La favorita

di Damiano Garofalo
The Favourite di Yorgos Lanthimos recensione

Spesso si attribuisce a Yorgos Lanthimos il merito (per qualcuno la colpa) di aver ispirato una generazione di giovani registi europei – di cui lui stesso fa parte – nel dare forma a un movimento cinematografico esteticamente ingabbiato in precisissimi canoni stilistici e formali. Costruzioni geometriche dell’immagine, movimenti di macchina iperbolici e calcolati al millimetro, inquadrature rigorose e programmate, uso e abuso del ralenti nelle più disparate situazioni, impiego della colonna sonora in chiave lirica e minimale, allegorie ermetiche che nascondono una serie di costrutti teorici sono solo alcuni degli elementi ricorrenti di un cinema sempre più diffuso e riconoscibile, ove nulla sfugge alla pianificazione del regista-demiurgo. Si tratta di una forma cinematografica a suo modo coerente, che spesso divide il responso di critica e pubblico, ma che trova nel sistema dei festival dell’ultimo decennio un’oasi quasi incontaminata. Poco importa, agli autori di questi film, se il confine tra ambizione e pretenziosità dell’opera che propongono rischia di diventare un terreno instabile e scivoloso: tanto vale rischiare di esser colpiti, di ritorno, da un cinema-boomerang che girovaga, senza meta, alla ricerca di se stesso, per poi tornare dritto in faccia al punto di partenza.

La favorita, presentato in concorso a Venezia 75, sembra inizialmente sfuggire da questa morsa. Innanzitutto, e questa è la prima notizia, Lanthimos dimostra di sapersi prendere poco sul serio, mettendo il cinismo, il sarcasmo e il consueto sentimento di superiorità nei confronti del genere umano al servizio di una tagliente black comedy, ambientata presso la corte della Regina Anna di Gran Bretagna, ultima sovrana della casata Stuart, regnante agli inizi del XVIII secolo. Secondo elemento di sorpresa: il consueto lavoro di sottrazione compiuto sui suoi personaggi, quasi sempre muti, immobili, catatonici e anaffettivi, viene riorientato da una sceneggiatura intelligente e articolata, scritta dall’esordiente Deborah Davis e dal più esperto Tony McNamara. Il regista greco, per la prima volta, non scrive un film che dirige: il tono che ne esce è senz’altro più leggero e dissacrante, distante dagli echi lirici e seriosi dei suoi film precedenti. Le tre attrici – Rachel Weisz, Emma Stone e, soprattutto, Olivia Colman – invadono la scena completandosi a vicenda, relegando inizialmente il regista a mero osservatore di un affare tra donne, su cui qualsiasi uomo – personaggio, spettatore, Lanthimos stesso – sembra avere poco margine di manovra.

Nella prima metà, tra battute irriverenti e intrighi politici di corte, c’è da dire che il film scorre. Lentamente, tuttavia, arrivano i primi acuti del regista, che tenta di ristabilire l’ordine gerarchico, mostrando ai suoi personaggi femminili chi è che comanda. Le inquadrature dall’alto verso il basso si fanno sempre più insistenti, accentuando, grazie soprattutto all’utilizzo del grandangolo, sia le proporzioni dei corpi femminili rispetto alla sfarzosità degli ambienti circostanti, sia il voyeuristico punto di osservazione maschile. I volti delle tre attrici, di contro, vengono quasi tutti inquadrati in primo piano, dal basso verso l’alto, quasi a risignificare uno sguardo fanciullesco che, intrufolato nel mondo degli adulti, fa fatica a comprendere cosa provano i personaggi, ancora una volta volutamente inaccessibili. Alla lunga, la ricorrenza programmatica di questo schema diventa insostenibile. Tanto che nella lotta tra Tories e Whigs per conquistare il potere, così come in quella tra Sarah e Abigaill per diventare la “favorita” della regina, finiamo per osservare in superficie, rigorosamente senza patteggiare, un gioco tra bambini in cui sembrano perdere tutti. Siamo improvvisamente diventati noi gli adulti e, senza accorgercene, siamo stati costretti ad aderire al punto di vista compiaciuto del regista. Nel finale, a ricordarci definitivamente chi è che comanda, Lanthimos ci propone la consueta metafora animalesca, sulla scia di aragoste e cervi sacri: il volto della regina Anna mentre viene masturbata da una “favorita” (una vera e propria ossessione del regista greco, quella della sollecitazione manuale degli organi sessuali) si dissolve nell’immagine dei diciassette figli che ha perduto a causa della sindrome di Hughes, animalizzati nella forma di diciassette conigli con cui ella stessa convive, giornalmente, dentro la sua stanza. Così, il teorema allegorico di Lanthimos entra a gamba tesa nella storia, sancendo l’inevitabile conclusione della dinastia Stuart.

Articolo in collaborazione con Cinema e Storia

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Yorgos Lanthimos 120 minuti
Gran Bretagna, Irlanda, Usa, 2018
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The Mountain

di Matteo Berardini
The Mountain recensione film di Rick Alverson

Due sedie poste l’una di fronte all’altra, nell’angolo di una stanza vuota. L’immagine eletta a foto di copertina di The Mountain rievoca la talking cure, richiama il dialogo che si fa strumento psicanalitico, soccorso lenitivo. Stranamente però nel film di Rick Alverson non vi è traccia di tutto questo, il mondo allestito dal film è congelato e asfittico, popolato da personaggi isolati tra loro e vittime di conflitti interni che paiono irrisolvibili. Nelle soluzioni offerte dal Dottor Wallace Fiennes (Jeff Goldblum) non c’è nulla di verbale, emotivo, empatico; il suo esercizio medico seda infatti le tensioni dei pazienti più aggressivi attraverso elettroshock e lobotomia, la malattia mentale viene troncata alla radice ma azzittita assieme alla coscienza, la cura confusa con la narcotizzazione. Ad accompagnare il medico lungo questa discutibile odissea psichiatrica c’è il giovane Andy (Tye Sheridan), orfano di padre in cerca di figure genitoriali, fotografo voyeurista che insegue un contatto con l’alterità psichica mentre vive l’ossessione e il ricordo della madre ospedalizzata, rinchiusa e forse lobotomizzata anch’essa in qualche stanza imbottita e accecata di bianco.

Il disagio psichico permea ogni atmosfera del film di Rick Alverson, che prende di petto il mito degli anni ’50 e lo stravolge svelando gli aspetti più oscuri e dimenticati del decennio: conformismo, alienazione, sofferenza e disumanità esercitate da una medicina psichica ancorata a metodi Ottocenteschi con ben poco di umano. Per Alverson la nostalgia che tanto domina la comunicazione contemporanea trova il suo riflesso nella pratica della lobotomia, soluzione anestetizzante che mira ad appianare ogni sussulto del pensiero. Ben lontani dal tanto decantato American Dream, gli anni Cinquanta di The Mountain sembrano piuttosto un incubo di incomunicabilità e addomesticamento, un orizzonte grigio e marrone squadrato nelle geometrie e soffocato negli spazi, dove l’alterità non trova modo di esprimersi e il conformismo si esercita a colpi di correzioni chirurgiche. Anche i sussulti emotivi dell’inconscio sono dominati dalla stessa atmosfera plumbea e sterile, l’onirico è abitato da confusi incubi sessuali e accesi momenti di panico, mentre la realtà scorre monotona come una delle lunghe strade boschive attraversate da Andy e Fiennes nel corso del loro viaggio.

L’unica prospettiva di fuga da questa dimensione immobile e contratta è la cosiddetta montagna, una confusa e facile metafora attorno alla quale ruotano tutti gli aspetti più vitali negati dall’universo del film: felicità, scopo, contatto fisico e mentale. Al di fuori di essa non vi è speranza, un approccio manicheo che si riflette nel formato 4:3 con cui Alverson soffoca personaggi e spettatori. Il risultato è una rievocazione mortifera la cui portata politica ci sembra disinnescarsi in partenza, imbrigliarsi in un pantano di pretenziosità e faciloneria stilistica. The Mountain fa sue molte delle strategie tipiche dell’approccio autoriale-festivaliero – camera fissa e tempi dilatati, personaggi silenziosi, composizione geometrica dell’inquadratura – ma questi stilemi vengono trattati con la superficialità di chi vi ricorre per adesione ad un canone prestabilito. Nel tentativo di criticare il ricorso politico alla nostalgia per un mito americano edulcorato e scisso dalla sua dimensione storica, Alverson fa del suo film un universo solipsistico e autocompiaciuto, che si adagia su effimeri elementi di stile e confonde la forma con l’inconsistenza, offrendo al posto della lobotomia la sicurezza di un teorema raffazzonato.

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Rick Alverson Tye Sheridan Jeff Goldblum Denis Lavant Hannah Gross Udo Kier 106 minuti
USA 2018
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Your Face

di Giulio Casadei
Your Face di Tsai Ming-liang recensione

Il cinema di Tsai Ming-liang non è mai stato così vivo come dopo la sua (presunta) morte. Liberato da qualsivoglia vincolo produttivo o strutturale, il regista taiwanese continua a spingersi oltre le soglie di quello che viene comunemente considerato cinema, esplorando in tutte le direzioni possibili lo spazio ed il tempo dell’immagine. Dal più impercettibile scarto motorio (Il ciclo Walker) allo spazio espanso della Virtual Reality (The Deserted), passando per il set riconquistato di Afternoon fino a questo sorprendente film-ritratto, il viaggio “post-mortem” del cinema di Tsai Ming-liang mira a rintracciare nel cuore stesso dell’immagine l’ipotesi di una nuova possibilità espressiva, dilatando o comprimendo l’inquadratura fino al più estremo cortocircuito spazio-temporale.

Ecco allora che dall’immagine-ambiente di The Deserted, dove il tempo era sostanzialmente abolito, passiamo qui al suo opposto, ovvero alla negazione della spazialità, sostituita dai volti in primo piano di dodici persone. La superficie dell’immagine coincide dunque con il paesaggio del volto. Un volto quasi sempre anziano (dai cinquant’anni in su) che reca su di sé i segni indelebili del tempo trascorso: la pelle, gli occhi, le rughe… raccontano intere esistenze vissute all’ombra della Storia. Vite anonime alle quali Tsai Ming-liang dedica intensi ritratti in bilico tra la luce e le ombre, tra la memoria del corpo o della parola, ed il mistero del fuoricampo. Tutto compreso dentro il perimetro ristretto dell’immagine, sintesi di diversi strati temporali. La durata dell’inquadratura, prima di tutto, che definisce il tempo della presenza, e poi il paesaggio del volto, filmato come un’esteriorizzazione fisica del tempo, come traccia o segno del passato, ed infine il ricordo, nella sua dimensione verbalizzata.

Un film quindi sul tempo e sulla malinconia del tempo filmato come fosse un lungo provino, in cui l'apparente ricerca dei volti coincide con il film stesso. Una ricerca aperta alla pluralità espressiva del volto che è anche, inevitabilmente, una sfida di sguardi, tra quello della macchina da presa e quello dei soggetti filmati. C’è chi, come la prima donna, che vive con un senso di estraneità e quasi di angoscia la prossimità della camera e cerca con il movimento degli occhi una possibile via di fuga. Chi, al contrario, contraccambia lo sguardo della macchina o ancora chi passivamente si abbandona ad esso in un atto a metà strada tra fiducia e fatica. Similmente si potrebbe dire della parola, negata dalla maggior parte dei soggetti, sostituita dalla semplice presenza fisica, testimonianza dell’unicità di ogni singola persona (e dunque di ogni singola traiettoria umana).  Quando invece si stabilisce un dialogo, il racconto segue inevitabilmente la strada del ricordo e del rimpianto, del senso di colpa e della consapevolezza della perdita. Fino a sfiorare il melò, tra matrimoni combinati, desideri frustrati, rapporti conflittuali con i genitori.

Ma per ogni parola detta ce n’è almeno un’altra solo pensata. La sfida apparentemente impossibile del film sta proprio nel far emergere le immagini interiori che ci abitano. Quasi un film-inconscio fatto di immagini mentali che appartengono tanto allo spettatore, chiamato a superare la mera contemplazione nel tentativo di decifrare i volti e le storie che vi si celano dietro, quanto soprattutto ai soggetti ripresi, divisi tra la parola ed il silenzio, il piacere dell’esibizione e una certa discrezione, i micro-movimenti del viso ed i pensieri che li precedono e li producono. Una comunicazione segreta, quella tra spettatore e soggetto, come un atto telepatico, che si muove lungo le linee astratte del pensiero. In un percorso che non può che includere anche l’immagine di colui che dorme (sogna?) – punto di incontro naturale con lo spettatore cinematografico. E che giunge fino all’inevitabile scomparsa del corpo, ad un’immagine fantasmatica fuori dalla storia e allo stesso tempo sintesi di tutte le immagini mentali possibili.

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Tsai Ming-liang Lee Kang-sheng Huang Hsueh-feng Hsu Lin Yu-jung Liu Chin-hua 76 minuti
Taiwan 2018
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Roma

di Samuele Sestieri
Roma

Guardando Roma di Alfonso Cuarón pensavo al tempo della lettura, al fascino prosaico del superfluo, agli stenti e alla delizie dei grandi romanzi di una volta. Pensavo ai ricordi intagliati nel cuore stesso delle parole, alle narrazioni che persistono nel corso del tempo. Narrazioni che non possono pensare la memoria senza procedere per retrovie, fondendo necessariamente la storia nazionale e quella privata alla ricerca di qualche momento di verità. Narrazioni che sono autobiografie monumentali irte di doppi e alter-ego (ma quale narrazione non lo è?).

Pensavo al fascino irresistibile del racconto, incastonato nel bianco e nero abbacinante di una fotografia. Al tempo morto che dice sempre qualcosa in più…più di qualsiasi climax, più di qualsiasi scena madre. E i momenti più belli di Roma sono – guarda caso - quelli in cui non succede nulla. Pensavo, ancora, al film di Cuarón come a un grande romanzo audiovisivo: dallo spazio di Gravity, il regista messicano è tornato a casa. Ma in fondo sta ancora raccontando un tentativo di salvataggio, una storia di sopravvivenza: il centro non può che essere fuori di sé. Certo, ora Cuarón ha i piedi per terra, nonostante continui a guardare il cielo. Rinuncia alla vertigine del volo ma non a quella dell’esperienza. Se nello spazio poteva fluttuare e perdere tutti i supporti, qui il cavalletto lo lascia ben ancorato al terreno, saldo sulle proprie basi. Ma non per questo ha meno paura di cadere giù. E mi sembra di vederlo Cuarón che, inquadratura dopo inquadratura, somiglia un po’ a un esploratore dello spaziotempo. Traccia, delinea, disegna panoramiche rigorose come messe in scena dei propri ricordi più preziosi. Questi moti orizzontali tratteggiano lentamente una sorta di archeologia interiore. Non c’è la fatica del ricordo, non c’è il peso della rammemorazione, ma solo il gusto cristallino di sublimare la propria storia, di trasformare tutto in cinema.

Il passato, in Cuarón, è già un film dall'eco neorealista.

Non è un passato che si improvvisa o si ricorda lentamente - frammento dopo frammento - è un tempo che spalanca le sue porte, un tempo che ci aspetta e ci chiama a sé. Un tempo che attendeva solo di essere filmato. Se Gravity finiva con Sandra Bullock immersa nelle acque di un nuovo paradiso perduto, Roma - in perfetta soluzione di continuità - nasce e germoglia dall'acqua. Il passato è un riflesso liquido, ininterrotto, che scorre non alle nostre spalle, ma davanti a noi.

Bello, del resto, che un film di amori cinefili riesca ad evitare, miracolosamente, il rischio imbalsamazione. Perché qui non c’è feticismo, non c’è omaggio, non c’è banale gusto d’antan: Cuarón nega l’adesione incondizionata al film che è già un formato. Segue le strade amate, non per guidarle ma per essere da esse guidato. Allestisce un amarcord di ricordi, ma rifiuta categoricamente di fermare la macchina da presa. Sfugge dalle scelte puriste della pellicola, sceglie il digitale, sposa Netflix, realizza un film di ambienti, prima ancora che di persone. Ne consegue una mappatura precisa della memoria, come se Cuarón ricordasse perfettamente ogni cosa - quasi senza sforzo. Ma bisogna ripercorrere la propria strada per riconoscersi, bisogna ritrovare il riflesso giusto, la luce giusta, il momento giusto.

Ecco perché Roma è Alfonso Cuarón.

Del resto il film è collocato all’inizio degli anni ’70, anni di svolta per la storia messicana. L’attenzione slitta immediatamente ai margini della famiglia borghese e della sua bella casa: la protagonista è Cleo, la domestica. Tutto è filtrato dai suoi occhi. E’ la prima a comparire, quasi come un’evocazione della dimora, una sua incredibile, quotidiana rappresentazione. Sono i luoghi a ricreare la memoria, non viceversa. Cuarón li visita prima con un distacco quasi reverenziale, come per timore di tradire il proprio passato (e questa paura è la cosa più commovente), poi mano mano che va avanti inizia ad abitarli – e si ritrova a suo agio, come se riuscisse finalmente a filmarsi.

Il film racconta questo progressivo avvicinamento che esploderà, letteralmente, con l’avvento della Storia.

E mentre l’universo maschile tende a dileguarsi, Cuarón realizza un film squisitamente femmineo, o meglio, di alleanze, affezioni e tenerezze femminili. Un film che parla di unioni viscerali, di famiglie che superano i legami genetici, di dolori taciuti e sopportati insieme. Di donne forti che più perdono più si scoprono umane. La memoria avanza per rifrazioni fin dalla prima inquadratura, dove i sogni del cielo sono riflessi sul pavimento, tra gli escrementi del cane. E quando l’esercito messicano reprime violentemente una manifestazione studentesca – il massacro del Corpus Christi – la Storia nazionale irrompe violenta cambiando per sempre la vita di Cleo. La paura si impossessa di uno sguardo e di un paese, lasciando entrare la morte tra le porte del regno. Con profonda commozione, Cuarón non può più tirarsi indietro e, finalmente, riscalda il suo film. Insegue il tocco e la carezza, concedendosi l’apertura orizzontale del mare, vero e proprio shock percettivo. Qui Cleo si trova ad affrontare la prova più grande, in una sequenza dove ci sentiamo annegare onda dopo onda, sprofondati nel suono violento dell’acqua che vorrebbe affogare la nostra storia. L'acqua si fa realtà battesimale, luogo di morte e di nuova nascita: ne uscirà una donna nuova.

Tutto continua, ma il cielo sembra finalmente più vicino.

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Alfonso Cuarón Yalitza Aparicio Marina de Tavira Marco Graf 135 minuti
Messico, USA, 2018
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Les tombeaux sans nomes

di Damiano Garofalo
Les tombeaux sans nomes - recensione film

Rithy Panh prosegue il suo viaggio all’interno delle memorie del grande trauma storico cambogiano. Il regista candidato all’Oscar nel 2014 per L’immagine mancante torna sulle tracce del genocidio di massa avvenuto tra il 1977 e il 1979 per mano dei khmer rossi guidati da Pol Pot. Les tombeaux sans nomes, presentato in apertura delle Giornate degli Autori, è da intendersi non solo come una continuazione ideale della sua filmografia, costantemente proiettata sulle vicende che hanno portato al cosiddetto genocidio cambogiano, ma soprattutto come un completamento ideale del suo film del 2014. Se ne L’image manquante Panh proponeva una ricostruzione animata fondata sulla ricerca dell’irrappresentabile, di un immaginario mancante appunto, in quest’ultimo film aggiunge un tassello ulteriore a questa riflessione.

Les tombeaux sans nomes è una lunga seduta spiritica atta a rievocare le anime, erranti e perdute nella foresta, di chi è morto sotto il regime dei khmer rossi senza, in apparenza, lasciare alcuna traccia. Il cinema di Rithy Panh è un costante richiamo a riprendere il filo di tutti quei segni lasciati dai morti nel mondo dei vivi, in una natura che si configura come una grande cimitero a cielo aperto, calpestato dai sopravvissuti e dai parenti alla ricerca della memoria dei propri cari. Lo stesso Panh, costretto negli anni Settanta a fuggire in Europa per scampare al genocidio, inizia il film con una specie di rito di iniziazione in cui purifica se stesso: solo dopo aver partecipato a questo lungo processo di rigenerazione spirituale, il regista è pronto a mettersi sulle tracce delle migliaia di cambogiani seppelliti in un’enorme tomba naturale senza nomi, accompagnando i parenti delle vittime nella loro disperata ricerca. Utilizzando i racconti di due contadini, testimoni oculari degli eccidi compiuti su quei luoghi, e di immagini di archivio, che si materializzano nella foresta sotto forma di fotografie private e filmati di propaganda proiettati su dei pannelli mobili, Panh contestualizza la sua seduta spiritica.

Lo scontro tra il popolo “antico”, i ricchi bianchi di Phnom Penh, e il popolo “nuovo”, i contadini dalla pelle annerita dalla resina degli alberi, sta tutto nell’atavico disturbo psicologico di cui è affetto storicamente il popolo cambogiano. Panh parla, per bocca dei suoi testimoni, di una sorta di karma negativo che si è abbattuto sulla sua popolazione successivamente a questo scontro ideologico. I cambogiani, oggi, non combattono più per risolvere i problemi, ammette un contadino, perché da quel momento non possono far altro che avere paura. L’uomo può vincere tutto tranne la paura – recita la voce fuori campo, attribuibile intenzionalmente al punto di vista del regista – soprattutto se i segni dello sterminio accompagnano da anni le loro vite. Sono le tracce di un trauma impossibile da rimuovere, di una memoria che non si può cancellare. Il sangue trasuda dai tronchi degli alberi spaccati dalle asce, mentre i fantasmi dei khmer rossi infestano la foresta assumendo la forma di grossi pupazzi, che rimandano ai personaggi animati de L’immagine mancante.

Si tratta di elementi apparentemente invisibili, che necessitano tuttavia uno sforzo da parte sia dei cambogiani, sia degli spettatori stessi. La rievocazione delle anime dei morti da queste tracce del passato serve, innanzitutto, a fornire una speranza per il futuro di tutto il paese. Panh rievoca questi spiriti filmando la materialità dei rituali: non solo riprendendo le fotografie cartacee dei defunti, ma inserendole nella foresta assieme a maschere tribali, statuette di argilla, pietre su cui vengono fatti bruciare ricordi e artefatti. Le stesse pietre che, purificate dall’acqua, vengono poi avvolte nella carta e riposte, con auspicio, sottoterra, a ricordarci che per rievocare i fantasmi serve rimanere ancorati alla terra, esercitando l’immaginazione e dimenticano l’ideologia.


Articolo presentato in collaborazione con la rivista scientifica Cinema e Storia

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Rithy Panh 115 minuti
Cambogia 2018
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The Tale

di Attilio Palmieri
The Tale - recensione film di Jennifer Fox

The Tale comincia con uno schermo nero e una voce fuori campo che dice: «Questa è una storia vera, per quel che ne so». Nell'associazione di queste due frasi, posta al cancello d'entrata del film, sono contenuti alcuni dei concetti più importanti affrontati dal lavoro di Jennifer Fox.
Innanzitutto la prima persona: l'intero film è un racconto estremamente personale, una finestra spalancata sulla vita dell'autrice, in grado di mostrare qualcosa di sconosciuto non solo agli spettatori ma anche alla narratrice stessa. Infine ci sono le ultime parole, quelle che mettono in dubbio («a quanto ne so»), quelle che mostrano l'inevitabile inattendibilità del racconto, che rivelano una memoria turbata, un passato confuso, un insieme di ricordi in attesa di trovare una corretta sequenza oltre che la giusta limpidezza.

Facciamo un passo indietro. The Tale è un film scritto e diretto dalla regista e sceneggiatrice Jennifer Fox, prodotto e trasmesso da HBO, che racconta la progressiva presa di coscienza di una donna vittima di ripetuti abusi sessuali sepolti nel passato e nella memoria. La caratteristica principale del film però è data dalla sua natura autobiografica: le parole che si ascoltano in apertura sono esattamente quelle dell'autrice, perché The Tale è prima di tutto un film autobiografico, un memoir che parte dalle lettere che la stessa Jennifer Fox ha scritto all'età di tredici anni quando è stata vittima di Bill e della Signora G. mentre frequentava un centro di equitazione. I due erano una coppia e per anni hanno sfruttato l'innocenza di giovani apprendiste per il proprio egoistico piacere.

Il tempo presente mostra Jennifer (incarnata da una straordinaria Laura Dern) che ha da poco superato i cinquant'anni, vive una relazione sana e stimolante con un uomo di colore (interpretato dal rapper Common) e un rapporto con la madre decisamente perfettibile. Soprattutto però, Jennifer ha ripreso in mano le lettere scritte a tredici anni e inizia a fare realmente i conti con il proprio passato e con la possibilità di aver subito un trauma che la sua memoria ha trasformato in qualcos'altro.

A partire da queste basi e dalla centralità della Jennifer Fox persona/personaggio all'interno del film, emerge la Jennifer Fox regista e narratrice. Come si mette in scena la memoria? Come rappresentare un'autobiografia audiovisiva incentrata su un trauma? Come raccontare un abuso subito ripetutamente, i meccanismi di autodifesa del proprio cervello e le scorie accumulate nell'arco di quarant'anni di vita?

A queste domande l'autrice risponde mettendosi in gioco completamente e affidando al proprio alter ego tutta la propria passione, il proprio dolore e la propria determinazione. Jennifer Fox mette in scena i dubbi e le incertezze della protagonista sin dal primo momento, ma al contempo ne sottolinea la tenacia, la voglia di guardarsi dentro e di andare a fondo nel proprio passato. A completare questo discorso la regista costruisce il film su un doppio livello, affiancando alla scoperta del trauma nascosto nella memoria la rappresentazione di quello stesso evento. Sotto questo punto di vista il film assume contorni totalmente soggettivi, utilizzando le immagini in movimento per riportare alla luce le ferite sepolte nella memoria attraverso una focalizzazione totalmente interna.

È forse proprio questa una delle cose più interessanti di The Tale, ovvero la costante riflessione sulla natura della memoria, sui meccanismi di difesa dell'essere umano nel momenti in cui subisce traumi. Per molti anni infatti Jennifer è stata convinta che il rapporto tra lei e Bill avesse una natura consensuale, ma solo dopo quarant'anni riesce a elaborare davvero l'accaduto, facendo una vera e propria attività di ricerca sia all'esterno (rintracciando le persone che quarant'anni prima sono state in maniera più o meno diretta testimoni degli abusi) sia all'interno, scavando profondamente dentro la propria memoria per entrare in contatto diretto con una ferita mai davvero rimarginata.

Jennifer Fox nel resuscitare i fantasmi del passato mette in scena la natura magmatica e anarchica della memoria, facendo della Signora G. un gigante agli occhi della se stessa bambina, un modello femminile inarrivabile (grazie anche all'azzeccata scelta di Elizabeth Debecki), salvo poi presentarla nel presente come una donna decisamente normalizzata, in particolare riguardo all'altezza (come dimostra la scelta della bravissima Frances Conroy).

Allo stesso modo viene messo in scena in maniera perfetta il tentativo del cervello della protagonista di difendersi dal trauma: Jennifer ricorda se stessa molto più grande e più donna di quanto in realtà non fosse, ed è abbastanza disturbante ancorché efficace la giustapposizione tra l'immagine di sé a tredici anni che ha sempre avuto e quella reale, ovvero nulla di più di una bimba, interpretata benissimo da Isabelle Nélisse, che infatti al momento delle riprese aveva solo undici anni.

Proprio come la nostra memoria e come ogni percorso di ricerca anche The Tale ha una natura profondamente evolutiva, acquisendo nella seconda parte una forma differente rispetto alla sua natura iniziale. Quella che è partita soprattutto come una forma di autoanalisi cinematografica, un processo di scoperta del sé e in questo modo presa di coscienza di un abuso, diventa un discorso che si estende al collettivo.

Il percorso di Jennifer infatti diventa progressivamente un'operazione di sensibilizzazione collettiva che parte dalla sua prima e più importante figura femminile di riferimento, la madre. In materia di abusi The Tale insegna soprattutto l'importanza della comunicazione, il valore che ha aprire un canale di dialogo con altre donne, prima di tutto in famiglia. È attraverso la scoperta della natura del proprio trauma che Jennifer costruisce un rapporto con la propria madre sempre più solido e l'autrice è puntuale nel mostrare come le due donne, specchiandosi l'una nell'altra, vengano in contatto con parti di sé stesse e della femminilità tout court a loro sconosciute.

Con il procedere del film la sete di verità della protagonista (e di rimando quella dell'autrice) dà vita a un sentimento di rivalsa di genere che finisce per abbracciare quasi tutte le figure femminili, dalle compagne del passato alle allieve di oggi. La vendetta finale di Jennifer è un atto catartico e liberatorio, profondamente personale ma anche dalla portata universale, simbolo di una discontinuità da cui è impossibile tornare indietro.

The Tale prima ancora di essere un'intensa e intelligente autobiografia audiovisiva è un prodotto necessario, un film che si pone il problema di parlare dell'abuso sessuale e delle difese che il cervello adotta per fare i conti con la violenza subita e lo fa senza alcun compromesso. Jennifer Fox, esattamente come Tig Notaro in One Mississippi e Frankie Shaw in SMILF, capisce che il modo più diretto, impattante ed efficace per affrontare questi temi è prenderli di petto mettendo al centro della narrazione l'esperienza personale, usando lo storytelling come strumento di riflessione e di sensibilizzazione.

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Jennifer Fox Laura Dern Elizabeth Debicki John Heard Jason Ritter Frances Conroy Isabelle Nélisse 114 minuti
USA 2018
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First Man - Il primo uomo

di Samuele Sestieri
First Man

A pensarci bene, dal musical allo spazio il passo è breve: il problema è di ordine gravitazionale. Il sogno icariano si scontra con l’inevitabile, fisiologica caduta. È la storia più vecchia del mondo.

Dal cielo stellato di La La Land - retaggio romantico di un cinema classico e aereo - ci troviamo catapultati nel silenzio cosmico di una storia vera. Damien Chazelle, fin da quell’epidermico, folgorante incipit, chiarisce le carte in tavola: First Man - Il primo uomo non è un biopic su Neil Armstrong né tantomeno la cronaca del celebre allunaggio. E – cosa ancora più sorprendente – non è un film sull’evento mediatico più famoso del Novecento. Chazelle fa un passo indietro: la sua è un’odissea umana, tutta interiore, che inscena una complessa, sofferta elaborazione del lutto. Il racconto di un sogno durato dieci anni – quello che porterà Neil Armstrong sulla luna – è costellato da un susseguirsi impressionante di lutti. La morte è il grande spettro di First Man che, imperturbabile, sembra attrarre ogni cosa a sé.

Neil Armstrong è al centro di questo vortice e, lentamente, si lascia morire dentro. Dopo la scomparsa della figlia, la famiglia diviene per lui un’ombra, l’eco melanconica di un presente plumbeo e rarefatto. Le grida di gioia dei figli lo raggiungono ovattate, gli occhi della moglie lo cercano in ogni dove, gli amici lo chiamano dall’oscurità, ma lui non sente niente. Apatico, in dei frangenti quasi atarassico. Il mondo abita lontano anni luce e non fa poi tanto rumore. L’Armstrong di Chazelle erige un muro fra sé e il resto, perde qualsiasi dimensione orizzontale, guarda solo al cielo come ignoto non da conquistare – ma da ritrovare. La luna è l’ossessione che lo fagocita giorno dopo giorno, il sogno di un’altra vita. Lo si ripete per tutto il film: andare sulla luna significa ampliare gli orizzonti, cambiare punto di vista, varcare i propri confini. La Terra ancora Armstrong a sé, lo fa cadere e fallire, infine lo proietta verso un’epifania che non ha nulla a che fare con la Storia ma solo, unicamente, con la propria intimità. Con il proprio sguardo.

Ecco perché First Man è un film di focali lunghe, di scosse percettive, di dettagli e primissimi piani che escludono, violentemente, tutto il resto. La macchina a mano terremota lo sguardo, insieme a un sound di ipnotiche suggestioni mnemoniche. Questi teleobiettivi spinti, queste compressioni di ambienti, macchine, volti, finiscono per eliminare la distanza fra le cose. L’universo è nei dettagli, negli spazi compressi, negli occhi di chi guarda. È una questione soggettiva, millimetrica, un riflesso dentro di noi (in questo Chazelle ci fa pensare allo Zemeckis di Contact o ai microcosmi di un Malick ingrigito). Il film si accende e si spegne nello sguardo di Armstrong, tutto è nella sua testa e nel suo dolore. L’evento – la morte della figlia – fa germogliare la rêverie lunare. In maniera sorprendente, Chazelle realizza un’opera ardita e claustrofobica, che vive di intuizioni meravigliose eppure…eppure non riesce mai a compiere quel piccolo (grande) passo. Non riesce a liberarsi da quello stesso sguardo che lo aveva a sua volta liberato.

 Il mondo interiore di Armstrong, i suoi sogni, le sue sconfitte, non fuoriescono dai territori razionali di un’elaborazione fin troppo ponderata. Non si scalfisce la superficie, non si vola oltre, ma ci si scopre immobili insieme a lui. L’allunaggio, filmato con meravigliosa tristezza, ci lascia appena assaporare un tempo interiore, senza lasciarsi andare allo squilibrio, all’estasi o alla visione – come invece ci saremmo aspettati. Uno come Zemeckis avrebbe forse creato cordoni immaginifici con la figlia, qui siamo certamente in altre dimensioni, ma la sensazione è che Chazelle abbia sentito il bisogno di controllare, di frenare e – soprattutto – di tornare a casa, respingendo derive squisitamente melò. Alla fine scopriamo che il primo uomo è anche quello che conosciamo di meno, rimasto immobile a contemplare l’algido splendore lunare. Si congela e congela anche noi con lui. Chazelle getta le basi per un film potenzialmente liberissimo, in cui la luna è il riflesso di tutti i nostri sogni – perfino quelli escatologici – ma poi sente il richiamo pesante della Storia, la necessità di un ritorno (le immagini d’archivio così estranee al cuore del film da risultare forzate, il discorso di Kennedy, ma anche le contestazioni ai fondi per le missioni spaziali: peccato, perché l'intuizione di tenere completamente fuoricampo il mondo e la Storia per soffermarsi su un viaggio totalmente interiore, è la vera forza del film).

First Man, del resto, non riesce a perforare la durezza del suo protagonista, la sua sfera emotiva, ci tiene distanti, finendo inevitabilmente per frustrare le nostre aspettative. Basti pensare al personaggio della moglie, interpretato da una stupenda Claire Foy (ogni suo primi piano – va detto - sprigiona una forza cinematografica talmente dirompente da annientare tutto il resto). Il film la sfiora, la corteggia, la liscia, ma non riesce davvero a conoscerla. Per tutta la sua durata aspettiamo un confronto vero con il marito che non avviene mai, lasciandoci il sospetto che lei esista, unicamente, in funzione di lui (anche l’ultima discussione sui figli va in quella direzione). Del resto un vetro li separa perfino nel finale. Forse non si lasceranno mai, ma non possono toccarsi né sentirsi. Vivono nella distanza. E noi ci rendiamo conto che, in fondo, non conosciamo bene né lui né lei.

Sappiamo solo che tra loro due c’è la luna.

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Damien Chazelle Ryan Gosling Claire Foy Jon Bernthal Corey Stoll Kyle Chandler 138 minuti
USA 2018
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Tully

di Tamara Gasparini
Tully - recensione film con Charlize Theron

«I Venti sono grandiosi ma i Trenta ti aspettano dietro l'angolo come un camion della spazzatura alle 5.30 del mattino»

Così chiosa Marlo (Charlize Theron), 40enne a pezzi che vede la propria vita naufragare nel ruolo e nel corpo sformato di una neomamma, fisicamente ed emotivamente provata dalla routine familiare e dalle privazioni di sonno e di gioie, alla giovane e splendida nanny notturna Tully (Mackenzie Davis), assunta come aiuto domestico più per la psiche della madre che per accudire la nuova nata. Ed è proprio lavorando su questo senso della catastrofe in azione e sul confronto intergenerazionale che Diablo Cody e Jason Reitman tornano al loro sodalizio artistico (dopo Juno e Young Adult) con Tully, un ritratto impietoso e autenticamente sentito della maternità, che mette alla berlina modelli convenzionali, stereotipi femminili e idilliaci quadretti famigliari. La loro è una collaborazione coraggiosa che sfida la rappresentazione del femminile sedimentatasi nell’immaginario collettivo e la ripropone in tutte le sue disarmanti e faticose contraddizioni. La dolce attesa di Marlo non è così dolce e a fare da contorno a questo malessere ci sono due figli piccoli con i loro problemi di socialità, un marito tanto amorevole quanto inetto diviso tra playstation e trasferte di lavoro, un fratello insopportabilmente benestante e l’ipocrisia delle istituzioni scolastiche.

Sgradevole come un film di Todd Solondz alle prese con pappine, tiralatte e incombenze genitoriali, Tully racconta quindi una tragedia in sordina, travestita da commedia, un conflitto inesploso con se stessi, osservato sotto la lente del disincanto. Il registro comico di Cody, la scrittura tagliente, soprattutto nei dialoghi e nei botta e risposta tra Tully e Marlo, si sposa al realismo di Reitman nel tratteggiare la complessità di queste vite adulte disfunzionali, inceppate in qualche punto, che portano il peso del cambiamento e il fardello del ricordo nostalgico per ciò che erano e non possono più essere. In questo senso Tully è la sintesi perfetta dei due film precedenti della coppia e l’ideale proseguimento di Young Adult, dove Mavis/Theron, avvenente scrittrice di romanzi per giovani adulti, faceva ritorno al paesino di provincia per riconquistare un vecchio fidanzato e illudersi di riparare così al tempo che passa e al proprio fallimento.

Tully è anche una fiaba moderna, non ascrivibile soltanto al suo realismo intriso di cultura pop (programmi tv trash e hits di Kety Perry e Cindy Lauper annessi e connessi) perché, come in Jennifer’s Body, Diablo Cody attinge ad una vena sovrannaturale che qui viene vagamente delineata in gesti rituali (spazzolare il figlio “problematico” per liberarlo dalle energie negative) e visioni “amniotiche” di sirene. Ed è soprattutto con l’arrivo di Tully che si manifesta questa aura fantastica. Tully è il controcampo di Marlo, ciò che ai suoi occhi e al suo sguardo vuoto serve per rivedersi, uno specchio ventenne, una sorta di autocoscienza, una sessione di psicoanalisi con se stessa nei panni di una giovane millennial dotata dello spirito e della fisicità che una volta le appartenevano. Si prende cura di Marlo, pulisce casa, sforna muffins a forma di Minions, dispensa consigli e conversazioni intelligenti; per Marlo sarà come tornare a vedere a colori. Questa moderna Mary Poppins ha qualcosa di salvifico e strano («she’s weird» dice Marlo al marito), viene dal nulla e solo di notte come un’invocazione, una presenza magica, custode di chissà quali segreti. Risponde a figure archetipiche del femminile (e surrogati del materno), creature fatate diffuse nella mitologia popolare e nelle fiabe con funzione trasformatrice, come una Trilly o una Fata Turchina.

Grazie alla sua presenza Marlo imparerà a prendersi nuovamente cura di sé, ad accettare la quotidianità e se stessa come una nuova persona – le cellule del nostro corpo si rigenerano durante la notte e non siamo più gli stessi l’indomani, le insegna Tully.

Nonostante un finale consolatorio e familista, che contiene la carica sovversiva della materia che Cody e Reitman avevano tra le mani e il ritorno all’alveo di un realismo troppo spiegato che annulla l’incanto della storia, Tully rimane una “straordinaria”, moderna e non edulcorata rappresentazione del femminile e di come imparare ad amare se stesse.

«She’s getting at this age where she’s starting to be really hard on herself…. It doesn’t get any easier for girls, you know

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Jason Reitman Charlize Theron Mackenzie Davis Mark Duplass Ron Livingston Emily Haine Durata: 95 minuti
USA 2018
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End of Justice – Nessuno è innocente

di Leonardo Strano
End of Justice - recensione film - colin farrel e Denzel Washington

Quando un film è cucito sul suo protagonista principale e sul suo interprete, analizzare e scomporre i cosiddetti ventiquattro fotogrammi significa soprattutto scucire tutti i punti di sutura, le cicatrici che incollano il soggetto al suo contesto: per comprendere in maniera più distinta la natura del rapporto tra l’attore-personaggio e la realtà del cinema in cui agisce, ma soprattutto per prendere le misure di un cinema (ormai rarissimo) che si forma gravitando intorno al suo più riconoscibile agente comunicativo: l’attore. Non c’è modo di confrontarsi con un prodotto cinematografico come End of Justice - Nessuno è innocente senza considerare il peso specifico del suo divo. Non è questo lo spazio adatto a ragionare nello specifico sulla natura del divismo nel cinema contemporaneo, ma chi scrive ha provato una sensazione di scarto particolare nell’assistere a una produzione cinematografica imperniata sull’interpretazione totale di un attore come Denzel Washington (non a caso presente anche in veste di produttore). Certo, la politica del divismo non è per forza una garanzia di qualità, ma il discorso si sviluppa sulla base di una partecipazione attoriale così forte da spostare in secondo piano per un momento anche i giudizi di merito.

La storia dell’avvocato attivista Roman J. Israel, trascinato nella complessità etica della realtà contemporanea dalla morte improvvisa del socio per cui lavorava da dietro le quinte, è infatti soprattutto la storia della reazione fisica e comportamentale di una persona a una serie di impulsi provenienti dal contesto. Il lavoro attoriale di Washington è l’unità minima, la pietra angolare di un film che non si distrae mai dal suo interprete: la narrazione è un veicolo per la descrizione psicologica, la regia (di un Dan Gilroy in eccellente sordina) è la disposizione visiva di una trattazione emotiva e i personaggi (tra cui gli ottimi Colin Farrel e Carmen Ejogo) sono sponde al servizio dello sviluppo caratteriale. Lavoro e lavorio di una gestione diegetica abile a fare spazio sulla scacchiera per lasciare che il peso specifico dell’interpretazione non ingombri e non pesi sull’economia di una storia potenzialmente molto fragile. Non c’è nulla di solido nel racconto di una coscienza, fino a quando questa coscienza non è rappresentata da un corpo. Washington inventa un fisico e una mente elettrizzati da ossimori – corpo grosso ma senza potenza, mente forte ma incapace di comunicare, spirito puro ma anacronistico – e poi trasmette emotività a banda larga, però raffinando e centellinando la grandezza del sentimento attraverso un’espressione comportamentale remissiva e trattenuta, che nel momento di frattura, di crisi (e quindi di giudizio) scarica se stessa sul mondo che lo circonda.

Israel trascina se stesso lungo una narrazione che senza di lui non esisterebbe: il montaggio è espressione di un cambiamento d’animo, le svolte corrispondo a capovolgimenti emozionali, la somma delle immagini diventa uno scalpello che sottrae e sottrae fino a scolpire un carattere da ricordare. La prova definitiva della stoica aderenza del film al suo protagonista è la riuscita di una duplice e pericolosissima svolta a tre quarti. Il personaggio si capovolge improvvisamente, ma la struttura regge questo spostamento d’aria e si adatta in tempi stretti al momentaneo disallineamento. Proprio questo momento fuori sincrono rivela come End of Justice – Nessuno è innocente riesca, attraverso l’esplorazione del suo protagonista, a dimostrare qualcosa che tocca la morale e risveglia l’empatia. È stringendosi su Israel che il film si dilata cercando di trasmettere una certa idea di mondo ed è attraverso l’interpretazione di Washington che quell’idea di mondo trova focalizzazione specifica, diventando corpo fisico, confine umano, idea di persona. Che tutto il film sia poi una parafrasi ben argomentata in preparazione ad una frase, ad un momento decisivo, ad una apertura che spalanca il significato e chiude la storia, non deve sorprendere. È solo il riallacciarsi dei punti di sutura.

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Dan Gilroy Amanda Warren Denzel Washington Colin Farrell Carmen Ejogo Lynda Gravatt Durata: 122 minuti
USA, 2017
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Mission: Impossible – Fallout

di Samuele Sestieri
mi fallout

Mission: Impossible, ovvero come continuare a credere nel cinema quale incantesimo collettivo. Come rendere ogni sequenza un azzardo atletico che sfida la dittatura del verosimile, portando alle estreme conseguenze qualsiasi sospensione dell’incredulità. Ethant Hunt è l’ultimo avamposto non solo di quegli action-movie che tanto abbiamo amato, ma la rivendicazione di un genere completamente libero dagli orpelli del reale. Un inno alla velocità, al dinamismo, al potere antigravitazionale del cinema. Egli è l’eroe classico che non muore mai. Lo avevamo già scritto ai tempi di Rogue Nation: esaltati dall’ennesima bomba ad orologeria della saga, era ormai chiaro come il corpo cinematografico di Tom Cruise fosse il residuo, l’ancora di resistenza, di un cinema alimentato dalla sua adrenalina, dall’ipertensione, dall’esuberanza del rischio.

La recitazione come performance ginnica e tachicardica, come sfida contro il buonsenso e le performances degli stunt. Ethan Hunt è Tom Cruise, sempre, comunque (per amore del gioco viene quasi da chiedersi: come sarebbe un film di Werner Herzog sulla celebre superstar? Le sfide herzoghiane potrebbero mai coincidere con le missioni impossibili dell’attore? In fondo per entrambi il cinema è una questione atletica). Christopher McQuarrie, al suo secondo capitolo consecutivo, con Mission: Impossibile - Fallout realizza un folle e liberissimo documentario sull’ultima star di Hollywood. L’uomo che senza stunt, ma per puro amore del rischio, salta tra due edifici (e si rompe una caviglia!), si arrampica a mani nude sulle rocce ad altezze da capogiro e così via. L’unico residuo di leggenda in una Hollywood satura di supereroi. Avevamo ancora in testa le acrobazie animate del quarto capitolo diretto da Brad Bird, quello dove si rivelavano le radici quasi slapstick, cartoonesche dal franchise: il corpo di Cruise si faceva elastico, tornando al dinamismo sfrenato del cartone animato.

In Fallout, sesto e – a quanto si vocifera – ultimo episodio della saga, succede qualcosa di veramente impossibile: Ethan Hunt – ebbene sì! - non è indistruttibile. Certo, Ethan ce le prendeva anche nei capitoli precedenti, ma rimaneva sempre piuttosto intatto sul piano psicologico. Qui entra in gioco un nuovo nemico, molto più pericoloso di qualsiasi terrorista e cattivone di turno: il tempo. Il volto congelato della star finisce per esserne travolto (anche se Tom Cruise rimane immune ai segni dell’età, quasi un cyborg, avatar di se stesso: non invecchia mai!). Fallout, per l’appunto. Ma non parliamo, come troppa stampa americana ha urlato, di un effetto Cavaliere Oscuro. Non si tratta (solo) delle atmosfere cupe, perfino apocalittiche, si tratta di una malinconia di fondo che pervade il film, di frammenti di un mélo sfrenato che si insinuano tra corse folli e inseguimenti all’ultimo respiro. Il tempo che passa diventa subito il tempo che resta. Il countdown dell’ora finale è continuamente scalfito dalla paura della morte, da ciò che si può perdere (gli amici e, ça va sans dire, il mondo intero) e di ciò che si è già perso (l’amore di una vita).

Rimane la profonda amarezza di non poter tornare indietro, di essere condannati a interpretare Ethan Hunt, di dover ogni volta salvare il mondo. Il vuoto, però, è sempre sotto di noi, davanti a noi, finisce infine per circondarci. Ora più che mai Ethan Hunt deve combattere questo vuoto, esorcizzarlo, superarlo. Esemplare, da questo punto di vista, la sequenza del “volo” (tutto , d’altronde, rilancia l’antico sogno icariano). Tom Cruise si getta da un aereo a settemila metri di altezza e apre molto tardi il paracadute. Una sequenza mozzafiato che porta l’action-movie a bloccare il tempo: il corpo si fa astratto, quasi danzante, come se fossimo nei territori lisergici di una sinfonia visiva o in quelli – troppo reali! – che rompono la barriera del suono nella caduta libera di Baumgartner. Il punto è proprio questo: l’incredibile abilità di Christopher McQuarrie è quella di trasformare la bulimia visiva di M:I, la sua ipertrofia strutturale, in pura saturazione delle forme, in cinema astratto e visionario, sempre pronto a perdere la sua fisicità (pensiamo a tutto lo strepitoso, goduriosissimo finale, la guerra tra elicotteri, le cadute, la neve, la sfida a qualsiasi morte certa). Fallout interiorizza più di vent’anni di Mission: Impossible e si lancia nell’ultima, estrema avventura: innesca colpi di scena come fossimo in un meccanismo di scatole cinesi, sente sulla sua pelle il piacere infinito di fare cinema e di coreografare il gioco dei corpi. Infine lascia intravedere il sogno di un’altra vita, celata come fosse il più recondito dei segreti. E forse proprio quest’altra vita è la vera missione impossibile.

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