Loro

di Giorgio Sedona
loro recensione film

«Nessuno sforzo intellettuale è richiesto agli amatori dei films – ciò che è proprio dell’adulto, l’intelligenza, è messo dapparte. Tutti i divertimenti oggi popolari son più visivi che spirituali, dunque infantili. Una delle passioni del fanciullo che giuoca è la gara: essere il primo! Gli uomini, ai nostri giorni, hanno introdotto questa manìa fanciullesca in tutte le cose: nelle più insignificanti come nelle più gravi. Battere un record è oggi l’ideale di tutti – quello degli antichi era la saggezza, la pace, la rinunzia.»

Gog - Giovanni Papini

Se l’ira di Dio è distruttiva, cataclismatica, il suo perdono è universale. Per il credente Dio è la scelta, per Paolo Sorrentino Dio può celare il volto ed il pube sotto a due asciugamani distinti, lasciando al suo figlio/a il libero arbitrio di scegliere quale parte di Lui accogliere.

Nel frattempo il suo complementare antagonista non paga ma seduce, non si mostra ma si traveste, dapprima imbonitore, poi cantante, comico, costruttore, venditore, odalisca, è esso stesso tre volte grande, trismegisto, è Trinità inversa: è padre (del suo elettorato), è figlio (del Potere da altri foscamente conferitogli), è Spirito Santo (nel soffio ingerente di un alito senile ed indebito). Una divinità alla rovescia, un santo peccatore, l’uomo qualunque fattosi caimano. Nello zoo di Villa Certosa è le(n)one, è clown Bianco e Augusto, domatore sociale di saltimbanchi, nani, cantanti melodici, politici, senatori, ruffiani e prostitute, è il dispensiere di panem et circenses che riversa nei suoi canali commerciali a discapito di una cultura intelligente.

E’ colui che è arrivato primo, è Lui. E chi sono Loro? Mascheroni che vogliono apparire, per essere se non primi almeno tra i prescelti, a cui basta essere nella foto del podio, saltare sul carro e ritrovarsi a stare dalla parte del vincitore. Nelle relazioni sociali c’è sempre bisogno di un asociale che alza muri invisibili che possono vedere solo Lui e l’Altro. Divinità annoiata, mai sazia, come il Goggins di Papini, capace di volgere il vero al falso e viceversa, che vuole tutto, ma a cui il tutto non basta, una piovra seduta all’indiana sull’Italia, la Bestia che mentre ti sorride riesce a convincerti della necessità del vuoto da lui trasmesso e prodotto. Lui è colui che capisce e comprende, Lui è colui che sa come farti ridere, che sa come convincerti a portarti dalla sua parte; Lui è un mostro mitologico per metà mezz’uomo e per metà ominicchio ( che sono come i bambini che si credono grandi, Sciascia docet) desiderabile e desideroso, sessualmente attivo. Lui è a capo di Loro che per trent’anni hanno creato realtà parallele, puramente visive, sogni ad aria condizionata per un popolo oramai imbonito.

Immagine rimossa.Immagine rimossa.

Se prendessimo, attraverso un audace parallelismo, l’ultima scena de Il caimano di Moretti e la confrontassimo specularmente con il lento carrello di spalle di Sorrentino (foto), capiremmo la diversa prospettiva che i due registi vogliono dare di Berlusconi.

Nella prima, Moretti guarda dritto in faccia il politico dimostrandone – con genio, coraggio, onestà e sarcasmo – la corruzione indotta in un intero paese inebetito, che attraverso un gesto anarchico, consumato nella sfocata profondità di campo oltre al lunotto posteriore, condanna la giustizia. Sorrentino, invece, vuole rappresentare l’uomo che è alla base del politico. Non sceglie di fronteggiarlo ma lo circuisce alle spalle, proponendolo come una sagoma oscura che osserva la messa in scena del suo stesso spettacolo che per anni ha propinato al suo pubblico mentre, nella sfocata profondità di campo, ci viene mostrata la sintesi dell’Italia plastificata e svestita, che per trent’anni ha voluto far passare per vera. Una realtà preconfezionata, basica negli istinti, lucente, glitterata, falsa e sintetica. Non appartiene a Sorrentino il metodo morettiano, non appartiene a Sorrentino il metodo moreschiano (che rappresenta Berlusconi attraverso il berlusconesimo di provincia – tanto reale quanto agghiacciante), non appartiene a Sorrentino il metodo d’inchiesta guzzantiano; Sorrentino affronta Berlusconi con il metodo che conosce, lo ripaga e lo racconta attraverso la sua stessa moneta, rappresentando il contesto domestico del Cavaliere attraverso l’esacerbata e sua stessa macchina spettacolare: la televisione. Rischiando di sfiorare il ridicolo (la scena surreale del camion della spazzatura) Sorrentino tende il suo stile affinché esso stesso diventi metodo di indagine antropologica di un uomo antropocentrico, smascherandone la mostruosità del potere – politico ed economico – che si cela dietro ad un falso sorriso. Se tende ad inciampare nella rappresentazione surrealistica recupera l’equilibrio attraverso lo svelamento (biasimabile) dell’uomo, osservandolo dietro la lente distorta del grottesco petriano. Ammesso questo, e riconosciuto qualche ammiccamento all’ultimo Korine, ecco che il suo stile può dilatarsi su tutto (e qui le tag-line del lancio dei due film sono riferite più a Sorrentino che a Berlusconi) diventando prima videoclip, gioco specchiante di superfici riflettenti, quiz televisivo, trovando il punto di totale convergenza nella perfetta sovrapposizione tra cinema e pubblicità, in quel prossimamente televisivo che si espande riempiendo tutta la superficie dello schermo cinematografico (Congo Diana).

Sorrentino insinua il seme della riflessione all’interno dello stesso metodo di rappresentazione adottato dai canali commerciali berlusconiani. E se l’immaginario della seconda Repubblica è un universo ideale e plastificato ricostruito sopra alle macerie culturali e sismiche di un’Italia in ginocchio, non ci deve sorprendere se nel finale viene recuperata intatta l’effige della purezza definitiva, dell’altruismo incondizionato, della cristianità ontologica che è sopravvissuta al cataclisma distruttivo della santità filistea e del cattolicesimo di facciata. «Il re è nudo!», gridava svelando la nudità un bambino nella fiaba di Andersen dopo che lo stesso uomo di potere cadeva nella trappola della sua vanità, ed allo stesso modo Sorrentino svela la nudità di Berlusconi attraverso il vestito più bello (e più falso) del suo guardaroba. Nudità che si palesa oltretutto anche attraverso due figure femminili: la prima, e più importante, è il personaggio di Veronica Lario (Elena Sofia Ricci), contraltare femminile ed intellettuale (tanto per tornare alla precedente citazione di Papini) che rappresenta su di sé la forza mistificatrice del falso profeta, donna dapprima sedotta, poi innamorata, poi mantenuta, poi tradita ed infine deposta. L’altra è rappresentata da Stella (Alice Pagani), l’anima pura che resiste alle lusinghe del tentatore riflettendo il suo lato patetico.

Non è più negli angusti e bui corridoi di palazzo che si muove la mostruosità, l’istrice sanguinaria, la cinica, spietata e sardonica figura andreottiana che ha avuto nelle mani il potere nella prima Repubblica. Non è tra la notte delle strade di Roma, nei concili della Santa Sede, nei meravigliosi giardini papali che il potere spirituale (e temporale) si riversa nel pop come una parabola rovesciata in grado di esibire il profano nel sacro. Questa volta la maschera si muove tra altre maschere, esibendosi in tutta la sua falsa luminosità; l’Avversario porta con sé il suo teatrino, un circo funambolico di corpi, interessi economici e politici, droga ed escort. Non nasconde la sua immagine come una rockstar (Lenny Belardo), non si cela nell’ombra del palazzo di potere, non muove i fili dietro ad un sipario, il Re si mostra, e mostra il suo carnascialesco seguito, e ritrovandosi nudo riesce a far credere al mondo il contrario, additando quel bambino per pazzo. E’ necessario riconoscersi in Paolo Sorrentino, un regista che vuole rappresentare il potere, un contenuto spigoloso che in pochi ancora hanno il coraggio oggi di affrontare, o che sanno affrontare. Abitante del lato luminoso di una luna oscura dove risiedono sia Andreotti che il Papa giovane, portatori di un potere alieno, come alieni sono tutti i suoi ritratti del potere, Sorrentino, impastando il pane della postmodernità, del post-reale, traccia una linea neanche tanto netta tra noi e loro: per quanto ci crediamo assolti siamo lo stesso coinvolti.

Categoria
Immagine con larghezza massima
Larghezza massima
Free text
Italia, 2018
Regia: Paolo Sorrentino
Cast: Toni Servillo, Elena Sofia Ricci, Riccardo Scamarcio, Kasia Smutniak, Euridice Axen
Durata totale: 204 minuti


Black Mountain Side

di Gian Giacomo Petrone
black mountain side cover pb

Le terre impervie e poco praticate dal piede umano hanno non di rado costituito un considerevole stimolo, prima letterario e successivamente anche filmico, per racconti avventurosi o fantastici, talora intrisi di visioni allucinatorie, a loro volta prodromo del delinearsi di cosmologie alternative e destabilizzanti. Una peculiare seduzione è stata esercitata dai ghiacci antartici, situati nel continente più inospitale, quindi meno umanizzato, perciò più misterioso del pianeta. Il Polo Sud, col suo fascino di (non)luogo ai confini del mondo, ammantato di morte e mistero, funse da fonte di ispirazione per due fra i più grandi autori della narrativa fantastica dell’era moderna: Poe vi ambientò il suo unico romanzo, Le avventure di Arthur Gordon Pym (1838); Lovecraft vi collocò gli audaci esploratori de Le montagne della follia (1936), uno dei suoi racconti più lunghi e immaginifici (oltretutto, un dichiarato atto di riverenza al romanzo di Poe), nonché uno dei più ricchi di dettagli relativi alla mitologia dei Grandi Antichi. Dal punto di vista cinematografico, La cosa (1982) di Carpenter ha saputo cogliere con sagacia almeno alcune delle inquietanti visioni del “Solitario di Providence” contenute nel racconto summenzionato, pur essendo tale film debitore – trattandosi di un remake – innanzitutto de La cosa da un altro mondo (1951) di Nyby/Hawks, a sua volta trasposizione del racconto Who Goes There? di John Wood Campbell Jr. (pubblicato curiosamente nel 1938, perciò appena due anni dopo l’uscita de Le montagne della follia, e a quest’ultimo fortemente legato, non solo per l’ambientazione antartica).

Isolamento, solitudine, coesistenza forzata fra estranei, insorgere dagli abissi del tempo di una forza ancestrale, capace di catalizzare le energie negative e le peggiori pulsioni degli individui sottoposti al suo potere, sviluppandosi tramite un invisibile e irreversibile contagio, costituiscono i temi centrali de La cosa, e ritornano pressoché inalterati in Black Mountain Side, omaggio intelligente e tutt’altro che banale al capolavoro carpenteriano del regista canadese Nick Szostakiwskyj. Al suo esordio nel lungometraggio horror, Szostakiwskyj sceglie un’ambientazione congeniale alla sua provenienza (è nativo di Calgary) e alle sue intenzioni estetico-narrative, vale a dire le Monashee Mountains della British Columbia (la più occidentale delle province canadesi), e racconta le allucinanti peripezie di un gruppo eterogeneo di studiosi alla ricerca di manufatti e vestigia delle civiltà sviluppatesi nell’area. Non si tratta, indubbiamente, del Polo Sud, ma il freddo e la neve risultano egualmente i padroni incontrastati della zona, assieme all’incombere di una Natura primigenia e indomabile. Il rinvenimento di un’antichissima struttura architettonica, i cui resti rinviano a ipotesi in inquietante contraddizione con la storiografia consolidata, porterà nell’accampamento un morbo che si diffonderà nella piccola comunità attraverso i sintomi di un delirio ai confini con la follia, facendo precipitare gli eventi.

A differenza del modello carpenteriano, Black Mountain Side non presenta scosse rilevanti nel ritmo del racconto, privilegiando la sospensione, l’attesa, il dialogo fitto, a tratti tecnico-scientifico (come lo era in un altro titolo fondamentale di Carpenter: Il signore del male), e sviluppando una progressiva caduta nel baratro della demenza senza picchi di tensione, bensì mantenendo un perlopiù distaccato sguardo entomologico su tutti gli eventi narrati, anche i più truculenti.

Si tratta, evidentemente, di una precisa scelta stilistica, che sposa senza riserve l’a-patia – della messa in scena e parimenti della recitazione – come attitudine del racconto, il piano americano e la figura intera (o tutt’al più il campo lungo, come ad esempio nel finale) come giusta distanza dello sguardo, e il long take come cifra ritmica. In tal modo, la violenza e l’alienazione sono colte nella loro gestualità ed esteriorità, senza espedienti emotivi o psicologismi: una sorta di atteggiamento “documentaristico” e antropologico sullo sviluppo dell’insania in un gruppo di individui costretti all’isolamento forzato e al contatto con una realtà irriducibile al regno dell’umano e del razionale. Gli accadimenti risultano perciò più osservati che vissuti, più mostrati che dimostrati, e giocoforza l’immagine che ne scaturisce è priva di tensione, mentre quest’ultima alberga invece nel fuori campo, nelle profondità del bosco circostante, nel chiuso dell’animo di personaggi i cui gesti risultano perlopiù meccanici e ottusi. Solo la parola funge da sintomo dell’interiorità e delle sue sconnessioni. Intanto, un’entità primordiale e misteriosa (intelligentemente tenuta in penombra o resa “presente” tramite la sua voce acusmatica, roca, suadente e profonda), scaturente – forse – dalle rovine dissepolte, sembra impadronirsi irreversibilmente delle menti e dei corpi di quegli uomini.

Szostakiwskyj non costruisce personaggi che fungano da filtro identificativo/proiettivo per il pubblico, bensì abbozza semplicemente delle figures in a landscape, stilizzati manichini di morte e dissoluzione, costringendo lo spettatore a misurarsi direttamente con le proprie angosce archetipe e lasciandolo perciò sostanzialmente da solo – in una sorta di horror vacui dovuto all’assenza di eroi – di fronte all’incombere di una solitudine originaria, prefigurazione simbolica del destino finale di ogni uomo.

Categoria
Immagine con larghezza massima
Larghezza massima

Chi siamo

Manifesto

"Decidere di non decidere è una decisione" - Ernst Bloc

"Non solo Dio gioca a dadi, ma li getta laddove non possiamo vederli" - Richard Feynman

Il mondo è kinematos.
Dagli atomi infinitesimali alle immani galassie ogni cosa si muove.
Tutto l’universo, dunque, è cinema.
Ernst Bloch, dunque, si sbagliava.
Giovani Turchi è già stato usato in Francia e in Sardegna –ma i Giovani Turchi sono stati anche i responsabili del Genocidio Armeno durante la Prima Guerra Mondiale.

Death in June è già stato usato in Giappone –ma Death in June è anche il nome di una band che ha le sue radici nell’immaginario iconico nazista.
E, per finire in crescendo, Underworld è già stato usato negli Stati Uniti –ma Underworld è anche (?) un film in cui vampiri e licantropi e umani… 

Point Blank.
Non è un’arida ballata di Springsteen, non è un’operazione compiuta dagli Alleati nel gennaio ’44, non è un videogioco psichedelico, non è un film geometrico del 1967.
Point Blank è quello che stiamo cercando che sia.
Un esploratore della visione, del corpo, della visione del corpo del mondo. Conoscendo il pericolo che Feynman amavatemeva, scartandolo, soffocandolo, cedendo a lui.
Divenendo anche una canzone, un’azione militare, una cartuccia per le console a 32 bit, 24 fotogrammi al secondo. 
Assumendo su di noi, giovani, dannatamente giovani, questo abisso. la più corta distanza tra il bene e il male.


Point Blank, dunque.
E luce fu.


Sguardi dai festival


El Pampero Cine - speciale

The Transfiguration

di Jacopo Bonanni
the transfiguration2 h 2016

Nel 1978, George A. Romero mette definitivamente la parola fine al cinema gotico, profanando l’ultima grande icona di quella fortunata stagione immortalata dalle produzioni Hammer, Dracula. Il protagonista del suo Martin- Wampyr non è né un gaudente gentiluomo d’altri tempi né un vampiro in senso stretto: è semplicemente un ragazzo confuso ed alienato, un “feticista del sangue” che cerca di colmare il suo vuoto esistenziale armato soltanto di siringa e rasoio. Dieci anni prima dei Ragazzi perduti di Schumacher e degli outsider de Il buio si avvicina della Bigelow, Romero già presagisce la necessità del nuovo cinema horror di lasciarsi alle spalle il bagaglio iconografico e concettuale legato alla figura tradizionale del vampiro. Decide dunque di spogliarlo del suo alone mistico e dei suoi poteri soprannaturali, mostrandolo alla luce del sole come un autistico killer seriale. Nella cinema romeriano non c’è spazio per atmosfere romantiche e raffinate: i succhiasangue moderni sono dei derelitti, costretti a condurre un’esistenza disperata e brutale ai margini della società americana.

Da allora sono passati quarant’anni: Romero ci ha lasciato, i vampiri hollywoodiani sono un’ innocua stirpe di cliché e il film “minore” del padre dei morti viventi rimane ancora oggi uno dei più controversi e sottovalutati della sua carriera. Quell’intuizione anticonformista non è stata però dimenticata; lo testimonia The Transfiguration, esordio alla regia del newyorkese Michael O’Shea, che raccoglie ed amplia l’eredità di Wampyr con un piglio altrettanto cinico e disincantato, un approccio che sicuramente avrebbe fatto piacere al Maestro. Questo perché il film di O’Shea è soprattutto un prodotto politico teso a raccontare l’altra faccia dell’America, quella della disparità economica e del conflitto razziale, quella che nel cinema di genere – vedi il recente Get Out – trova la sua collocazione ideale.

Il protagonista della vicenda è Milo (Eric Ruffin), un apatico adolescente afroamericano, recluso in un esilio personale nei sobborghi malfamati del Queens; qui lo vediamo dissanguare uno sconosciuto all’interno di un bagno pubblico in una cruda sequenza iniziale. Profondamente segnato dal suicidio in casa della madre, il ragazzo convive con il fratello maggiore Lewis (Aaron Clifton Moten), un ex-soldato che preferisce esorcizzare i sui demoni davanti al televisore. I due comunicano a malapena e non hanno relazioni con l’esterno, se non con la polizia e la gang di spacciatori del quartiere, trait d’union tra due mondi apparentemente inconciliabili, quello fuori e dentro la casa. La non-vita di Milo è scandita esclusivamente da un calendario in cui sono cerchiati i giorni predisposti alla caccia. Infatti il giovane palesa un’ammirazione morbosa per i vampiri e i predatori animali in generale: di giorno li studia, annotando su un taccuino tutti i loro comportamenti, mentre di notte li imita, dimostrandosi un esecutore spietato, forte di un’etica cristallina che lo rende zelante nella scelta delle vittime migliori – per lo più uomini bianchi, alcolizzati, tossici, pedofili – e nella ricerca minuziosa delle condizioni ideali.

Milo non ha amici, la maggior parte delle persone, compresa la psichiatra scolastica, lo considerano un freak. Questo marchio sociale, sebbene lo ghettizzi, gli concede però un vantaggio strategico che gli permette di tenere il mondo a distanza e affrontare la sua missione come ha sempre fatto: senza scrupoli, metodicamente da solo,come i suoi idoli. Almeno fino all’incontro con Sophie (Chloe Levine): una ragazzina bianca, anch’essa “difettosa” nel suo autolesionismo, appena trasferitasi nel suo stesso palazzo. Più che un incontro, è un cortocircuito di solitudini quello da cui nasce la tenera amicizia che coinvolge i due protagonisti, imbrattati di malinconia come alcuni dei personaggi dei Peanuts. E’ proprio l’intimità di questo legame, tra maratone di film horror e lunghe passeggiate solitarie, ad intaccare le sicurezze di Milo; costretto per la prima volta a interrogarsi sulla sua vera natura e a confrontarsi con le implicazioni morali dei suoi impulsi omicidi. Ma ormai è troppo tardi, il ragazzo si è spinto troppo oltre per poter tornare indietro.

The Transfiguration è un esordio “scomodo”, costruito ad arte, ricco di spunti di riflessione sulla contemporaneità (bullismo, omofobia, alienazione). Un film metropolitano che ti rimane addosso con i suoi colori cerulei, una recitazione catatonica, una colonna sonora intinta di synth. Tutti elementi che, nonostante le esplicitate ispirazioni cinefile (Lasciami entrare; The Addiction, L’ombra del vampiro), lo iscrivono di diritto in quella schiera di pellicole indipendenti che stanno rivisitando gli archetipi del cinema horror, riscrivendone i canoni con originalità ed intelligenza, dalle streghe agli zombie (tra gli altri The Witch, It Stains The Sands Red, A Ghost Story, I’m Not A Serial Killer).

Nell’era del retrò e del revival, dove anche i vampiri non invecchiano ma diventano vintage, Michael O’Shea riesce ad attualizzare la metafora vampiresca di Romero, riadattandola ai ritmi frammentari della quotidianità. Per farlo attinge alle regole del racconto di formazione, girando un coming of age realistico, quasi documentaristico, sulle difficoltà e gli orrori dell’età di transizione di un teenager che cerca di sopravvivere nel ghetto, modellandosi su qualcosa di invincibile. Il contagio di Milo infatti è un contagio culturale: non ha zanne, è indifferente al sole, il suo orrore quotidiano non attinge ad un passato mitico ma alla pochezza del presente. Un presente nel quale succhiare il sangue dei propri simili – per il protagonista – implica la tacita ricerca di un contatto umano e, allo stesso tempo, incarna un sentimento di rivalsa nei confronti di una comunità – quella degli adulti – che lo ha abbandonato. Una visione matura che ci restituisce, senza svilirla, una generazione di pre-adolescenti e di vampiri finalmente lontani dall’autocompiacimento nostalgico presente in altri prodotti.

Categoria
Michael O’Shea Eric Ruffin Chloe Levine Larry Fessenden 97 minuti
USA 2017
Immagine con larghezza massima
Larghezza massima
Free text



Il Monte delle Formiche

di Arianna Pagliara
il monte delle formiche

Sul monte delle Formiche, nell’Appennino bolognese, ogni anno attorno all’otto settembre – giorno della nascita della Vergine secondo la tradizione – avviene un fenomeno incredibilmente curioso: interi sciami di formiche alate migrano, da ogni parte, verso la vetta del monte, dove si accoppiano per poi morire ai piedi di un santuario qui edificato, probabilmente, attorno all’XI secolo. L’immagine della Madonna all’interno della chiesa e il distico latino che la accompagna (Centatim volitant formicae ad Virginis aram quo que illam voliant vistmae tatque cadunt, ansiose volano le formiche all’altare della Vergine, pur sapendo che ai suoi piedi moriranno) testimoniano che secondo le credenze popolari questo insolito fenomeno naturale è sempre stato percepito come un evento mistico e considerato, nello specifico, un omaggio dei piccoli insetti alla figura della Vergine. Fin dal ‘400, del resto, il santuario veniva chiamato "Santa Maria Formicarum" e ancora oggi le formiche morenti vengono raccolte su enormi teli bianchi e poi chiuse in piccoli sacchetti, perché porterebbero fortuna e avrebbero un potere guaritore.

Riccardo Palladino, già autore del documentario Brasimone dedicato all’omonimo lago emiliano, è uno scopritore di luoghi, un poeta ispirato che miscela la geografia del territorio a quella dell’immaginazione e della leggenda, confrontando tradizione e modernità ma senza il piglio freddo e distaccato dell’antropologo, piuttosto con lo sguardo estasiato e lieve di chi cerca, nello spettacolo misterioso e meraviglioso della natura, una vera occasione di contemplazione e astrazione. Procedendo con disinvoltura in questa direzione, muovendosi al confine tra una fenomenologia delle cose tutta documentaristica e un afflato profondamente lirico, il regista lascia che la macchina da presa esplori boschi e cieli, racconti i giochi dei bambini e i rituali degli adulti, e infine osservi il vivere complesso e stupefacente di questo minuscolo insetto sociale protagonista del film, la formica.

Tra entomologia, scienza e riflessioni filosofico-esistenziali, Palladino si serve dei contributi di autori assolutamente diversi tra loro fondendoli assieme in un unicum perfettamente coerente sia in se stesso sia rispetto alle immagini: Die Natur (1783) dello scrittore svizzero Georg Christoph Tobler, posto in apertura come una limpida dichiarazione di intenti; La vita delle formiche (1930), ultimo libro della trilogia naturalista dello scrittore belga Maurice Maeterlinck; infine Le prigioni di Stato, dell’intellettuale italiano Aldo Braibanti che fu, non a caso, anche un esperto mirmecologo.

Il Monte delle Formiche è dunque un film per e sulla Natura, nel quale trascendenza e immanenza non vengono letti come elementi antitetici: quasi a richiamare la filosofia di Ralph Waldo Emerson tanto cara al texano Terrence Malick - che della descrizione poetica della natura è indiscusso maestro cinematografico – il film di Palladino situa il senso profondo dell’essere dentro le cose, ricongiungendo spirito e materia, forma e sostanza, mente pensante e corpo senziente. Le formiche che si muovono in modo mirabilmente coordinato come atomi disgiunti facenti parte però della stessa entità, metafora del corpo umano, somma di parti che agiscono all’unisono per formare un unico armonico organismo; la vita che pulsa allo stesso modo in ogni singola cellula, sia essa vegetale, animale, umana; l’infinitamente grande che si rispecchia eternamente nell’infinitamente piccolo: il documentario di Palladino, oggetto luminoso, vaporoso e traboccante, riesce a porre in atto una fascinosa riflessione su tutto questo, con incredibile levità e fortissima immediatezza.

Categoria
Riccardo Palladino 63 minuti
Italia, 2017
Immagine con larghezza massima
Larghezza massima
Free text





Home


Grande e piccolo schermo


El Pampero Cine - speciale


Sguardi dai festival


Articoli vari


Grande e piccolo schermo

My Friend Dahmer

di Jacopo Bonanni
ross

Nell’estate del 1969, all’ombra di Woodstock, germoglia il “seme dalla follia” che sfregerà per sempre il volto dell’America, avvelenando irrimediabilmente l’utopia pacifista dei “favolosi” anni sessanta ormai trascorsi. Hollywood trema sotto un’ondata improvvisa di inaudita violenza – inaugurata dalla brutale strage di Bel Air della Family di Charles Manson e centellinata dai criptici messaggi del Killer dello Zodiaco – che converte la generazione dei colorati figli dei fiori nei sanguinari “figli di Sam” del decennio successivo. Gli anni settanta verranno infatti ricordati come “l’era dei serial-killer”: una decade che ha visto emergere in rapida successione - dalle pagine della cronaca nera - un’orda di “nuovi mostri” provenienti dagli angoli più bui della provincia americana e destinati a soppiantare quelli “classici” - meno credibili ed efferati – nell’immaginario collettivo del pubblico. Tra questi, spicca senza dubbio il nome di Jeffrey Dahmer, protagonista assoluto del film biografico My Friend Dahmer, interpretato dal fenomenale Ross Lynch nel ruolo del giovane assassino: una delle pellicole rivelazione del 2017, scritta e diretta dall’estroso Marc Meyers (How I Fell In Love).

Probabilmente tutti gli appassionati di crime-show e legal-thriller televisivi conoscono a memoria i dettagli della vicenda pubblica e giudiziaria di Dahmer, noto ai più come “il cannibale di Milwaukee”: il serial-killer più controverso del ventesimo secolo – omicida, necrofilo, omosessuale – che ha divorato diciassette ragazzi tra il 1978 e il 1991, rivelando al mondo l’orrore di un esistenza oscura, vissuta oltre i confini di ogni macabra fantasia. In pochi, invece, conoscono la sua vita privata, quella prima del suo primo delitto che lo vede ancora seduto tra i banchi di un liceo qualsiasi dell’Ohio nei panni di un adolescente malinconico e stravagante – come tanti - alle prese con le prime sbronze, le bravate con gli amici e le turbe esistenziali dell’epoca pre-reganiana. Tutti innocenti riti di passaggio collettivi che - nel caso di Dahmer – non sono altro che timide richieste d’aiuto prima di affondare in un inferno privato di pulsioni scabrose ed istinti inconfessabili.

Questa è la storia che sceglie di raccontare il regista Marc Myers nel suo film: un particolarissimo making of di un assassino, basato sui ricordi e sulle immagini di Jeff “Derf” Barker - amico ed ex compagno di classe di Dahmer - autore della graphic-novel da cui è tratto la pellicola. La trama scorre come un inesorabile conto alla rovescia verso una tragedia annunciata che grava costantemente sullo spettatore, ripercorrendo fedelmente i “dolori del giovane Dahmer”; nel tentativo di decifrare tutti i segnali che presagiscono la deflagrazione della sua follia omicida: dal divorzio doloroso dei genitori, al feticismo per le carcasse degli animali morti, passando per i latenti problemi di alcolismo, fino a quelli legati ad una sessualità/socialità frustrata.

Ogni personaggio che incontriamo durante la narrazione partecipa più o meno attivamente alla “metamorfosi” di Dahmer e sceglie deliberatamente di ignorarlo, a partire dall’amico Derf (Alex Wolf) - cinico e manipolatore – l’unico che sembra provare ad empatizzare con lui inizialmente – eleggendolo come “mascotte” della scuola - per poi umiliarlo e abbandonarlo proprio nel momento di maggior bisogno, alle soglie di un destino che ormai appare irrevocabile. La particolarità che distingue ed esalta la ricostruzione filmica di Meyers è quella di saper indugiare sulle premesse morbose delle situazioni descritte – portando al limite l’attenzione dello spettatore - senza mai cedere alla tentazione di mostrare la violenza esplicita che contraddistinguerà le gesta future del suo protagonista. Durante tutto l’arco del film l’orrore – quello vero – si percepisce altrove: nei silenzi pesanti come lapidi, negli sguardi assenti e nelle grottesche performance di Dahmer, costretto a recitare la parte dello spastico pur di elemosinare le attenzioni dei sadici coetanei. Diversamente da altri biopic – incentrati su celebri serial-killer - che si perdono nella spettacolarizzazione dei fatti di cronaca, togliendo fisicità ai protagonisti e attribuendo loro identità semplificate e posticce, qui la figura di Dahmer ci viene descritta in tutta la sua complessità.

Il merito spetta sopratutto alle doti attoriali di Ross Lynch – ex star di Disney Channel - che dimostra di sapere interiorizzare perfettamente il disagio del suo personaggio, i suoi scatti d’ira imrprovvisi, la sua libidine repressa fino a incarnarne perfettamente anche ogni dettaglio fisico: dall’andatura strascicata alla postura curva e pesante che nasconde un’inettitudine di facciata che già lascia intuire una lucidità fuori dal comune. Dove altri registi - prima di lui - hanno fallito, Marc Meyers riesce nella sua missione di raccontare con il suo My Friend Dahmer la “metamorfosi” del Cannibale di Milwaukee - una storia sgradevole da romanzare – come se fosse un film “coming of age” diretto da Richard Linklater, con gli stessi colori saturi, una colonna sonora ricercata, una regia asciutta e una riflessione di fondo difficile da metabolizzare. Perché alla fine della visione, quando pensiamo di trovarci davanti il solito “mostro” da stigmatizzare , scopriamo in realtà di aver conosciuto soltanto Jeffrey Dahmer di Bath nell’Ohio, un ragazzo qualunque che sta per franare in un abisso di atrocità che forse si sarebbe potuto evitare.

Categoria
Immagine con larghezza massima
Larghezza massima
Free text
USA 2017
Regia: Marc Meyers
Cast: Ross Lynch, Anne Heche, Alex Wolff, Dallas Roberts, Vincent Kartheiser
Durata: 107 minuti
Iscriviti a