mélo ma ci troviamo nel dramma pesante (magari pensante!), quasi da camera, sciolto negli effetti di un ridicolo involontario. Il tutto ha l'andatura di un giudizio spietato sul mondo (senza avere però la radicalità di un afflato nichilista, la forza distruttiva del gesto iconoclasta). Qui il percorso non ha importanza, tutto corre dritto verso la meta, senza deviazione alcuna: ognuno ha i propri segreti da pagare e da espiare, ognuno le sue colpe e le sue debolezze. Il fatto - grave per un'opera come questa - è costruire un film sui legami affettivi scivolando poi nella fantascienza emotiva e psicologica. Il segreto di una famiglia somiglia infatti a un teatrino stanco, marmoreo, arrovellato su piccoli colpi di scena e rivelazioni dell’ultimo minuto. 

Siamo in quel tipo di cinema in cui una madre riesce a dare della merda alla figlia e a ripeterle cento volte che non l’ha mai amata, trattandola alla stregua di un aborto vivente. Poi, ovviamente, quella stessa madre rimane sola, seduta in giardino: la macchina da presa è fissa, l’inquadratura bella e studiata a tavolino. Ecco il cuore del discorso: Trapero è un regista di cornici per cui il dolore non è stato uno stato esistenziale ma un contenuto forte da piazzare. Questo dolore dev’essere ben inquadrato, risolto nella composizione perfetta. E quando si tratta di affrontare di petto i conflitti, allora interviene un carrello a retrocedere, per fermare l'azione e crogiolarsi nella poetica del distacco. Un allontanamento continuo che tiene più a inquadrare che a raccontare, a dimostrare che a sentire.

Eppure all’inizio quel legame tra sorelle, quell’affezione erotica, ambigua ma innocente, faceva sperare in tutt’altro sviluppo. Trapero si lasciava andare, per un attimo, al corpo, alla carne delle immagini, ma subito dopo si allontana – ancora il carrello! – congelando tutto, trasformandosi in un voyeur freddo e analitico. Il conflitto non si fa mai reale, ma viene rimandato, progressivamente, fino a uno scioglimento finale che più patinato non si può.

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Pablo Trapero Bérénice Bejo Martina Gusman Edgar Ramirez 120 minuti
Argentina, Francia, 2018
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A Star is Born

di Matteo Marescalco
A star is born

Nel documentario a lui dedicato e passato in sala casualmente durante la stessa giornata di proiezione di A Star is Born, William Friedkin discute della pratica dei remake, sostenendo che non si tratti di semplici operazioni caratterizzate da un meccanismo di copia e incolla ma di rivisitazioni volte ad attualizzare e ad adattare un testo ad una particolare epoca.

A tal proposito, come non pensare al film che segna il debutto di Bradley Cooper dietro la macchina da presa e sancisce la definitiva maturità dell’ex rom-com star? A Star is Born, infatti, è la terza versione di E’ nata una stella di William Wellman (1937), dopo gli omonimi musical di Cukor e di Pierson (rispettivamente del 1954 e del 1976).

Lui, Jackson Maine (Bradley Cooper) è un cantante di successo sul viale del tramonto; aspetto alla Eddie Vedder, rapporto burrascoso con il fratello e gravi problemi di udito caratterizzano il suo presente. Lei, Ally (Lady GaGa), è un’aspirante cantante che lavora duramente di giorno e si esibisce in un locale di drag-queen di notte. Il primo incrocio di sguardi tra i due è da togliere il fiato. Jack sostiene ed incoraggia l’ingresso di Ally nel mondo dello spettacolo e lei trasforma in familiari i luoghi in cui lui ha sempre vissuto in preda ai fantasmi del passato. Ma lo spettro dell’alcool e della droga è dietro l’angolo.

L’opera prima di Cooper è ubriaca d’amore e di una purezza acerba che la rende molto simile ai suoi personaggi principali. Secondo Jackson, ciò che conta nella musica è lo spirito con cui ci si affianca alle note musicali (e, quindi, alla creazione artistica tout court), riuscendo ad attingere alle profondità più recondite dell’anima. Con le sue numerose ellissi, A star is born allarga a dismisura le traiettorie di senso e fornisce al racconto una gran quantità di ossigeno da utilizzare. L’uso della luce e del colore, unito alle esplosioni musicali, ipnotizzano lo spettatore e lo soggiogano al rigido meccanismo di una narrazione che ama i personaggi che porta in scena. Dal momento del primo incontro a cui segue una notte dalla rara tenerezza fino alla personale via crucis parallela di Maine ed Ally.

Ovviamente, non manca la critica nemmeno tanto velata al mondo dello spettacolo ed il secolare conflitto tra apparenza e sostanza, talento ed applicazione, aspetti che il film di Cooper riesce a bilanciare con grande maestria, restituendo la sensazione che alla guida della macchina filmica ci sia un regista ben oltre l’opera prima. Il musical si fonde con la storia d’amore e con il mélo classico hollywoodiano, attingendo all’autenticità nascosta sotto la corazza sfavillante del glamour. “Ricorda per sempre quanto siamo felici adesso”. Lunga vita a questo cinema che lavora al meglio sugli archetipi di genere, che si aggrappa alla luce della propria passione, che nasce, fiorisce e cade, riuscendo a far convivere per magia una stella ed un profondo buco nero.

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Bradley Cooper Bradley Cooper Lady GaGa Sam Elliott 135 minuti
USA 2018
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The Ballad of Buster Scruggs

di Matteo Berardini
The Ballad of Buster Scruggs recensione film Coen

Si avvicinano alla chetichella, soprattutto uomini, hanno le facce impolverate e indurite dal sole. C’è chi siede su un barile rovesciato, chi resta in piedi, chi si sdraia direttamente a terra. L’attenzione di tutti si volge all’Impresario e al suo Artista, un ragazzo privo di arti che dal suo carro recita tra gli altri Shelley, Shakespeare e il discorso di Gettysburg. Intrattiene la folla, si guadagna da vivere, assistito dal suo agente/custode/assistente. Ma sono tempi duri per la gente di cultura, il pubblico chiede più frivolezza e meno poesia, più divertimento e meno pensiero. Ecco così che un gallo capace di contare prende il posto del giovane menomato, il cui destino è presto deciso nel fondo di un fiume. Non si fa problemi l’Impresario, lo show deve andare avanti e insomma, la vita è crudele e ingiusta ma tocca pur campare.

In quest’episodio di The Ballad of Buster Scruggs è facile ritrovare tutto il cinismo e la spietata vena dissacrante dei fratelli Coen, che continuano a ridere della e sulla vita esaltandone la casuale crudeltà priva di senso.
Come l’Impresario impersonato da Liam Neeson, i due fratelli non hanno problemi a giocare con la vita e la morte del loro materiale, del resto è impossibile individuare nella realtà che ci circonda un senso profondo che possa offrire un’alternativa al gioco del caso. The Ballad of Buster Scruggs è in questo senso esemplare, ogni episodio ruota attorno all’imprevedibilità del destino, al fallimento cui è condannato l’uomo quando cerca di dare forma alle cose. È il tema su cui i Coen hanno imbastito tutta la loro filmografia, un ritratto della condizione umana che in forme diverse nel corso degli anni si è fatto vera weltanschauung. Questo racconto corale del mondo western – nato da storie raccolte nel corso di venti anni, ideato come serie antologica per Netflix e diventato alla fine film ad episodi – raccoglie in sé personaggi travolti da coincidenze, sorprese, malintesi, perlopiù utili idioti trattati senza sconto alcuno.

Si fa sempre più freddo il cinema dei Coen, uno sguardo che in passato riusciva a mettere in scena la tragedia umana senza rinunciare all’empatia, alla vicinanza, sentendosi anzi parte di quel tutto come un’unica barca in balia del mare in tempesta. Quella stessa tempesta che chiudeva dieci anni fa A Serious Man, l’ultimo film in cui i Coen ci sono sembrati partecipi al dramma dei loro personaggi, forse punto di non ritorno di una filmografia ormai verticalizzata, nella quale il cinema e la Storia del cinema si limitano ad essere gli ingredienti di un gioco formale, fermo alla superficie delle cose. Non siamo agli irritanti livelli di Ave, Cesare! ma anche qui in The Ballad of Buster Scruggs è difficile trovare un vero omaggio al genere, in questo il caso il western, ridotto com’è a parco divertimenti popolato da figure appiattite e stilizzate. L’episodio che apre il film è una vera e propria parodia, sicuramente divertente, alla quale però seguono episodi talmente affaticati e fedeli alla visione autoriale dei fratelli da dare l’impressione del pilota automatico, della maniera che si ripete stancamente uguale a sé stessa. E se coinvolge comunque il variare del tono della narrazione, che dall’ironia spensierata vira in un plumbeo clima di morte, sfugge il senso generale dell’operazione, serie di caroselli popolata da personaggi senza anima, raccontata senza emozioni.
Paradossale omaggio alla storia di un genere in cui non vi è traccia d’amore ma solo sarcasmo e freddo distacco. Un gioco che ormai non ci interessa più.

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Joel e Ethan Coen Tim Blake Nelson James Franco Liam Neeson Tom Waits Zoe Kazan Brendan Gleeson 132 minuti
USA 2018
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Tumbbad

di Domenico Saracino
Tumbadd recensione film

Difficile immaginare un film d’apertura più indovinato di Tumbbad per inaugurare degnamente la 33esima Settimana Internazionale della Critica. Un’opera che riesce a materializzare plasticamente l’idea di cinema che la Sic si prefigge di onorare, vicina alle nuove tendenze, ai fremiti di un cinema che scalpita per dire qualcosa di diverso. E che meglio di qualsiasi dichiarazione d’intenti ne disvela finalità e ambizioni, alimentata com’è da quello spirito di ricerca, impavido e anarchico, che la commissione guidata dal delegato Giona Nazzaro pone tra i principali driver del proprio delicato lavoro di setacciamento, scoperta, selezione e promozione del cinema internazionale di qualità. 

Tumbbad è libera mescolanza di generi e stili produttivi, dall’horror al fantasy, dal blockbuster alla sperimentazione di nuove possibilità espressive per il cinema indiano contemporaneo, fuori dal recinto, commercialmente ben collaudato e ancora fiorente, del musical e del melodramma. A colpire è soprattutto la potenza visiva dell’immaginario, con un lavoro davvero impressionante di production design e di fabbricazione degli effetti speciali (più volte sottoposti a revisione e poi affidati, dopo una attenta disamina, alla svedese Filmgate Films), la cui qualità contribuisce in maniera essenziale a dare corpo alle settecento pagine di storyboard a colori che il regista e sceneggiatore Rahi Anil Barve ha realizzato prima della fase delle riprese. La lunga preparazione e la meticolosa pianificazione dell’impianto visivo si traducono così in una sequela di immagini ben condensate, quasi solidificate dopo tanto approntamento, dotate di una precisa coerenza stilistica, protesa verso la materialità del mondo naturale e, in questo caso, sovrannaturale.

Così il fango e la pioggia, l’oro delle monete e la luce delle torce, il ferro dei pesanti portoni puntuti e dei loro chiavistelli, la pietra dell’empio tempio, innalzato per una divinità destituita del suo statuto, e quella che frantuma la testa del fratello di Vinayak, il protagonista dal quale il film non si separa neanche per un istante, convivono con ciò che rimane della pelle martoriata, trafitta di chiodi, di una vecchia privata d’ogni umanità, desiderosa di carne umana, con le sue emissioni di composti organici e accapponanti sussurri. E convivono con l’oscenità rossastra di Hastar – glorificata dalla computer grafica –, il demone maledetto dalla sua stessa madre, dea dell’abbondanza, per indecente avidità, col pulsare del tombale ventre materno in cui è confinato assieme alle monete che Vinayak agogna dall’infanzia e che gli sottrae da adulto, pescandole dal suo perizoma dopo avergli lanciato bambole di massa da fargli divorare, esca perfetta per la sua voracità.

Ed è forse proprio la piccola attenzione a quell’impasto di farina, di fatto assolutamente secondario rispetto ad altri elementi della trama, l’indugiare per qualche secondo di troppo, rispetto alla sua effettiva funzionalità ai fini del racconto filmico, sull’ingrediente e sul suo processo di manipolazione, entrambi così inessenziali nell’economia generale, a provare indubitabilmente, in caso ce ne fosse bisogno, una certa propensione degli autori alla valorizzazione, in ottica cinematografica, della materia. Che è ciò che poi fa la forza del film, mai disposto a rinunciare al corpo, alla sostanza, persino nei frangenti ad alta digitalità. È alla materia e non alla parola che Rahi Anil Barve affida il compito di erogare i piaceri sensoriali più consistenti della visione. Una scelta che applicata al mito, al fantastico, come in questo caso, fa pensare, ad esempio, all’approccio di Garrone ne Il racconto dei racconti, ma anche a Cronenberg o, per certi versi, a Spielberg, cui può essere ricondotto idealmente anche il finale, scelto tra tre differenti ipotesi di conclusione, per il messaggio di speranza che riesce a trasmettere. Il figlio di Vinayak riuscirà infatti a spezzare la catena dell’ossessione e della cupidigia in cui si sono irrimediabilmente ritrovati imprigionati i suoi antenati e molti tra coloro che sono entrati in contatto con loro. Una bramosia di beni e ricchezze che, per estensione, sembra agire su grandi strati della società indiana di inizio della fine dell’Ottocento e della prima metà del Novecento, ansiosi di un’ascesi sociale che li porti a potersi concedere qualcuno dei lussi dei conquistatori inglesi, dimentichi della grande lezione spirituale di Ghandi.

Mentre Vinayak attraversa i decenni forse più importanti della storia del proprio Paese, quelli che vanno dalle prime campagne di disobbedienza civile del Mahatma alla concessione dell’indipendenza nel 1947, autori e produttori di questo travagliato progetto – che ha richiesto ben nove anni di lavorazione – colgono infatti l’occasione per aprire interessanti spiragli di riflessione politica attorno ad un periodo di grandi trasformazioni socioculturali e di radicale (ri)costruzione identitaria. Una valutazione che non è certo morbida né idealizzante, ma al contrario lucida e senza sconti.

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Rahi Anil Barve Adesh Prasad 104 minuti
India, Svezia, 2018
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Il gioco delle coppie

di Samuele Sestieri
NON FICTION - recensione film assayas

Olivier Assayasdove eravamo?

Intrappolati nello schermo di uno smartphone, davanti al thriller in chat di una personal shopper. Eravamo già dentro le immagini, senza più nessun filtro, trasferiti dall’altra parte. D’altronde, dopo Sils Maria avevamo fatto quel salto e il mondo previrtuale aveva cessato di esistere. Scomparso, come in un libro di Baudrillard. Più di Kurosawa (Kairo), più di Schrader (The Canyons), più di Cronenberg (Maps fo the stars), eravamo sedotti dai fantasmi del presente, avatar anonimi che viaggiano alla velocità della rete.

“Sei tu o sono io?” chiedeva Kristen Stewart al fantasma nel finale di Personal Shopper. Questa domanda continua ad attanagliarci e riguarda anche tutti i personaggi de Il gioco delle coppie  - infelice trasformazione tanto dell'originale Double Vies quanto del geniale titolo internazionale, Non-Fiction. D'altronde si potrebbe porre la medesima questione oggi a tutte le immagini, a tutti i doppi, a tutti gli avatar del presente. Al digitale tourt court. Guardare il proprio riflesso virtuale e scoprire che ci ha già superati. Che siamo troppo lenti, sempre in ritardo, sempre eccedenti.

Olivier Assayas continua il suo personalissimo – e quanto mai attuale - percorso sul virtuale. Allestisce una commedia borghese, ricca di tradimenti e brio, per raccontare la fine di un mondo. Il gioco delle coppie è infatti la fine ideale di quella trilogia inaugurata con Sils Maria. Si configura fin dall’inizio come controcampo di Personal Shopper. Anche qui il mondo è finito, ma nessuno dei protagonisti pare essersene accorto. Borghesi colti e raffinati, che parlano di arte, politica ed economia, tentano – chi più chi meno - di adattarsi al presente, senza rendersi conto di mancarlo in ogni momento. Vivono intrappolati nei retaggi di un mondo ormai estinto. Questo è il loro tragicomico canto del cigno, un’apocalisse di inaspettata leggerezza.

Tutti parlano di tutto: sono intelligenti, ironici e un po’ chic. Disquisiscono in salotto di editoria e di serie-tv, citano Bergman mentre discutono dei rapporti umani ai tempi degli smartphone, parlano di sesso e di sé, in un flusso narcisistico che rilancia, continuamente, la propria oralità. Il gioco delle coppie, infatti, è un film parlatissimo, dove si spendono fiumi di parole per ogni cosa. Dove si cerca ancora di categorizzare, identificare, valutare. Si parla dei tweet come di haiku moderni, del costo dei libri e di privacy, di politica e post-verità. Ma questi personaggi sono troppo lenti, solidi e pesanti, per un mondo che scorre così in fretta. Un mondo liquido, inafferrabile, in perpetua trasformazione. Impossibile da fermare, impossibile da dire e forse perfino impossibile da pensare. Consapevoli della loro fine, i protagonisti del film tentano di ritagliarsi qualche via di fuga. Un po’ d’aria che scalfisca lo stato narcolettico del presente.

La rete, intanto, va da sé: non accetta compromessi o rallentamenti, procede automatica con i suoi algoritmi e le sue inarrestabili mutazioni. E allora, forse, più che disquisire, teorizzare, saggiare, questi personaggi – guardati da Assayas con un’umanità che è l’ultimo, autentico valore morale – devono solo vivere. Smettere di essere continuamente parlati, ma lasciarsi andare a una gita in campagna, a una tenera confessione, a uno sguardo d’amore.  È l’unico modo per fermarsi un po’ e non rimanere soli. Perché in fin dei conti – e questo è il grande valore, totalmente controtendente, di questo cineasta immenso – l’unica cosa che non si estingue sono le relazioni umane. Il bisogno dell’altro, in ogni sua forma, in ogni sua configurazione. Teniamoceli stretti questi affetti, fino alla fine. Oltre la fine.

Olivier Assayas...dove stiamo andando?

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Olivier Assayas Juliette Binoche Guillaume Canet Vincent Macaigne 107 minuti
Francia 2018
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La favorita

di Damiano Garofalo
The Favourite di Yorgos Lanthimos recensione

Spesso si attribuisce a Yorgos Lanthimos il merito (per qualcuno la colpa) di aver ispirato una generazione di giovani registi europei – di cui lui stesso fa parte – nel dare forma a un movimento cinematografico esteticamente ingabbiato in precisissimi canoni stilistici e formali. Costruzioni geometriche dell’immagine, movimenti di macchina iperbolici e calcolati al millimetro, inquadrature rigorose e programmate, uso e abuso del ralenti nelle più disparate situazioni, impiego della colonna sonora in chiave lirica e minimale, allegorie ermetiche che nascondono una serie di costrutti teorici sono solo alcuni degli elementi ricorrenti di un cinema sempre più diffuso e riconoscibile, ove nulla sfugge alla pianificazione del regista-demiurgo. Si tratta di una forma cinematografica a suo modo coerente, che spesso divide il responso di critica e pubblico, ma che trova nel sistema dei festival dell’ultimo decennio un’oasi quasi incontaminata. Poco importa, agli autori di questi film, se il confine tra ambizione e pretenziosità dell’opera che propongono rischia di diventare un terreno instabile e scivoloso: tanto vale rischiare di esser colpiti, di ritorno, da un cinema-boomerang che girovaga, senza meta, alla ricerca di se stesso, per poi tornare dritto in faccia al punto di partenza.

La favorita, presentato in concorso a Venezia 75, sembra inizialmente sfuggire da questa morsa. Innanzitutto, e questa è la prima notizia, Lanthimos dimostra di sapersi prendere poco sul serio, mettendo il cinismo, il sarcasmo e il consueto sentimento di superiorità nei confronti del genere umano al servizio di una tagliente black comedy, ambientata presso la corte della Regina Anna di Gran Bretagna, ultima sovrana della casata Stuart, regnante agli inizi del XVIII secolo. Secondo elemento di sorpresa: il consueto lavoro di sottrazione compiuto sui suoi personaggi, quasi sempre muti, immobili, catatonici e anaffettivi, viene riorientato da una sceneggiatura intelligente e articolata, scritta dall’esordiente Deborah Davis e dal più esperto Tony McNamara. Il regista greco, per la prima volta, non scrive un film che dirige: il tono che ne esce è senz’altro più leggero e dissacrante, distante dagli echi lirici e seriosi dei suoi film precedenti. Le tre attrici – Rachel Weisz, Emma Stone e, soprattutto, Olivia Colman – invadono la scena completandosi a vicenda, relegando inizialmente il regista a mero osservatore di un affare tra donne, su cui qualsiasi uomo – personaggio, spettatore, Lanthimos stesso – sembra avere poco margine di manovra.

Nella prima metà, tra battute irriverenti e intrighi politici di corte, c’è da dire che il film scorre. Lentamente, tuttavia, arrivano i primi acuti del regista, che tenta di ristabilire l’ordine gerarchico, mostrando ai suoi personaggi femminili chi è che comanda. Le inquadrature dall’alto verso il basso si fanno sempre più insistenti, accentuando, grazie soprattutto all’utilizzo del grandangolo, sia le proporzioni dei corpi femminili rispetto alla sfarzosità degli ambienti circostanti, sia il voyeuristico punto di osservazione maschile. I volti delle tre attrici, di contro, vengono quasi tutti inquadrati in primo piano, dal basso verso l’alto, quasi a risignificare uno sguardo fanciullesco che, intrufolato nel mondo degli adulti, fa fatica a comprendere cosa provano i personaggi, ancora una volta volutamente inaccessibili. Alla lunga, la ricorrenza programmatica di questo schema diventa insostenibile. Tanto che nella lotta tra Tories e Whigs per conquistare il potere, così come in quella tra Sarah e Abigaill per diventare la “favorita” della regina, finiamo per osservare in superficie, rigorosamente senza patteggiare, un gioco tra bambini in cui sembrano perdere tutti. Siamo improvvisamente diventati noi gli adulti e, senza accorgercene, siamo stati costretti ad aderire al punto di vista compiaciuto del regista. Nel finale, a ricordarci definitivamente chi è che comanda, Lanthimos ci propone la consueta metafora animalesca, sulla scia di aragoste e cervi sacri: il volto della regina Anna mentre viene masturbata da una “favorita” (una vera e propria ossessione del regista greco, quella della sollecitazione manuale degli organi sessuali) si dissolve nell’immagine dei diciassette figli che ha perduto a causa della sindrome di Hughes, animalizzati nella forma di diciassette conigli con cui ella stessa convive, giornalmente, dentro la sua stanza. Così, il teorema allegorico di Lanthimos entra a gamba tesa nella storia, sancendo l’inevitabile conclusione della dinastia Stuart.

Articolo in collaborazione con Cinema e Storia

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Yorgos Lanthimos 120 minuti
Gran Bretagna, Irlanda, Usa, 2018
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The Mountain

di Matteo Berardini
The Mountain recensione film di Rick Alverson

Due sedie poste l’una di fronte all’altra, nell’angolo di una stanza vuota. L’immagine eletta a foto di copertina di The Mountain rievoca la talking cure, richiama il dialogo che si fa strumento psicanalitico, soccorso lenitivo. Stranamente però nel film di Rick Alverson non vi è traccia di tutto questo, il mondo allestito dal film è congelato e asfittico, popolato da personaggi isolati tra loro e vittime di conflitti interni che paiono irrisolvibili. Nelle soluzioni offerte dal Dottor Wallace Fiennes (Jeff Goldblum) non c’è nulla di verbale, emotivo, empatico; il suo esercizio medico seda infatti le tensioni dei pazienti più aggressivi attraverso elettroshock e lobotomia, la malattia mentale viene troncata alla radice ma azzittita assieme alla coscienza, la cura confusa con la narcotizzazione. Ad accompagnare il medico lungo questa discutibile odissea psichiatrica c’è il giovane Andy (Tye Sheridan), orfano di padre in cerca di figure genitoriali, fotografo voyeurista che insegue un contatto con l’alterità psichica mentre vive l’ossessione e il ricordo della madre ospedalizzata, rinchiusa e forse lobotomizzata anch’essa in qualche stanza imbottita e accecata di bianco.

Il disagio psichico permea ogni atmosfera del film di Rick Alverson, che prende di petto il mito degli anni ’50 e lo stravolge svelando gli aspetti più oscuri e dimenticati del decennio: conformismo, alienazione, sofferenza e disumanità esercitate da una medicina psichica ancorata a metodi Ottocenteschi con ben poco di umano. Per Alverson la nostalgia che tanto domina la comunicazione contemporanea trova il suo riflesso nella pratica della lobotomia, soluzione anestetizzante che mira ad appianare ogni sussulto del pensiero. Ben lontani dal tanto decantato American Dream, gli anni Cinquanta di The Mountain sembrano piuttosto un incubo di incomunicabilità e addomesticamento, un orizzonte grigio e marrone squadrato nelle geometrie e soffocato negli spazi, dove l’alterità non trova modo di esprimersi e il conformismo si esercita a colpi di correzioni chirurgiche. Anche i sussulti emotivi dell’inconscio sono dominati dalla stessa atmosfera plumbea e sterile, l’onirico è abitato da confusi incubi sessuali e accesi momenti di panico, mentre la realtà scorre monotona come una delle lunghe strade boschive attraversate da Andy e Fiennes nel corso del loro viaggio.

L’unica prospettiva di fuga da questa dimensione immobile e contratta è la cosiddetta montagna, una confusa e facile metafora attorno alla quale ruotano tutti gli aspetti più vitali negati dall’universo del film: felicità, scopo, contatto fisico e mentale. Al di fuori di essa non vi è speranza, un approccio manicheo che si riflette nel formato 4:3 con cui Alverson soffoca personaggi e spettatori. Il risultato è una rievocazione mortifera la cui portata politica ci sembra disinnescarsi in partenza, imbrigliarsi in un pantano di pretenziosità e faciloneria stilistica. The Mountain fa sue molte delle strategie tipiche dell’approccio autoriale-festivaliero – camera fissa e tempi dilatati, personaggi silenziosi, composizione geometrica dell’inquadratura – ma questi stilemi vengono trattati con la superficialità di chi vi ricorre per adesione ad un canone prestabilito. Nel tentativo di criticare il ricorso politico alla nostalgia per un mito americano edulcorato e scisso dalla sua dimensione storica, Alverson fa del suo film un universo solipsistico e autocompiaciuto, che si adagia su effimeri elementi di stile e confonde la forma con l’inconsistenza, offrendo al posto della lobotomia la sicurezza di un teorema raffazzonato.

Categoria
Rick Alverson Tye Sheridan Jeff Goldblum Denis Lavant Hannah Gross Udo Kier 106 minuti
USA 2018
Immagine con larghezza massima
Larghezza massima

Your Face

di Giulio Casadei
Your Face di Tsai Ming-liang recensione

Il cinema di Tsai Ming-liang non è mai stato così vivo come dopo la sua (presunta) morte. Liberato da qualsivoglia vincolo produttivo o strutturale, il regista taiwanese continua a spingersi oltre le soglie di quello che viene comunemente considerato cinema, esplorando in tutte le direzioni possibili lo spazio ed il tempo dell’immagine. Dal più impercettibile scarto motorio (Il ciclo Walker) allo spazio espanso della Virtual Reality (The Deserted), passando per il set riconquistato di Afternoon fino a questo sorprendente film-ritratto, il viaggio “post-mortem” del cinema di Tsai Ming-liang mira a rintracciare nel cuore stesso dell’immagine l’ipotesi di una nuova possibilità espressiva, dilatando o comprimendo l’inquadratura fino al più estremo cortocircuito spazio-temporale.

Ecco allora che dall’immagine-ambiente di The Deserted, dove il tempo era sostanzialmente abolito, passiamo qui al suo opposto, ovvero alla negazione della spazialità, sostituita dai volti in primo piano di dodici persone. La superficie dell’immagine coincide dunque con il paesaggio del volto. Un volto quasi sempre anziano (dai cinquant’anni in su) che reca su di sé i segni indelebili del tempo trascorso: la pelle, gli occhi, le rughe… raccontano intere esistenze vissute all’ombra della Storia. Vite anonime alle quali Tsai Ming-liang dedica intensi ritratti in bilico tra la luce e le ombre, tra la memoria del corpo o della parola, ed il mistero del fuoricampo. Tutto compreso dentro il perimetro ristretto dell’immagine, sintesi di diversi strati temporali. La durata dell’inquadratura, prima di tutto, che definisce il tempo della presenza, e poi il paesaggio del volto, filmato come un’esteriorizzazione fisica del tempo, come traccia o segno del passato, ed infine il ricordo, nella sua dimensione verbalizzata.

Un film quindi sul tempo e sulla malinconia del tempo filmato come fosse un lungo provino, in cui l'apparente ricerca dei volti coincide con il film stesso. Una ricerca aperta alla pluralità espressiva del volto che è anche, inevitabilmente, una sfida di sguardi, tra quello della macchina da presa e quello dei soggetti filmati. C’è chi, come la prima donna, che vive con un senso di estraneità e quasi di angoscia la prossimità della camera e cerca con il movimento degli occhi una possibile via di fuga. Chi, al contrario, contraccambia lo sguardo della macchina o ancora chi passivamente si abbandona ad esso in un atto a metà strada tra fiducia e fatica. Similmente si potrebbe dire della parola, negata dalla maggior parte dei soggetti, sostituita dalla semplice presenza fisica, testimonianza dell’unicità di ogni singola persona (e dunque di ogni singola traiettoria umana).  Quando invece si stabilisce un dialogo, il racconto segue inevitabilmente la strada del ricordo e del rimpianto, del senso di colpa e della consapevolezza della perdita. Fino a sfiorare il melò, tra matrimoni combinati, desideri frustrati, rapporti conflittuali con i genitori.

Ma per ogni parola detta ce n’è almeno un’altra solo pensata. La sfida apparentemente impossibile del film sta proprio nel far emergere le immagini interiori che ci abitano. Quasi un film-inconscio fatto di immagini mentali che appartengono tanto allo spettatore, chiamato a superare la mera contemplazione nel tentativo di decifrare i volti e le storie che vi si celano dietro, quanto soprattutto ai soggetti ripresi, divisi tra la parola ed il silenzio, il piacere dell’esibizione e una certa discrezione, i micro-movimenti del viso ed i pensieri che li precedono e li producono. Una comunicazione segreta, quella tra spettatore e soggetto, come un atto telepatico, che si muove lungo le linee astratte del pensiero. In un percorso che non può che includere anche l’immagine di colui che dorme (sogna?) – punto di incontro naturale con lo spettatore cinematografico. E che giunge fino all’inevitabile scomparsa del corpo, ad un’immagine fantasmatica fuori dalla storia e allo stesso tempo sintesi di tutte le immagini mentali possibili.

Categoria
Tsai Ming-liang Lee Kang-sheng Huang Hsueh-feng Hsu Lin Yu-jung Liu Chin-hua 76 minuti
Taiwan 2018
Immagine con larghezza massima
Larghezza massima
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