L'immagine mancante
Un capolavoro di grazia e umanità nato dal dovere morale del racconto
Il cinema come luogo di redenzione, come strumento con cui completare e aggiustare una realtà insufficiente. Il cinema come formula per tenere lontana l’oscurità, fiamma la cui luce ricaccia indietro le propaggini limacciose dell’oblio. C’è un filo che lega il divertito Redemption di Miguel Gomes a questo L’immagine mancante (L’image manquante) di Rithy Panh, una tensione che sogna una forma cinematografica che possa intervenire sul reale per correggerne le storture e gli orrori, e quando ciò non è possibile per lo meno raccontarli. E’ lo stesso auspicio di Jonathan Demme per il suo master builder Solness di Fear of Falling, che in un istante in lenta deflagrazione immagina un film in cui possa correggere le iniquità compiute nella propria vita; o ancora l’autobiografia surrealista di Alejandro Jodorowsky, che grazie al cinema può aggirare la danza della realtà per raggiungere il suo sé bambino, affiancarlo e stringerlo per farsi invisibile sostegno nelle sfide di lì a venire. E infine il cinema è il dovere, l’obbligo morale di raccontare anche e soprattutto l’inenarrabile, l’orrore la cui ultima beffa è il non aver lasciato dietro di sé alcuna immagine che lo ricordi. L’immagine mancante appunto, quella che possa rimanere a monito e memoria di ciò che fu, un’immagine che non esiste ma che il cinema può rimediare a creare.
Consapevole che chi controlla il racconto del passato controlla il futuro, Rithy Panh ha dedicato tutta la sua carriera alla narrazione dell’orrore perpetrato dai Khmer Rossi in Cambogia, affinché tali accadimenti non si perdano nel tempo o vengano in futuro negati da contro-narrazioni (ipotesi questa tutt’altro che improbabile). Il suo raccontare però è il dovere del sopravvissuto, di chi con la propria famiglia è stato evacuato dalla propria casa e rinchiuso in un campo di lavoro agricolo, dove ha perso tutti i suoi cari. Rithy Panh infatti è uno dei superstiti all’esodo di Phnom Panh, la capitale cambogiana ridotta nel 1975 a città fantasma dalle milizie degli Khmer Rossi, decisi ad evacuare tutta la popolazione nelle fattorie comuni del regime. L’immagine mancante non è solo il dovere morale del cinema di ricordare ciò che fu, ma anche il terreno su cui lo stesso Panh combatte per elaborare e superare l’orrore vissuto. E’ lui stesso a mettersi in gioco, in un racconto autobiografico che possa apportare pace a chi vi dà forma attraverso una sorta di auto-seduta cinematografica. Ma come creare ciò che non esiste? Come dare forma al ricordo affinché diventi testimonianza?
L’escamotage scelto da Panh è la riproduzione di luoghi e persone attraverso piccole miniature in legno, modellini dipinti con i quali il grande regista cambogiano può ricostruire le tappe della propria storia. Una soluzione apparentemente semplice e banale che dona luce e forza ad un film capace così di evadere da ogni forma di spettacolarizzazione. Non avrebbe avuto senso per Panh ricreare e dirigere la propria storia su un set vero con attori in carne ed ossa. A cosa serve mostrare la foto di un cadavere, si chiede ad un certo punto la voce narrante di Randal Douc, attore e matematico francese che recita il lungo monologo del regista. Non è la spettacolarizzazione che deve rimanere, ma il ricordo e la verità in esso contenuta. E quella che apparentemente è una riduzione, un impoverimento dei mezzi cinematografici, corrisponde invece ad un aumento esponenziale del potere emotivo ed evocativo dell’immagine, assolutamente sconvolgente ed encomiabile per la consapevolezza etica che vi soggiace. Una vera lezione di cinema e umanità, la stessa che il piccolo Rithy riuscì a tenere stretta anche nel peggiore degli inferni.