The Transfiguration

di Jacopo Bonanni
the transfiguration2 h 2016

Nel 1978, George A. Romero mette definitivamente la parola fine al cinema gotico, profanando l’ultima grande icona di quella fortunata stagione immortalata dalle produzioni Hammer, Dracula. Il protagonista del suo Martin- Wampyr non è né un gaudente gentiluomo d’altri tempi né un vampiro in senso stretto: è semplicemente un ragazzo confuso ed alienato, un “feticista del sangue” che cerca di colmare il suo vuoto esistenziale armato soltanto di siringa e rasoio. Dieci anni prima dei Ragazzi perduti di Schumacher e degli outsider de Il buio si avvicina della Bigelow, Romero già presagisce la necessità del nuovo cinema horror di lasciarsi alle spalle il bagaglio iconografico e concettuale legato alla figura tradizionale del vampiro. Decide dunque di spogliarlo del suo alone mistico e dei suoi poteri soprannaturali, mostrandolo alla luce del sole come un autistico killer seriale. Nella cinema romeriano non c’è spazio per atmosfere romantiche e raffinate: i succhiasangue moderni sono dei derelitti, costretti a condurre un’esistenza disperata e brutale ai margini della società americana.

Da allora sono passati quarant’anni: Romero ci ha lasciato, i vampiri hollywoodiani sono un’ innocua stirpe di cliché e il film “minore” del padre dei morti viventi rimane ancora oggi uno dei più controversi e sottovalutati della sua carriera. Quell’intuizione anticonformista non è stata però dimenticata; lo testimonia The Transfiguration, esordio alla regia del newyorkese Michael O’Shea, che raccoglie ed amplia l’eredità di Wampyr con un piglio altrettanto cinico e disincantato, un approccio che sicuramente avrebbe fatto piacere al Maestro. Questo perché il film di O’Shea è soprattutto un prodotto politico teso a raccontare l’altra faccia dell’America, quella della disparità economica e del conflitto razziale, quella che nel cinema di genere – vedi il recente Get Out – trova la sua collocazione ideale.

Il protagonista della vicenda è Milo (Eric Ruffin), un apatico adolescente afroamericano, recluso in un esilio personale nei sobborghi malfamati del Queens; qui lo vediamo dissanguare uno sconosciuto all’interno di un bagno pubblico in una cruda sequenza iniziale. Profondamente segnato dal suicidio in casa della madre, il ragazzo convive con il fratello maggiore Lewis (Aaron Clifton Moten), un ex-soldato che preferisce esorcizzare i sui demoni davanti al televisore. I due comunicano a malapena e non hanno relazioni con l’esterno, se non con la polizia e la gang di spacciatori del quartiere, trait d’union tra due mondi apparentemente inconciliabili, quello fuori e dentro la casa. La non-vita di Milo è scandita esclusivamente da un calendario in cui sono cerchiati i giorni predisposti alla caccia. Infatti il giovane palesa un’ammirazione morbosa per i vampiri e i predatori animali in generale: di giorno li studia, annotando su un taccuino tutti i loro comportamenti, mentre di notte li imita, dimostrandosi un esecutore spietato, forte di un’etica cristallina che lo rende zelante nella scelta delle vittime migliori – per lo più uomini bianchi, alcolizzati, tossici, pedofili – e nella ricerca minuziosa delle condizioni ideali.

Milo non ha amici, la maggior parte delle persone, compresa la psichiatra scolastica, lo considerano un freak. Questo marchio sociale, sebbene lo ghettizzi, gli concede però un vantaggio strategico che gli permette di tenere il mondo a distanza e affrontare la sua missione come ha sempre fatto: senza scrupoli, metodicamente da solo,come i suoi idoli. Almeno fino all’incontro con Sophie (Chloe Levine): una ragazzina bianca, anch’essa “difettosa” nel suo autolesionismo, appena trasferitasi nel suo stesso palazzo. Più che un incontro, è un cortocircuito di solitudini quello da cui nasce la tenera amicizia che coinvolge i due protagonisti, imbrattati di malinconia come alcuni dei personaggi dei Peanuts. E’ proprio l’intimità di questo legame, tra maratone di film horror e lunghe passeggiate solitarie, ad intaccare le sicurezze di Milo; costretto per la prima volta a interrogarsi sulla sua vera natura e a confrontarsi con le implicazioni morali dei suoi impulsi omicidi. Ma ormai è troppo tardi, il ragazzo si è spinto troppo oltre per poter tornare indietro.

The Transfiguration è un esordio “scomodo”, costruito ad arte, ricco di spunti di riflessione sulla contemporaneità (bullismo, omofobia, alienazione). Un film metropolitano che ti rimane addosso con i suoi colori cerulei, una recitazione catatonica, una colonna sonora intinta di synth. Tutti elementi che, nonostante le esplicitate ispirazioni cinefile (Lasciami entrare; The Addiction, L’ombra del vampiro), lo iscrivono di diritto in quella schiera di pellicole indipendenti che stanno rivisitando gli archetipi del cinema horror, riscrivendone i canoni con originalità ed intelligenza, dalle streghe agli zombie (tra gli altri The Witch, It Stains The Sands Red, A Ghost Story, I’m Not A Serial Killer).

Nell’era del retrò e del revival, dove anche i vampiri non invecchiano ma diventano vintage, Michael O’Shea riesce ad attualizzare la metafora vampiresca di Romero, riadattandola ai ritmi frammentari della quotidianità. Per farlo attinge alle regole del racconto di formazione, girando un coming of age realistico, quasi documentaristico, sulle difficoltà e gli orrori dell’età di transizione di un teenager che cerca di sopravvivere nel ghetto, modellandosi su qualcosa di invincibile. Il contagio di Milo infatti è un contagio culturale: non ha zanne, è indifferente al sole, il suo orrore quotidiano non attinge ad un passato mitico ma alla pochezza del presente. Un presente nel quale succhiare il sangue dei propri simili – per il protagonista – implica la tacita ricerca di un contatto umano e, allo stesso tempo, incarna un sentimento di rivalsa nei confronti di una comunità – quella degli adulti – che lo ha abbandonato. Una visione matura che ci restituisce, senza svilirla, una generazione di pre-adolescenti e di vampiri finalmente lontani dall’autocompiacimento nostalgico presente in altri prodotti.

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Michael O’Shea Eric Ruffin Chloe Levine Larry Fessenden 97 minuti
USA 2017
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Il Monte delle Formiche

di Arianna Pagliara
il monte delle formiche

Sul monte delle Formiche, nell’Appennino bolognese, ogni anno attorno all’otto settembre – giorno della nascita della Vergine secondo la tradizione – avviene un fenomeno incredibilmente curioso: interi sciami di formiche alate migrano, da ogni parte, verso la vetta del monte, dove si accoppiano per poi morire ai piedi di un santuario qui edificato, probabilmente, attorno all’XI secolo. L’immagine della Madonna all’interno della chiesa e il distico latino che la accompagna (Centatim volitant formicae ad Virginis aram quo que illam voliant vistmae tatque cadunt, ansiose volano le formiche all’altare della Vergine, pur sapendo che ai suoi piedi moriranno) testimoniano che secondo le credenze popolari questo insolito fenomeno naturale è sempre stato percepito come un evento mistico e considerato, nello specifico, un omaggio dei piccoli insetti alla figura della Vergine. Fin dal ‘400, del resto, il santuario veniva chiamato "Santa Maria Formicarum" e ancora oggi le formiche morenti vengono raccolte su enormi teli bianchi e poi chiuse in piccoli sacchetti, perché porterebbero fortuna e avrebbero un potere guaritore.

Riccardo Palladino, già autore del documentario Brasimone dedicato all’omonimo lago emiliano, è uno scopritore di luoghi, un poeta ispirato che miscela la geografia del territorio a quella dell’immaginazione e della leggenda, confrontando tradizione e modernità ma senza il piglio freddo e distaccato dell’antropologo, piuttosto con lo sguardo estasiato e lieve di chi cerca, nello spettacolo misterioso e meraviglioso della natura, una vera occasione di contemplazione e astrazione. Procedendo con disinvoltura in questa direzione, muovendosi al confine tra una fenomenologia delle cose tutta documentaristica e un afflato profondamente lirico, il regista lascia che la macchina da presa esplori boschi e cieli, racconti i giochi dei bambini e i rituali degli adulti, e infine osservi il vivere complesso e stupefacente di questo minuscolo insetto sociale protagonista del film, la formica.

Tra entomologia, scienza e riflessioni filosofico-esistenziali, Palladino si serve dei contributi di autori assolutamente diversi tra loro fondendoli assieme in un unicum perfettamente coerente sia in se stesso sia rispetto alle immagini: Die Natur (1783) dello scrittore svizzero Georg Christoph Tobler, posto in apertura come una limpida dichiarazione di intenti; La vita delle formiche (1930), ultimo libro della trilogia naturalista dello scrittore belga Maurice Maeterlinck; infine Le prigioni di Stato, dell’intellettuale italiano Aldo Braibanti che fu, non a caso, anche un esperto mirmecologo.

Il Monte delle Formiche è dunque un film per e sulla Natura, nel quale trascendenza e immanenza non vengono letti come elementi antitetici: quasi a richiamare la filosofia di Ralph Waldo Emerson tanto cara al texano Terrence Malick - che della descrizione poetica della natura è indiscusso maestro cinematografico – il film di Palladino situa il senso profondo dell’essere dentro le cose, ricongiungendo spirito e materia, forma e sostanza, mente pensante e corpo senziente. Le formiche che si muovono in modo mirabilmente coordinato come atomi disgiunti facenti parte però della stessa entità, metafora del corpo umano, somma di parti che agiscono all’unisono per formare un unico armonico organismo; la vita che pulsa allo stesso modo in ogni singola cellula, sia essa vegetale, animale, umana; l’infinitamente grande che si rispecchia eternamente nell’infinitamente piccolo: il documentario di Palladino, oggetto luminoso, vaporoso e traboccante, riesce a porre in atto una fascinosa riflessione su tutto questo, con incredibile levità e fortissima immediatezza.

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Riccardo Palladino 63 minuti
Italia, 2017
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My Friend Dahmer

di Jacopo Bonanni
ross

Nell’estate del 1969, all’ombra di Woodstock, germoglia il “seme dalla follia” che sfregerà per sempre il volto dell’America, avvelenando irrimediabilmente l’utopia pacifista dei “favolosi” anni sessanta ormai trascorsi. Hollywood trema sotto un’ondata improvvisa di inaudita violenza – inaugurata dalla brutale strage di Bel Air della Family di Charles Manson e centellinata dai criptici messaggi del Killer dello Zodiaco – che converte la generazione dei colorati figli dei fiori nei sanguinari “figli di Sam” del decennio successivo. Gli anni settanta verranno infatti ricordati come “l’era dei serial-killer”: una decade che ha visto emergere in rapida successione - dalle pagine della cronaca nera - un’orda di “nuovi mostri” provenienti dagli angoli più bui della provincia americana e destinati a soppiantare quelli “classici” - meno credibili ed efferati – nell’immaginario collettivo del pubblico. Tra questi, spicca senza dubbio il nome di Jeffrey Dahmer, protagonista assoluto del film biografico My Friend Dahmer, interpretato dal fenomenale Ross Lynch nel ruolo del giovane assassino: una delle pellicole rivelazione del 2017, scritta e diretta dall’estroso Marc Meyers (How I Fell In Love).

Probabilmente tutti gli appassionati di crime-show e legal-thriller televisivi conoscono a memoria i dettagli della vicenda pubblica e giudiziaria di Dahmer, noto ai più come “il cannibale di Milwaukee”: il serial-killer più controverso del ventesimo secolo – omicida, necrofilo, omosessuale – che ha divorato diciassette ragazzi tra il 1978 e il 1991, rivelando al mondo l’orrore di un esistenza oscura, vissuta oltre i confini di ogni macabra fantasia. In pochi, invece, conoscono la sua vita privata, quella prima del suo primo delitto che lo vede ancora seduto tra i banchi di un liceo qualsiasi dell’Ohio nei panni di un adolescente malinconico e stravagante – come tanti - alle prese con le prime sbronze, le bravate con gli amici e le turbe esistenziali dell’epoca pre-reganiana. Tutti innocenti riti di passaggio collettivi che - nel caso di Dahmer – non sono altro che timide richieste d’aiuto prima di affondare in un inferno privato di pulsioni scabrose ed istinti inconfessabili.

Questa è la storia che sceglie di raccontare il regista Marc Myers nel suo film: un particolarissimo making of di un assassino, basato sui ricordi e sulle immagini di Jeff “Derf” Barker - amico ed ex compagno di classe di Dahmer - autore della graphic-novel da cui è tratto la pellicola. La trama scorre come un inesorabile conto alla rovescia verso una tragedia annunciata che grava costantemente sullo spettatore, ripercorrendo fedelmente i “dolori del giovane Dahmer”; nel tentativo di decifrare tutti i segnali che presagiscono la deflagrazione della sua follia omicida: dal divorzio doloroso dei genitori, al feticismo per le carcasse degli animali morti, passando per i latenti problemi di alcolismo, fino a quelli legati ad una sessualità/socialità frustrata.

Ogni personaggio che incontriamo durante la narrazione partecipa più o meno attivamente alla “metamorfosi” di Dahmer e sceglie deliberatamente di ignorarlo, a partire dall’amico Derf (Alex Wolf) - cinico e manipolatore – l’unico che sembra provare ad empatizzare con lui inizialmente – eleggendolo come “mascotte” della scuola - per poi umiliarlo e abbandonarlo proprio nel momento di maggior bisogno, alle soglie di un destino che ormai appare irrevocabile. La particolarità che distingue ed esalta la ricostruzione filmica di Meyers è quella di saper indugiare sulle premesse morbose delle situazioni descritte – portando al limite l’attenzione dello spettatore - senza mai cedere alla tentazione di mostrare la violenza esplicita che contraddistinguerà le gesta future del suo protagonista. Durante tutto l’arco del film l’orrore – quello vero – si percepisce altrove: nei silenzi pesanti come lapidi, negli sguardi assenti e nelle grottesche performance di Dahmer, costretto a recitare la parte dello spastico pur di elemosinare le attenzioni dei sadici coetanei. Diversamente da altri biopic – incentrati su celebri serial-killer - che si perdono nella spettacolarizzazione dei fatti di cronaca, togliendo fisicità ai protagonisti e attribuendo loro identità semplificate e posticce, qui la figura di Dahmer ci viene descritta in tutta la sua complessità.

Il merito spetta sopratutto alle doti attoriali di Ross Lynch – ex star di Disney Channel - che dimostra di sapere interiorizzare perfettamente il disagio del suo personaggio, i suoi scatti d’ira imrprovvisi, la sua libidine repressa fino a incarnarne perfettamente anche ogni dettaglio fisico: dall’andatura strascicata alla postura curva e pesante che nasconde un’inettitudine di facciata che già lascia intuire una lucidità fuori dal comune. Dove altri registi - prima di lui - hanno fallito, Marc Meyers riesce nella sua missione di raccontare con il suo My Friend Dahmer la “metamorfosi” del Cannibale di Milwaukee - una storia sgradevole da romanzare – come se fosse un film “coming of age” diretto da Richard Linklater, con gli stessi colori saturi, una colonna sonora ricercata, una regia asciutta e una riflessione di fondo difficile da metabolizzare. Perché alla fine della visione, quando pensiamo di trovarci davanti il solito “mostro” da stigmatizzare , scopriamo in realtà di aver conosciuto soltanto Jeffrey Dahmer di Bath nell’Ohio, un ragazzo qualunque che sta per franare in un abisso di atrocità che forse si sarebbe potuto evitare.

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USA 2017
Regia: Marc Meyers
Cast: Ross Lynch, Anne Heche, Alex Wolff, Dallas Roberts, Vincent Kartheiser
Durata: 107 minuti

It Follows / Oltre la linea d’ombra

di Matteo Berardini
it follows recensione

«E’ privilegio della prima giovinezza vivere oltre il presente, nella bella e ininterrotta speranza che non conosce pause o introspezione»

Joseph Conrad

 

 

Con due soli film all’attivo, <i>The Myth of American Sleepover</i> (2010) e <i><b>It Follows</i></b> (2014), <b>David Robert Mitchell</b> si è affermato come uno dei registi più promettenti del nuovo cinema indipendente americano (non indie, perché dello stile ormai ammiccante e fintamente garage del filone Sundance i film di Mitchell non hanno davvero nulla).

Nonostante appartengano in apparenza a generi diversi (racconto di formazione adolescenziale il primo, slasher anni Ottanta il secondo), i suoi primi due film rivelano una forte coerenza tematica e stilistica ruotante attorno ad un unico argomento, l’adolescenza – intesa come fase di rottura nella quale timori e ossessioni e speranze perdute si manifestano ripetutamente. In questo senso <i>The Myth of American Sleepover</i> e <i>It Follows</i> sembrano essere l’uno la riscrittura dell’altro, anche se sarebbe più opportuno parlare di prosecuzione lineare. Entrambi i film infatti si concentrano sul concetto di racconto di formazione, ma se in <i>The Myth</i> l’orizzonte di passaggio è quello tra infanzia e giovinezza, <i>It Follows</i> sposta avanti di qualche anno il discorso e porta i suoi protagonisti al confine con la prima età adulta. In ambedue i casi il passaggio è traumatico e inteso nei termini della perdita: in <i>The Myth</i> vediamo adolescenti divisi tra sete di scoperta (anzitutto sessuale) e malinconia per l’infanzia perduta (il mito cui fa riferimento il titolo è quello della vita da teenager, in cui si scambia l’innocenza di un tempo per una prima libertà che genera però confusione e disagio esistenziale); <i>It Follows</i> invece sfrutta le dinamiche dell’horror per imbastire un’elaborata metafora sull’insorgere di paure mortifere e ossessioni in seguito alla scoperta del corpo sessuato, passaggio che porta ad una rottura nella continuità della rappresentazione del Sé e genera disagio in assenza di una cornice di sicurezza che sia genitoriale o sociale.

 

Infettata da una maledizione mortale dopo aver avuto quello che probabilmente è il suo primo rapporto sessuale, Jay sembrerebbe la perfetta protagonista di uno slasher, sotto-filone horror che ci ha abituato a vedere corpi adolescenziali straziati in seguito ad eccessi della carne. Leggere in tal senso <i>It Follows</i> però sarebbe fuorviante e limitativo. Nonostante Mitchell giochi con i canoni del genere e flirti apertamente con la dimensione cinematografico/temporale degli anni Ottanta (in modo volutamente criptico e onirico), <i>It Follows</i> non vuole essere né una parabola morale né una metafora scoperta dell’infezione sessuale. Certo, il riferimento all’HIV è lampante, tuttavia tanto il rapporto con il lavoro precedente quanto un’infinità di altri elementi sparsi da Mitchell portano il film da un’altra parte, riconducendolo ad un terreno di coming-of-age nel quale la scoperta del sesso ha lo scopo di sancire anzitutto il passaggio all’età adulta. Andando a scavare in una prospettiva più psicanalitica, <i>It Follows</i> ci ricorda come la scoperta del corpo sessuato si carichi di aspettative e significati esistenziali anche per via dell’assenza di forti riti di iniziazione collettivi nella nostra società occidentale. L’accesso all’età adulta è una mutazione ontologica che comporta rottura, strappo e ridefinizione futura, un passaggio che se non avviene all’interno di un contesto simbolico evidente rischia di creare vuoti di senso e panico e disillusione esistenziale. Dopo aver consumato il suo rapporto con Hugh, Jay parla non a caso del senso di vuoto sopraggiunto con la crescita, una mancanza di direzione che sembra rinchiuderla in un limbo all’interno del quale risulta impossibile per lei trovare la propria nuova identità. Ecco così che nella riscrittura del genere quella che era la tipica punizione dello slasher diventa una nuova ossessione e paranoia, ansia generata dall’assenza di comunità e riti evidenti.

 

Una figura silenziosa che procede verso di noi, lenta ma inesorabile, mentre i nostri arti restano inchiodati dove sono in attesa di un contatto che si prefigura mortale. C’è chi ha parlato di <i>It Follows</i> in termini lynchiani, un paragone che esula però la forma cinematografica e trova la sua ragion d’essere in un terreno comune: il sogno lucido. Come Lynch infatti Mitchell riesce a riportare sullo schermo quella particolare dinamica onirica all’interno della quale si diviene coscienti del proprio stato dormiente mentre una presenza oscura e mortale si avvicina inarrestabile verso di noi, fino a toccarci e a causare la nostra morte/risveglio. E’ difficile infatti non vedere una rielaborazione di questo fenomeno nello spettro di <i>It Follows</i>, del resto lo stesso Mitchell ha indicato come origine del film un sogno analogo. Nella prospettiva di formazione adolescenziale e di crisi sopra tracciata, la persecuzione ossessiva subita dallo spettro diventa allora la scoperta della propria mortalità, il sopraggiungere di tale consapevolezza che per la prima volta coglie nel profondo un ragazzo adolescente. Per Jay e il suo gruppo di amici la scoperta sessuale diventa l’ingresso in un’età adulta caratterizzata dalla perdita di controllo, dal timore per il futuro e dalla presenza inalienabile della morte nella vita. In fila al cinema assieme a Jay, Hugh si presta al gioco di indicare una persona che vorrebbe essere in quel momento, e non a caso la sua scelta ricade su un bambino piccolo, innocente ma soprattutto inconsapevole degli aspetti profondi della sua mortalità. La pulsione sessuale si rovescia e diventa ossessione per la morte, un pensiero intrusivo che come una maledizione si inocula nella mente per ripresentarsi ripetutamente nei termini della paranoia. Lo spettro di <i>It Follows</i> non è né zombie né fantasma ma una vera e propria morte vivente, che a volte assume i tratti di corpi anziani e decadenti, altre di genitori assassini. Perché è evidente come tutto questo accada in un mondo privo di adulti e figure di riferimento, un mondo all’interno del quale i ragazzi sono lasciati totalmente a loro stessi e soltanto tra di loro possono trovare la forza e il coraggio per reagire. In molti hanno giustamente sottolineato come l’avvento della maledizione sia per lo meno favorito dalla solitudine assoluta in cui vivono i ragazzi protagonisti, tuttavia l’attacco di Mitchell va più nel profondo, e ricollegandosi al decadimento urbano di una Detroit astratta sì ma molto vicina agli anni 80 diventa inequivocabilmente politico.

 

Quasi casualmente, tanto che è difficile coglierlo ad una prima visione, i protagonisti di <i>It Follows</i> citano la 8 mile, la celebre strada che separa i quartieri suburbani di Detroit dal centro città, luogo di decadenza e crimine e squallore, quello stesso degrado che nel corso nel film vedremo comparire più volte e che diventa sede di rifugio in diversi momenti del narrato (la casa di Hugh, la piscina). Di fronte queste immagini di abbandono e degrado urbano l’ambientazione fortemente anni 80 voluta da Mitchell non può quindi ridursi ad un discorso cinematografico ma diventa vero attacco politico ad una società (quella reaganiana) incapace di costruire un futuro per i suoi figli e di fornire strutture adeguate ad affiancarli nel loro percorso di formazione. A mancare in <i>It Follows</i> non sono soltanto i genitori ma la società tutta, specie in una città che proprio negli Ottanta ha visto crollare la propria industria automobilistica a fronte di politiche classiste e incuranti. In questi anni la cosiddetta Motor City d’America diventa la Murder City, famosa in tutto il paese per il degrado e il crimine del proprio centro urbano, al quale corrisponde una fuga in quei suburbs nei quali abitano Jay e compagni. A rendere ancor più notevole l’apparato poetico di <i>It Follows</i>  è allora quest’intrecciarsi di piani metaforici diversi, una rappresentazione in cui senza soluzione di continuità si racconta di un coming-of-age la cui linea d’ombra diviene sede di mostruosità ancestrali di genesi esistenziale e politica. A fronte di quell’assenza di strutture di cui si è parlato, per questi ragazzi l’unica soluzione rimasta è allora l’accettazione, la rinuncia al combattimento come autentica via di fuga. Se il piano in piscina si rivela un fallimento è perché a poco o nulla serve combattere contro le proprie compulsioni e paranoie, è anzi quando si rinuncia a tenere lontano il demone che la paura di esso sparisce. Esorcizzare la morte dalla propria vita è impossibile e inutile, meglio allora tenersi per mano come Jay e Paul nel finale del film; assieme, uniti, consapevoli di uno spettro che fa ormai parte delle loro vite ma consci anche di come queste possano comunque proseguire. Epicuro diceva che non bisogna temere la morte perché quando ci siamo noi lei è assente e viceversa. <i>It Follows</i> ci ricorda il contrario, la morte è con noi ogni giorno, ma l’unico modo per non soccombere al terrore è smettere di combatterla e continuare a camminare. Magari assieme.

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