Lazzaro Felice

di Domenico Saracino
lazzaro felice

Cos’è che lega tra loro, come in un mescolarsi di limpide acque sorgive, fiaba e poesia, queste due forme dell’infinito che nel cinema ormai riconoscibilissimo di Alice Rohrwacher finiscono per riempire tempi e spazi del suo narrare audiovisivo? E che tornano, come rilevato dalla gran parte dei critici chiamati a scriverne, in Lazzaro Felice, sua ultima opera premiata, così come era già avvenuto con Le Meraviglie, a Cannes?

Sono, per dirla col titolo del suo film precedente, appunto, le meraviglie, epifanie di segreti che abbiamo dimenticato, interruzioni dell’arida regolarità di un quotidiano che occhi stanchi non riescono più a far respirare, sacche magiche di resistenza dell’anima, di misteri antichi. Perché per il poeta la poesia non è che apparizione e rivelazione del meraviglioso, fiaba per sua stessa natura. Tutto ciò che è poetico dev’essere necessariamente fiabesco e la fiaba, rifletteva già qualche secolo fa Novalis, non è che “il canone della poesia”.

E se nel suo secondo film tutto questo era nel fischio di un bambino senza più parole, nell’emersione di un’ape dalla bocca di una fanciulla, nel mistero dei favi, dei melari e degli smielatori, delle disopercolature e delle cristallizzazioni, degli Etruschi, di grotte ed isole, nello sbraitare d’un padre in mutande contro i cacciatori, in questo Lazzaro Felice è nel “miracolo dimenticato della bontà” (parole della stessa Rohrwacher), nella dolce santità del suo protagonista e dei suoi occhi, nelle immaginette sacre nascoste sotto i letti, nella forza callosa, ispessita, di contadini che parlano la lingua del vento, nella resurrezione, nella musica di un organo che fugge via da una chiesa, per trovare, fuori da quelle mura, orecchie nuove, ancora aperte al suono della carità.

Fiaba e poesia sono gli ingredienti, sinergici e complementari, di un unico antidoto alla disumanità, allo scientismo, alla tecnocrazia, a tutto ciò che tende a spogliare il cosmo dei propri enigmi, lo spirito della grazia, la natura della sacralità, gli uomini della bontà. Sono nobili forme di (r)esistenza alla irreggimentazione, alla coscrizione, all’automazione.

Si prenda Le Meraviglie, ad esempio. Una famiglia di apicoltori sopporta con dignità le sferzate di una trasformazione imposta, coatta e innaturale, l’imposizione di asettiche regole di sicurezza e igiene che snaturerebbe l’artigianalità, e quindi il senso stesso, l’identità profonda, della loro arte produttiva. Che è il risultato operativo di un lavoro corale, di una fatica famigliare, di tradizioni, riti e ruoli ben precisi, di una chimica non replicabile in laboratorio.

Gli stessi elementi che poi ritroviamo in Lazzaro Felice, nella comunità contadina ingannata dalla marchesa De Luna, regina della sigarette, della capitalizzazione, dello sfruttamento e della mercificazione.

Resistono gli apicoltori, resistono i contadini, inevitabilmente trasformati in emarginati urbani dalla presunta misericordia di un welfare capace di misurare la povertà solo in termini economici e non più umani, sociali. Il loro è un tentativo disperato, ma mai rassegnato, di resistere alle invasioni barbariche del turismo di massa, del consumo, persino della legge. Di ri-poetizzare l’esistenza. È la resistenza della pietra agli intonaci e alle pitture lavabili, della ricotta del pastore a quella del casaro-imprenditore, della bontà ingenua delle genti sfruttate alla furbizia degli sfruttatori, della poesia e della fiaba alle mortificazioni di narrazioni calcolate, imprigionate in schemi e convenzioni.

Certo se questa anarchia, come avviene in Lazzaro Felice, si traduce anche sul piano linguistico, si corre il rischio di allentare eccessivamente un controllo che avrebbe forse giovato, di aggiungere lì dove sarebbe stato meglio sottrarre. Se infatti nell’opera precedente, il racconto si teneva ben saldo sulla famiglia di apicoltori, in particolare su Gelsomina, in Lazzaro, che è operazione di sicuro più ambiziosa, l’esposizione si fa più sbilenca, erratica, irrisolta, le allegorie – soprattutto quella del lupo protettore – più stridenti, marcate, avulse.

Eppure in questa sua irregolarità da fiaba della tradizione orale, sfilacciata e sghemba, il film mostra tutto il suo profondo coraggio. Il suo valore sta nel suo sguardo inclusivo e partecipe, sempre vicino all’innocenza dei suoi personaggi, minacciati e vessati dalla rapacità del mondo. E pare di sentirli i Winspeare, i Carpignano, a ricordarci quanto questo sia davvero importante.

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Italia 2018
Regia: Alice Rohrwacher
Cast: Adriano Tardiolo, Alba Rohrwacher, Tommaso Ragno, Luca Chikovani, Agnese Graziani, Nicoletta Braschi
Durata: 130 minuti


Jurassic World - Il regno distrutto

di Samuel Antichi
jurassic world il regno distrutto recensione film

Ritorna sugli schermi, a tre anni di distanza dall’ultimo capitolo, la saga inaugurata nel 1993 da Jurassic Park, e non sembra conoscere via d’estinzione. Partendo da una robusta fan base che ha vissuto la propria adolescenza nel mito dei dinosauri creati da Spielberg, questa fase, questo universo di sequel, il primo Jurassic World, nella ridefinizione e riconfigurazione del tema, cerca di rivisitare e rivitalizzare l’immaginario fidelizzando una nuova generazione, figlia degli effetti speciali del blockbuster hollywoodiano piuttosto che del valore nostalgico del cinema come creatore di mondi, ottenendo, per il momento, enormi consensi di pubblico. Ad oggi infatti Jurassic World è il quinto incasso al box office nella storia del cinema. La regia di questo nuovo episodio, Jurassic World – Il regno distrutto, è affidata a J.A. Bayona, formatosi con il cinema horror (The Orphanage) ma con alle spalle un’acquisita dimestichezza con i grandi mezzi di produzione del cinema americano (The Impossible).

Ripartendo esattamente dalla conclusione dell’episodio precedente, la distruzione del parco sull’Isola di Nublar, il film esordisce mostrando lo scontro tra una parte dell’opinione pubblica e le autorità e istituzioni per quanto concerne il destino dei dinosauri. Liberi di aggirarsi tra le macerie di quella che una volta era la loro prigione, gli animali, ancora confinati sull’Isola, rischiano di venir seppelliti dalla lava di un vulcano che ha ripreso l’attività eruttiva.

Saranno Claire (Bryce Dallas Howard) e Owen (Chris Pratt), i protagonisti del primo episodio, che con i dinosauri avevano creato un rapporto di empatia, a guidare la missione di salvataggio, finanziata da Benjamin Lockwood (James Cromwell) un miliardario e socio nascosto di Hammond (Richard Attenborough), l’uomo che fondò il parco nel film originale. Nonostante manchi il parco, quindi la dimensione ludica, la spettacolarità attrattiva delle nuove forme di turismo, delle nuove forme di esperienza nell’interazione con gli animali grazie ad infrastrutture ipertecnologiche e fallaci sistemi di protezione all’avanguardia, il film ritorna a riflettere sulla natura contraddittoria delle scelte dell’essere umano. Questo nuovo universo non mostra esclusivamente le conseguenze del fallimento del delirio di onnipotenza dell’uomo, mosso da un impulso creatore figlio della tecnica che l’aveva visto immaginarsi Dio, cambiando il corso della Storia, e portando in vita i dinosauri, concretizzando e alimentando fantasie e fantasmagorie dell’immaginario collettivo. Oltre alla continua riflessione su come la natura colpita e sfruttata arrivi a reagire, formula iniziale dei disaster movie, il film riflette ancora una volta sul dominio della tecnologia. Se originariamente i dinosauri venivano esposti nel parco, seguendo comunque delle logiche commerciali e di profitto, per fare in modo che i visitatori potessero vivere un’esperienza unica, nel nuovo universo di Jurassic Park gli animali perdono una connotazione ludica, nostalgica e di intrattenimento, per diventare strumenti bellici, macchine in mezzo alle macchine, figurazioni di nuove mitologie figlie ancora una volta della società dei consumi e dei miracoli tecnologici della scienza. I dinosauri non servono più per costruire e stimolare l’immaginario collettivo in quanto trofei da vendere al miglior offerente.

Nonostante sia condizionato e guidato inevitabilmente dalle esigenze e dai piani degli studios, Bayona ritorna ad alcune tematiche che caratterizzano i suoi lavori precedenti. Per prima cosa, tra gli elementi più interessanti, la perdita dell’innocenza e l’ingresso nell’età adulta della piccola Maisie, l’esordiente Isabella Sermon, che deve affrontare le creature che hanno segnato la propria infanzia e popolato i racconti del nonno, ma che non aveva mai visto con i propri occhi. Un ritorno allo stupore e al terrore infantile dopo l’esperienza messa in scena in Sette minuti dopo la mezzanotte, in cui i mostri erano figurazioni del trauma, della memoria repressa del bambino così come strumento per la rielaborazione del lutto dovuto alla perdita della madre. Scevro da qualunque elemento splatter, che potrebbe urtare la sensibilità dei più piccoli e portare un probabile divieto ai minori, Il regno distrutto gioca sull’elemento della suspense attraverso alcune scelte stilistiche, che seppur non del tutto innovative, risultano estremamente funzionali all’interno del racconto. Magistrale da questo punto di vista la scena all’interno della libreria della villa di Lockwood, dove giochi di luce, specchi e riflessi, proiettano ombre minacciose e distorcono l’immagine, dando vita ad una manifestazione dei peggiori incubi della bambina.

Se Spielberg attraverso la computer grafica, come Hammond, aveva ridato vita a creature presenti solo nei libri o nella fantasia, dandole una struttura ed una traccia “referenziale”, portando avanti inoltre un discorso sulla natura ontologica dell’immagine cinematografica, il nuovo universo finzionale sembra concentrarsi prevalentemente su come l’ingegneria biomedica e le nuove iper-tecnologie stiano segnando la nostra società e la nostra esperienza. Una perdita dell’autenticità a cui si risponde con un ritorno alla vita secondo natura, con l’attenzione rivolta sempre verso l’essere umano, l’animale più pericoloso.

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<i>Jurassic World: Fallen Kingdom</i>
USA, Spagna 2018
Regia: J.A. Bayona
Cast: Chris Pratt, Bryce Dallas Howard, Rafe Spall, Justice Smith, Daniella Pineda, Toby Jones, Jeff Goldblum, Geraldine Chaplin
Durata: 128 minuti

The Strangers

di Pietro Lafiandra
the strangers recensione film

A guardar bene, ci si accorgerà di come l’home invasion (un film in cui una casa viene occupata da rapinatori o omicidi che mettono in pericolo la vita degli abitanti protagonisti) sia uno dei filoni cinematografici di maggior successo tra i blockbuster degli ultimi quindici anni. Partendo dal 2002, anno di uscita di Panic Room di David Fincher (un film che ha segnato l’immaginario collettivo cinematografico dei primi Duemila), i titoli da enumerare sarebbero potenzialmente infiniti: You’re Next di Adam Wingard, Assediati in casa di David Tennant, Knock Knock di Eli Roth, Ossessione omicida di Sam Miller, i remake de L’ultima casa a sinistra da parte di Dennis Iliadis e di Cane di pagliashot by shot di Michael Haneke con il suo Funny Games sono solo alcuni dei film citabili. Alla luce di questo mare magnum di film più o meno riusciti sarà lecito chiedersi cosa potrebbe mai differenziare The Strangers da uno qualsiasi degli altri titoli.

Il regista Bryan Bertino, pur rifuggendo le velleità autoriali dei due cineasti sembra aver imparato una lezione molto importante dal film di Fincher e da quello di Haneke: girando in uno spazio circoscritto come quello di una casa o di una stanza, la questione ritmica assume un valore ancor più centrale. Non potendo cadenzare un film dal punto di vista spaziale, per contravvenire all’obbligato ripetersi di luoghi e situazioni è necessario lavorare su due aspetti precisi: la gestualità degli attori e le lunghe pause silenziose.

I momenti migliori del film sono infatti ascrivibili a tutte quelle situazioni in cui “gli stranieri” — tre persone mascherate che invadono la casa di una coppia in crisi per torturare e uccidere — si mostrano alla telecamera come presenze fantasmatiche e impalpabili, relegate sullo sfondo dello schermo come ombre o oggetti del decòr, rivelati solo da piani sequenza lenti e protratti nel tempo, accompagnati dall’assenza di rumori e di colonna sonora, e così capaci di generare una tensione genuina che non si risolve (non sempre) nell’ormai stucchevole pratica del jump scare.

Gli stranieri attendono, tastano il perimetro della casa, scrutano la coppia da lontano: come Paul e Peter di Funny Games sembrano pregustare l’omicidio, la tortura in divenire. Vengono ripresi in diverse situazioni di stasi e in numerosi atti di mimesi, con le braccia lungo i fianchi appoggiati al muro, nascosti dietro a una tenda, celati all’interno di una macchina.

Ma silenzio e stasi non sono prerogative dei soli assassini e non sono dimensioni relegate esclusivamente alla narrazione; si compenetrano anche nelle scelte di recitazione, nell’uso che Live Tyler (Kristen) e Scott Speedman (James) fanno del proprio corpo e della propria voce.

La ragazza cammina in punta dei piedi, il suo viso monoespressivo sembra il perno rotatorio attorno a cui girano gli altri personaggi (gli invasori, il fidanzato), le movenze sono compassate, lente, timorose. La sua voce, sussurrata, smozzicata, sporca, strascicata, fatta di singulti e sussurri. Sembra quasi di poter scorgere la saliva che le impasta la bocca e la fatica che le costa parlare, anche solo per chiedere aiuto al fidanzato di cui ha appena rifiutato la proposta di matrimonio.

Le fa eco Speedman, bradicardico, riflessivo, statico. Incapace di fronteggiare la minaccia. Anch’egli silenzioso, reticente, passivo-aggressivo, ingessato nel suo vestito elegante. Non gesticola, non si tocca il volto, non si sfiora i capelli.

Il quid di The Strangers risiede insomma nella capacità di attendere, nella sua compostezza.

A differenza dei suoi gemelli, il film di Bertino non necessita di ritmi serrati o di una colonna sonora incalzante, anzi, ritorna alle radici che legano storicamente immagine e suono nel cinema horror attraverso l’accentuazione dei suoni diegetici (parole, rumori, fruscii) e riducendo all’essenziale la musica extradiegetica, ben dosata anche quando presente.

Certo, l’horror è un genere che fa dell’accostamento o del distanziamento dai suoi cliché (e quindi del rimando ad altri film) una cifra stilistica essenziale, e sono proprio questi cliché a fare di The Strangers un horror ottimo in potenza ma riuscito solo parzialmente. Nello strenuo tentativo di discostarsi dai mood dell’horror contemporaneo il film soffre della sua incapacità di diventare un prodotto d’autore, restando cinema ibrido e incompleto. Se le scelte di fotografia (toni caldi, zone chiaroscurali, forti contrasti) creano una precisa discontinuità con i colori al neon saturi e molto freddi di, per esempio, The Neon Demon, It Follows, Il giorno del giudizio, e risultano una scelta vincente per l’atmosfera lugubre che anima le zone d’ombra della casa, la violenza solo accennata (e che sarebbe stata propedeutica per instaurare un legame empatico tra lo spettatore e i personaggi), la metafora posticcia e mal abbozzata dei tre killer (che, ipoteticamente, dovrebbero comporre un nucleo famigliare) che torturano la coppia nel momento di maggiore crisi, nonché l’estetica di maschere ammiccanti a Profondo rosso e The Orphanage (ormai iper-abusate), inseriscono forzatamente The Strangers in quel filone da cui vorrebbe ma non riesce a sganciarsi, mancando della sensibilità estetica ed erotica necessaria a farlo.

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USA 2008
Regia: Bryan Bertino
Cast: Liv Tyler, Scott Speedman, Gemma Ward, Kip Weeks, Laura Margolis, Glenn Howerton
Durata: 85 minuti


Lorello e Brunello

di Marco Marrapese
lorello e brunello recensione film

Le greggi di pecore insidiate dai lupi e gli enormi trattori che solcano i pendii del terreno, i recinti per gli animali, gli oliveti e i vigneti che spuntano a macchia di leopardo tra le valli e le colline. La campagna maremmana offre scenari mutevolissimi nel susseguirsi delle stagioni, così come a variare sono i lavori che impegnano chi quella terra la abita e cerca di trarne il proprio sostentamento economico.

Lorello e Brunello sono due fratelli, gemelli non identici, tra gli ultimi abitanti rimasti a lavorare la loro terra e a vivere di essa. I due per tirare avanti con la loro azienda agricola si arrangiano all’occorrenza ad essere agricoltori, muratori, pastori, meccanici, ecc. I fratelli non sono soli in questo progetto, ad affiancarli ci sono alcuni collaboratori e vicini di casa, come Mirella, la fidanzata rumena di Brunello, che di tanto in tanto va a trovarli e li aiuta nelle faccende domestiche, o come Ultimina, vedova ultraottantenne, memoria storica dei luoghi e della vita di quelle campagne.

Jacopo Quadri, noto soprattutto per il suo lavoro di montatore, torna dietro la macchina da presa per raccontare attraverso le quattro stagioni dell’anno uno spaccato di vita bucolica, che allo stesso tempo è anche un’antologia sul lavoro nelle campagne delle colline toscane. La maremma da questo punto di vista è un territorio ampissimo, ma anche un luogo di confine, un simbolico presidio di resistenza, la resistenza della cosiddetta società rurale contro lo stradominio della globalizzazione. La piccolissima comunità maremmana vive quasi tra l’autarchia e l’abbandono a sé stessa, mentre il resto del mondo, quello che vediamo in televisione o leggiamo sui giornali, sembra lontano anni luce, sconosciuto e senza alcuna possibilità di contatto. Una vita dura quella dei protagonisti e dei loro compagni, fatta di lavoro ininterrotto e tante rinunce, sacrifici che smuovono i rimorsi e che mettono in discussione il senso di una vita spesa in quel modo, nell’isolamento di una fattoria tra i campi, lontani da qualsiasi occasione di svago o di conoscenza. Poi ci sono anche i problemi economici, i prodotti agricoli valgono sempre meno sul mercato mentre i costi di produzione sono in continuo aumento, generando una crisi che può portare al fallimento, prima economico e poi culturale. Una società e uno stile di vita che Quadri ritrae nei suoi ultimi fuochi, proponendola allo spettatore quasi come un pezzo di modernariato, un elemento che ha caratterizzato il passato del nostro Paese, ma che ora, benché ancora funzionate, è ormai un pezzo da collezione. In tutto questo non manca una grande umanità dei protagonisti, che il regista ritrae prestando attenzione alla matrice pittorica dell’immagine e avendo cura della composizione del fotogramma, senza mai perdere, tuttavia, aderenza nei confronti della realtà.

Il film è stato presentato in anteprima alla 35° edizione del Festival del cinema di Torino, dove ha anche ricevuto una menzione speciale della giuria.

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Atlanta - Seconda stagione

di Attilio Palmieri
atlanta seconda stagione recensione serie tv

<p>In molti hanno conosciuto <strong>Donald Glover</strong> grazie a <em>Community</em>, comedy di rara intelligenza creata da Dan Harmon in cui il giovane talento afroamericano interpretava Troy; il personaggio in coppia con Abed ha dato vita ad alcuni dei momenti comici più intelligenti della serie, andata in onda dal 2009 al 2014. Due anni dopo la chiusura dello show, nella seconda parte del 2016, Glover ha creato <em><strong>Atlanta</strong></em>, un prodotto in cui la sua fertilissima creatività si esprime alla perfezione, immediatamente salutata dalla critica americana come un evento <em>groundbreaking</em>.</p>

<p><em>Atlanta</em> racconta la vita e le storie dei suoi protagonisti attraverso un punto di vista autenticamente black, con una visione del mondo priva di tutta la retorica legata alla schiavitù e alla discriminazione razziale, ma carica di una pulsione civile e culturale che la porta a descrivere il mondo attraverso un filtro spesso messo a margine, quando non completamente eclissato.</p>

<p>La prima stagione ha introdotto i quattro protagonisti, mettendo al centro della scena la coppia composta da Vanessa e Earn (<strong>Zazie Beets</strong> e lo stesso Glover), affiancati da un duo di straordinari comprimari (ma in realtà co-protagonisti a tutti gli effetti) interpretati da <strong>Brian Tyree Henry e Lakeith Stanfield</strong>. Questo quadro narrativo lineare è però solo una struttura di base della serie, che si distingue dai modelli tradizionali di racconto anche per la sua capacità di creare ripetuti squarci nella narrazione, momenti spiccatamente riflessivi e a volte decisamente antinarrativi (come nel caso di “<em>B.A.N.</em>”, settimo episodio e vertice creativo della prima stagione).</p>

<p>La maggiore flessibilità della televisione contemporanea in materia di formati narrativi e di attributi di tipo estetico-stilistico è determinata anche da una minore rigidità dal punto di vista della produzione, che sempre più spesso non è più costretta a seguire calendarizzazioni rigide e può conoscere tempistiche maggiormente malleabili. <em>Atlanta</em> è un caso emblematico, in quanto immediatamente dopo la fine della prima stagione è stato reso noto che la seconda sarebbe arrivata dopo una pausa di due anni. A giudicare dall’esito ultimo si può tranquillamente affermare che tale libertà – almeno in questo caso – rappresenta sicuramente un vantaggio dal punto di vista creativo, soprattutto perché la seconda annata della serie si è dimostrata, incredibilmente, ancora più potente e sperimentale della prima.</p>

<p>Quest’anno Glover ha lavorato con maggiore consapevolezza, attingendo a piene mani dal talento dei suoi collaboratori, in particolare il <strong>fratello Stephen</strong> e il regista <strong>Hiro Murai</strong>, configurando sempre di più <em>Atlanta</em> come un oggetto innovativo e in continuo mutamento, dotato di una trama orizzontale tutt’altro che banale ma anche della capacità di attribuire agli episodi un’indipendenza abbastanza inedita nel panorama televisivo. Il risultato è una serie che in questo modo riesce a raccontare di volta in volta questioni molto specifiche e al contempo inserirle all’interno di un discorso organico. L’autorialità di Glover nel corso di questa seconda annata emerge anche attraverso la decentralizzazione del suo personaggio, il quale lascia spazio ad episodi in cui i protagonisti assoluti sono Paper Boi, Darius o Vanessa; un modo per dedicare tutto se stesso alla parte creativa, dando anche il massimo riconoscimento agli altri eccellenti interpreti della serie.</p>

<p>Una delle principali caratteristiche di questo show, tra i suoi maggiori punti di forza soprattutto in questa seconda stagione, consiste nel perfetto bilanciamento di registri dalle tonalità molto diverse tra loro: in questo modo la serie è capace di affrontare questioni di grande complessità sia con toni cupi e malinconici da black drama, sia con uno stile da commedia esuberante e dal ritmo indiavolato.</p>

<p>Un esempio della prima tipologia è il quarto episodio, in cui viene offerto uno spaccato della travagliata situazione sentimentale del protagonista, di cui si vanno a mettere a fuoco (esplorando, pur senza nominarli, tutti i temi più importanti legati alla <em>black toxic masculinity</em> e come questa influenza le relazioni di coppia) tutte le responsabilità nei confronti della compagna, così come le drammatiche conseguenze di un rapporto sbilanciato sia personalmente che culturalmente in favore di Earn, con Vanessa quasi sempre costretta a fare buon viso a cattivo gioco.</p>

<p>Al capo opposto della parabola stilistica c’è “<em>Barbershop</em>”, una sorta di commedia degli equivoci che attraverso una scrittura comica di altissimo livello riesce a far esplodere sullo schermo tutta la frustrazione lavorativa ed emotiva legata alla carriera di rapper di Paper Boi e al contempo far passare agli spettatori venti minuti di puro divertimento, in cui emergono sia il contrasto sia le similitudini tra l’ambiente del ghetto afroamericano e la vita di un rapper in ascesa.</p>

<p>Tra le tante cose che racconta <em>Atlanta</em> rispetto alla comunità afroamericana c’è infatti, in primissimo piano, il ruolo ambivalente della comunità e della famiglia: da un lato istituzione quasi tribale, che protegge dal mondo e all’interno della quale si riesce a trovare comprensione e fratellanza, ma dall’altro anche ingombrante cordone ombelicale che impedisce, spesso, l’evoluzione del singolo individuo e la sua reale emancipazione.</p>

<p>Una situazione sintetizzata perfettamente dall’espressione «<em>you can take the man out of the ghetto, but you can never take the ghetto out of the man</em>», in cui si sintetizza il ruolo del quartiere come rifugio e prigione per gli afroamericani, sempre pronto a salvarli e a proteggerli ma a ricordare loro da dove provengono, irrompendo nel mondo “di fuori” con le proprie regole: come una pistola d’oro che salta fuori da uno zaino ai controlli dell’aeroporto, pistola di ?echov del <em>season finale</em> e promemoria di come sia difficile liberarsi di secoli di marginalizzazione, esclusione, violenza, quando è la tua stessa famiglia a caricarne il peso su di te.</p>

<p>La seconda stagione di <em>Atlanta</em> è riuscita a fare ciò che nessuno si aspettava, ovvero superare il livello della prima in termini di qualità di scrittura e di consapevolezza narrativa, offrendo una serie di momenti che sarà davvero difficile dimenticare. “<em>Teddy Perkins</em>”, <em>extended episode</em> di circa trentacinque minuti posizionato a metà stagione, è un esempio del livello altissimo che la serie riesce a raggiungere all’interno di un singolo episodio: un gioiello di scrittura e messa in scena che ha giustamente monopolizzato l’attenzione della critica americana nei giorni successivi alla messa in onda.</p>

<p>In pochi minuti Glover ha realizzato un’opera complessa e stratificata capace di tornare sulle questioni affrontate con perizia da <em>Get Out</em> di Jordan Peele (citato esplicitamente) ma virandole verso un’analisi forse ancora più approfondita del razzismo negli Stati Uniti, della solitudine di un intero popolo, della componente seduttiva della cultura bianca per gli afro-americani e delle conseguenze di coloro che scelgono di abbracciare uno stile di vita estraneo alla <em>black culture</em> americana. In questo episodio Glover unisce la riflessione su una piccola storia familiare a una molto più ampia sul rapporto tra gli afro-americani e la loro espressione musicale contemporanea più rappresentativa: il rap. L’autore fa tutto ciò percorrendo le regole del cinema di genere e in particolare facendo riferimento al thriller-horror a basso budget, realizzando così atmosfere ansiogene che si adattano alla perfezione con la storia raccontata.</p>

<p>Non si sa ancora se <em>Altanta</em> continuerà dopo questa meravigliosa seconda stagione, soprattutto visti gli impegni di Glover, divenuto in brevissimo tempo una vera star tra cinema, televisione e musica (con lo pseudonimo di <strong>Childish Gambino</strong>). Indipendentemente dalla sua durata, la serie rimarrebbe comunque nella storia televisiva di questo decennio, per la sua capacità di avviare un discorso artistico, sociale, estetico di altissimo livello sulla cultura afroamericana all’interno di un ciclo di soli 21 episodi dalla durata breve e dall’impostazione innovativa. Che a partire da un punto di vista interno riesce ad essere contemporaneamente un atto d’amore verso gli <em>african-americans</em>, una critica feroce della <em>ghetto culture</em> e un esperimento di televisione perfettamente riuscito.</p>
 

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Game Night – Indovina chi muore stasera?

di Leonardo Strano
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Quando si fruisce di un oggetto cinematografico che, più o meno intenzionalmente, utilizza un metalinguaggio (quindi autoriflessivo e autoconsapevole), è l’oggetto stesso, al netto delle relative differenze qualitative, a condurre lo spettatore verso un’esperienza amplificata e presente anche al di là del perimetro dello schermo. Game Night – Indovina chi muore stasera?, degli ispirati John Francis Delay e Jonathan M. Goldstein, è un piacevole esempio di cinema che si sporge dal balconcino delle due dimensioni e delle più convenzionali forme di racconto per cercare di proporre riflessioni sulla propria identità: occhiolini lanciati in profondità non tanto con rumorose rotture della quarta parete, bensì attraverso continue iniezioni metatestuali nella trama da commedia romantica irrigata di brividi gore, ottenute – anche grazie a una pratica ermeneutica che è prova della salda percezione della direzionalità tematica del prodotto – giocando con le proprie caratteristiche, con le aspettative degli spettatori e con i precedenti di genere.

Il prologo che apre il film è un esempio lampante di questo accorgimento, una miniatura pressoché perfetta (per sensibilità, gestione dei tempi e comparto espressivo) che racchiude in una parabola contratta la storia usuale ma di certo ben orchestrata dell’incontro fulminante di Max e Annie, dell’evolversi del loro amore e della loro passione sfrenata per i giochi di società. Game Night a livello strettamente narrativo è niente più di questo, una rom-com con particolare variazione sul tema in cui Max (Jason Bateman) e Annie (Rachel McAdams) sono una coppia innamorata e ultra competitiva che, insieme ad altre coppie, si riunisce settimanalmente per serate di giochi di società; fino alla sera in cui, su proposta del fratello di Max, si ritrovano a dover risolvere una caccia all’uomo straordinariamente realistica.

La marcia in più del film, che sottende e insieme sovrasta il semplice srotolarsi dell’intreccio, consta invece nella cosciente necessità di ironizzare sui punti fermi delle commedie romantiche e allo stesso tempo raccontare una storia che, pur divertendo nelle acrobatiche svolte diegetiche, punta a spiegare come una coppia debba superare le mine esplosive dello stress – quello tipicamente americano che nasce con la competizione e finisce nella machista epica del vincitore – per diventare una famiglia. L’approccio del film al genere è in primis sistemico, nell’ottica di un sistema comico che estrapola la risata non dalla battuta o dalla gag bensì dalla situazione e dall’interazione dei personaggi tra loro e col contesto, e poi strutturato su un citazionismo spinto ma (a sorpresa) sempre focalizzato per scartare le aspettative degli spettatori (i jump scares anti climatici sono l’esempio più evidente), contaminare le contaminazioni e trovare la quadra comica di uno slalom che è anche action e ipercinetico.

L’approccio ai personaggi, ulteriore prova dell’autocontrollo dei mezzi, si appoggia invece sulla chimica tra i due interpreti protagonisti, e non è dissimile nel cercare novità dal solco già tracciato: aderente a quelle commedie dell’Hollywood anni d’oro ma abbastanza ispirata da trovare nella metafora di un amore indovinato (e sempre confermato) tra gli indovinelli di una Sciarada l’elemento di originalità convincente su cui costruire un intero gioco narrativo. Perché alla fine Game Night – Indovina chi muore stasera? non è solo cinema che tratta il tema del “gioco” e dei suoi effetti sulle persone, ma addirittura un cinema-gioco tridimensionale che parafrasa i messaggi attraverso una storia metalinguistica con cui giocare interattivamente. D’altronde, come diceva Jean Paul, «il gioco è una cosa seria. Anzi, tremendamente seria».

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&lt;i&gt;Game Night&lt;/i&gt;
USA 2018
Regia: John Francis Delay, Jonathan M. Goldstein
Cast: Jason Bateman, Rachel McAdams, Kyle Chandler, Billy Magnussen
Durata: 100 minuti

Solo: A Star Wars Story

di Matteo Marescalco
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In Blade Runner 2049, un testo cardine nel racconto della nostra condizione post-mediale insieme a Ready Player One, la città di Las Vegas, luogo artificiale per eccellenza del Novecento, diventa l’ultimo baluardo della cultura visuale del secolo scorso. Le rovine post-apocalittiche della città non offrono rifugio soltanto ad una determinazione dell’immagine ma anche ad un’icona dell’immaginario cinematografico novecentesco, Rick Deckard, impersonato da Harrison Ford, per antonomasia l’attore mito. Da Indiana Jones e il regno del teschio di cristallo a Cowboys & Aliens, e ancora da Star Wars: Il risveglio della Forza fino appunto a Blade Runner 2049, è toccato proprio all’attore americano ri-mediare i propri personaggi entrati di prepotenza nell’immaginario collettivo. L’affascinante ipotesi è che, in epoca di iper-mediazione e di rilocazione, di crisi dell’ontologia dell’immagine filmica e di ambienti sintetici, Harrison Ford si caratterizza come iper-icona del Cinema, un eroe ri-mediato in un nuovo ambiente esperienziale.

Solo: A Star Wars Story espande ulteriormente l’universo di Guerre Stellari, provando a colmare il vuoto fordiano impossibile da riempire. Dopo essere stato affidato alla coppia Phil Lord & Christopher Miller, che hanno rinunciato all’incarico per divergenze creative con la Disney, il timone dell’operazione è passato al più istituzionale Ron Howard. Dalla deriva magmatica dei nuovi media al classicismo di una colonna portante del cinema americano dell’ultimo ventennio: in questo caso, il cambio di regia funziona come manifesto programmatico di questo secondo episodio della Star Wars Anthology. Gli elementi extradiegetici invitano ad un’esperienza totalmente classica del film.

Han Solo è un ragazzo sveglio, sfrontato, intraprendente ed innamorato. Insieme a Qi’ra commette furti di vario genere per comprare la propria libertà. Dopo un colpo non andato a segno, la ragazza viene catturata e Han riesce a fuggire dagli imperiali, con la promessa di tornare a salvarla, prima o poi. Tra fughe al cardiopalma ed incontri a sorpresa, rapine al treno e colpi di scena, Han Solo porta avanti la ricerca di Qi’ra, affrontando nemici e definendo, lungo la strada, la mitologia di cui il suo personaggio è ammantato.

Alla sceneggiatura del film, troviamo Jon Kasdan e Lawrence Kasdan, già firma di Episodio V, VI e VII, e de I predatori dell’arca perduta, quindi uno specialista di un determinato tipo di intrattenimento. L’universo di Solo: A Star Wars Story segna un ritorno agli anni ’70 e all’ibridazione avventura-risate che ha un suo referente immaginario proprio nella saga di Indiana Jones. Uno dei maggiori pregi del film risiede proprio nella fluidità con cui Solo si muove ed oscilla tra i più disparati generi. In particolare l’innesto di un trickster come Woody Harrelson consente uno slittamento verso le costruzioni ad inganno del poliziesco, bilanciato dal sintagma della grande rapina al treno che sposta ulteriormente il baricentro verso l’avventura e guarda alla storia del cinema come archivio di forme.

Il fatto, poi, che Harrison Ford non manchi più di tanto dimostra ulteriormente la forza di un brand ma, soprattutto, di una narrazione come quella di Star Wars, il cui contenitore archetipico si afferma come un vaso di Pandora da esplorare, consapevoli di trovarsi dinnanzi a situazioni lontanissime nel tempo e nello spazio. Gli scambi di battute da commedia sofisticata si intrecciano a campi lunghissimi in cui il deserto si riafferma come spazio liminale connesso alle (nuove) identità dei personaggi.

In epoca di rilocazione e di strategie di riparazione, Ron Howard porta in scena uno spettacolo da montagne russe, un film di esseri umani e di fantasmi (lo spettro di Indiana Jones sembra seguire ogni movimento di Han Solo e proteggerlo silenziosamente), un inno all’epica della sala cinematografica e della profondità degli spazi. L’ultimo baluardo di resistenza di un’umanità nascosta a Las Vegas ed assediata dai new media?

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USA 2018
Regia: Ron Howard
Cast: Alden Ehrenreich, Woody Harrelson, Emilia Clarke, Donald Glover, Thandie Newton, Paul Bettany
Durata: 135 minuti


Psychokinesis

di Jacopo Bonanni
psycho

Il 20 gennaio del 2009 una quarantina di manifestanti, sfrattati dalle proprie abitazioni, occupano il tetto di un edificio dismesso nel quartiere di Yongsan – il cuore di Seul - per protestare contro un piano iniquo di “riqualificazione urbana” che li costringerebbe, con l’uso della forza, a rinunciare alle loro attività commerciali, senza alcuna garanzia di sostentamento. Prima dell’alba, uno squadra di poliziotti in tenuta antisommossa piomba su di loro per sedare la rivolta, trasformando il raid in un bagno di sangue con decine di feriti gravi e sei vittime tra contestatori e forze dell’ordine. Le indagini assolvono in toto la polizia e il presidente Lee Myung-bak dirotta l’attenzione dei media scaricando la responsabilità dell’accaduto sui suoi sottoposti. Il caso viene insabbiato ma le proteste continuano e il tragico episodio diventa l’emblema della politica repressiva e antisociale attuata dal governo nella Corea del Sud. Il paese è da sempre nel mirino del regista militante Yeon Sang-ho che, dopo aver trasformato i treni coreani in una bomba lanciata contro l’ingiustizia (Seul Station, Train To Busan), ribadisce la sua vocazione civile anche nel suo nuovo film in live-action: Psychokinesis disponibile su Netflix da maggio del 2018.

Come in tutte le pellicole dell’autore è la cronaca a contaminare la fantasia, in un equilibrio perfetto tra realtà e finzione. Infatti è proprio tra le pieghe dell’attualità, in mezzo alle molotov e ai soprusi della mafia, nel centro della capitale preda della speculazione edilizia, che si intrecciano le storie dei due protagonisti principali . Da una parte, quella della lotta che coinvolge la volitiva e incorruttibile Room-hi (Eun kyung Shim), proprietaria di un umile ristorante di pollo fritto, impegnata a contrastare, in compagnia di un giovane avvocato e di un esiguo comitato di piccoli commercianti di quartiere, le mire espansionistiche di una multinazionale senza scrupoli. Dall’altra, quella che vede al centro dell’azione suo padre: Seok-heon (Seung-ryong Ryu), un uomo senza qualità, opportunista e truffaldino, che ha abbandonato la sua famiglia anni addietro per schivare nella vita privata, come in quella pubblica, qualsiasi tipo di responsabilità. Tutta la sua vita è improntata alla fuga, pur di non schierarsi mai contro una società che lo ha reso schiavo dei suoi istinti più bassi. Questo fino al giorno in cui il destino – sotto forma di un misterioso meteorite – non bussa alla sua porta per eleggerlo eroe - suo malgrado.

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Sono proprio gli straordinari poteri telecinetici - acquisiti bevendo l’acqua contaminata dal corpo celeste - a risvegliare in lui l’orgoglio sopito che gli consente di dare un taglio netto al suo meschino passato, concedendogli l’unica opportunità di riabilitarsi agli occhi di sua figlia e dei suoi compagni. L’occasione si presenterà proprio all’alba dello scontro decisivo tra gli ostinati rivoltosi capitanati dall’indomita Room-hi e le truppe di polizia al soldo dell’insaziabile speculatrice Yu-mi Jung (Hong-Sang moo), quando Seok-heon, conscio del suo nuovo status e stanco di subire in silenzio, si ergerà sulle barricate dalla parte dei manifestanti per difendere ciò che gli è più caro: la sua dignità di padre.

Il film – ispirato dagli eventi drammatici di Yongsan – è una storia agrodolce di redenzione e di ritrovata consapevolezza sociale e familiare, stemperata dai toni farseschi e caleidoscopici di una commedia abilmente camuffata da “cinecomics”. Una rilettura sui generis del canone americano, con protagonista un versatile Seung-ryong Ryu nei panni del goffo eroe proletario dai super poteri, perennemente indeciso sul loro effettivo utilizzo. Si tratta di un personaggio tragicomico e sfuggente più simile al nostrano “Jeeg Robot” di Mainetti - come indole ed estrazione - che non ai modelli Marvel e DC a cui siamo stati abituati finora.

Una figura maschile imperfetta, preda di vizi e debolezze, che si aggiunge alla lista di quelle già delineate nelle altre opere da Yeon Sang-ho, sorretta ancora una volta da una presenza femminile predominante e determinante ai fini della narrazione. Il regista si riallaccia all’idea del tormentato rapporto padre-figlia – già espresso in Train To Busan- per mettere in scena uno dei suoi temi chiave: quello del conflitto tra la generazione dei vecchi, ormai remissivi ed asserviti alle logiche del potere e quella dei giovani, ancora virtuosi e agguerriti nel perseguimento di ideali puri e cristallini.

Nonostante il taglio fantastico dato alla storia, apparentemente più disimpegnato e leggero – a tratti macchiettistico – Psychokinesis è probabilmente il film più politico e disilluso di Yeon Sang-ho. Se lo paragoniamo ai titoli più recenti dove alla fine prevale un senso di giustizia sociale (Seul Station) oppure un messaggio di speranza tra le fiamme dell’apocalisse zombie (Train To Busan); qui sembra che il regista voglia far levitare, insieme agli oggetti scagliati via dal protagonista, un sentimento di malcelata rassegnazione. D’altronde la nemesi da fronteggiare in questo caso non è un super villain, proveniente da un’altra dimensione, bensì una multinazionale radicata sul territorio, composta da un esercito di insensibili burocrati. La loro è una tirannia occulta, esercitata nel tempo con metodo e dedizione, per cui agli occhi di chi sa di non poter perdere un super eroe che viene dai bassifondi, al pari di un prestigiatore, è solo un cialtrone che non rappresenta alcun pericolo. Forse il personaggio di Seok-heon non è l’eroe che la Corea del Sud merita ma sicuramente è quello di cui ha bisogno in questo momento, perché laddove il governo di un Paese può incarcerare impunemente i corpi dei suoi oppositori, è bene ricordare a chi resiste ogni giorno che non può controllarne i pensieri, né tanto meno piegarne le menti.

Yeong Sang-ho colpisce ancora, dimostrando di poter girare con personalità e guizzo autoriale un buon super-hero movie, destinato al piccolo schermo, con la giusta dose di effetti speciali e un budget contenuto, senza eliminare gli elementi cardine del genere. Anzi, per dirigerlo attinge direttamente alle radici fumettistiche del filone d’appartenenza, esaltando grazie ad un ottimo cast il tratto fondamentale alla base di ogni eroe che si rispetti, quell’intima e sofferta consapevolezza che: “ Da grandi poteri derivano grandi responsabilità”. Un mantra valido da New York a Seul.

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Corea del Sud 2018
Regia: Yeon Sang-Ho
Cast: Seung-ryong Ryu, Eun kyung Shim, Jung-min Park, Yu-mi Jung, Hong-Sang moo
Durata: 101 minuti


Nella tana dei lupi

di Leonardo Strano
nella tana dei lupi recensione film

Di geometrie e simmetrie è fatto Nella tana dei lupi: quelle codificate nelle regole del suo genere di appartenenza (il thriller urbano) e quelle presenti nelle regole del gioco-metafora (guardie e ladri) performato dai protagonisti; quelle visivamente espresse in piena vista attraverso giochi di contrasto e quelle sottese nei giochi linguistici, nei frequenti poliptoti incagliati nello slang dei personaggi. Quelle, in poche parole, proprie di un raro approccio matematico alla narrazione, di un significante capace di dare profondità di senso al significato grazie ad accorgimenti tecnici e teorici calcolati per far funzionare il film oltre il compitino di genere, oltre la somma delle sue parti; per raccontare una storia che, dopo l’incastro dei suoi ingranaggi, faccia intravedere solide riflessioni relative alla meccanica degli stereotipi. Il merito di questo controllo strategico degli elementi compositivi è di Christian Gudegast, debuttante alla regia con talento da vendere, occhi prensili del miglior cinema d’azione e approccio cerebrale alle dinamiche filmiche con alto tasso testosteronico. È nello scarto qualitativo con opere simili a questa che si misurano gli aspetti positivi del tipo di approccio scelto dal neo regista per raccontare materiale pericolosamente vicino al baratro del già visto e del cliché.

La storia è quella del confronto tra la squadra speciale anticrimine di Los Angeles, guidata da Big Nick (Gerard Butler), e una banda di rapinatori esperti capeggiata da Merrimen (Pablo Schreiber).

La prima differenza con altre produzioni (e il primo aspetto matematico del film) è la coscienza dei tempi, la gestione delle velocità con cui si raccontano le azioni di criminali e poliziotti: la lentezza del tempo degli spazi privati e la rapidità di quello degli scontri sul campo formano due tranche, separate dal ritmo e dalle intenzioni narrative, che giocano in contropiede rispetto alle aspettative, impostando un racconto lento e improvvisamente veloce che brucia il fiato pur avendo dato tutti i preavvisi necessari.

La seconda differenza è relativa alla grammatica visiva delle scene urbane: snella e frontale, generosa nel chiarire sviluppi sempre più forsennati e comunque agile nel trovare uno zenit di originalità tra gli aspetti derivativi – che guardano a Fuqua e a Mann eliminando la rabbia da videogame del primo e il fatalismo quasi mistico del secondo – grazie ad una visione d’insieme in grado di finalizzare la muscolarità dell’azione al rinvigorimento della suspense e viceversa.

La terza differenza si legge nella sfida tutta maschile che domina lo schermo, tra il corpo rottamato di Gerard Butler e quello statuario di Pablo Schreiber: alfieri in una scacchiera-palcoscenico in cui tutto è pretesto per provarsi “più alfa dell’altro” a suon di mazzate all’orgoglio e sparatorie vis a vis. Nella loro lotta per la supremazia territoriale sono poli opposti ma identici, nemici ma in realtà compagni di sorte che giganteggiano combattendo al punto da dimenticare le rispettive motivazioni e il contesto fattuale. Il film trova nel loro scontro una rappresentazione perfetta dell’estetica machista, poi smontata da un pessimismo che vede nell’annullamento della vittoria gloriosa e nella morte senza retorica il massimo risultato e l’unica realtà per la storia di due uomini obnubilati da loro stessi.

Senso del tempo, gestione degli spazi e stereotipi portati al collasso: già questo è un gran risultato. Eppure Nella tana dei lupi azzarda anche il colpo di coda, il twist all’ultimo minuto che non solo risulta coerente ma offre anche una chiave di lettura in più, una visione al di là degli ingranaggi di genere che pure si erano dimostrati di eccezionale fattura. Si apre così un angolo interpretativo che evolve la negazione del machismo (rivelata grazie al suo insuccesso) nell’elogio degli scaltri, in coloro che vincono architettando in anticipo silenzioso simmetrie e geometrie. Come se Gudegast ci stesse dicendo che il miglior thriller urbano deve passare per forza attraverso la distruzione dei suoi stereotipi e che il colpo grosso, alla fine, lo agguanta chi si lascia sottovalutare, inquadra l’azione, registra gli schemi e poi sparisce non visto.

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&lt;i&gt;Den of Thieves&lt;/i&gt;
USA 2018
Regia: Christian Gudegast
Cast: Gerard Butler, Pablo Schreiber, 50 Cent, O’Shea Jackson Jr, Evan Jones
Durata: 140 minuti

Dogman

di Matteo Berardini
Dogman - recensione film Matteo Garrone

Dogman è un film fuori dello spazio e del tempo, una fiaba nera in cui la cronaca resta solo una vaga premessa, la miccia di un’ispirazione che trasla la violenza, la strada, l’amore oltre il dato reale. A partire dallo spazio, da quella Magliana di fine anni ’80 che Matteo Garrone ritrova e reinventa tra i ruderi dell’ennesimo incubo urbanistico, lo scheletro cementizio di un villaggio western vaiolato dalla ruggine e intriso di pozze d’acqua. C’è un sorprendente uso dello spazio in Dogman, ondate di cemento e rovi di ferro circondano e isolano personaggi assediati da un paesaggio devastato. Non si è mai vista una Magliana così (e del resto Magliana non è, essendo il set campano), un’isola a sé stante e terra metafisica, lontana, raccontata in un tempo presente privo di tecnologia e in cui le insegne anni ’80 dei pochi negozi portano all’intrecciarsi di suggestioni cronologiche diverse. Raramente nel nostro cinema si trova un’attenzione così peculiare ed espressiva nei confronti del paesaggio, un orizzonte che Garrone decide di riportare con un’immagine più pulita rispetto al passato, a volte al confine con la maniera. Il solo affaccio in questo deserto dei Tartari è il mare, forse quello stesso mare dove, ricordando Caligari, vengono i pensieri. Ed è proprio qui che si avventura Marcello (uno straordinario Marcello Fonte, giustamente premiato) per sbarazzarsi del corpo di Simone, salvo poi tornare indietro tra i suoi fantasmi per cercare di offrire come tributo quel corpo di Golia assassinato, ultimo tentativo per tornare a far parte di quest’Eden rovesciato.

Probabilmente Dogman non sarebbe stato tale senza l’esperienza de Il racconto dei racconti, senza quell’escursione nell’oltre favolistico e sognato che pur sembrandoci ancora tra i film meno riusciti di Garrone svela oggi tutta la sua importanza nel percorso del regista romano. Sarebbe un errore infatti porre quest’ultimo film di Garrone in stretta continuità con i precedenti L’imbalsamatore e Primo amore; se la tentazione è lecita – collocare questa distorta e sotterranea attrazione tra Marcello e Simone in linea con i due titoli citati, come se assieme andassero a completare una personale trilogia sulle forme malsane dell’amore – nei fatti Dogman è un film che segue da vicino Reality e Il racconto dei racconti, recuperando l’innocenza fanciullesca del primo e la sospensione fiabesca del secondo. Le suggestioni si incontrano in Marcello, sorta di Pinocchio che subisce la violenza ma la ammira, finendo forse per amare il suo carnefice. Ma siamo lontani, si diceva, dai titoli più morbosi di Garrone, analisi cliniche degli anfratti torbidi degli affetti umani. Grazie ad una riscrittura totale dell’evento criminale Garrone scambia lo scavo psicologico con la pietà umana, simpatetica, lo sguardo è costantemente accanto a quello di Marcello, reso come un bambino alla scoperta del mondo, portatore di un’innocenza condannata a inquinarsi.

Un approccio simile richiede una scrittura che sia anch’essa sospesa, lontana dai lati più morbosi dei suoi personaggi, ma è in questo che forse Dogman paga l’evidenza delle sue intenzioni, con un’unidirezionalità che dall’uscita di prigione di Marcello in poi lascia poco spazio ad uno sguardo ulteriore, ad ogni suggestione. Da quel punto narrativo in poi il destino dei personaggi appare segnato, orchestrato. Un respiro più libero il film lo recupera nella scena finale, il sacrificio del gigante sull’altare della solitudine e dell’accettazione sociale. «Guardate cos’ho fatto!» urlerà Marcello agli spettri della sua mente, il vanto di un bambino che ha imparato fiero ad usare la violenza per farsi amare, rispettare, riconoscere.

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Matteo Garrone Marcello Fonte Edoardo Pesce Nunzia Schiano Adamo Dionisi Francesco Acquaroli 100 minuti
Italia 2018
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