Legion - Seconda stagione

di Alessandro Gaudiano
legion seconda stagione recensione serie tv

La seconda stagione di Legion, uno dei prodotti di punta della rete americana FX, è un incubo febbrile fatto di narratori inaffidabili, ribaltamenti di prospettive e di geometrie, mondi paralleli, dance-off, collassi temporali. Come e più che nella prima stagione, la serie firmata da Noah Hawley dissolve qualsiasi aspettativa dello spettatore e lo getta in un mondo strano e affascinante, occupato da un immaginario incontenibile e una continua voglia di sperimentare e stupire. Insieme ad Atlanta (non a caso un’altra serie targata FX), Legion ridefinisce i confini della televisione contemporanea e traccia percorsi nuovi della visione e del racconto seriali.

La scommessa più ardita di Legion è la scelta di rappresentare un mondo frantumato e incoerente come la mente di David (Dan Stevens) e molti altri personaggi. Dopo gli eventi della prima stagione, la mente del protagonista è ancora confusa, ma non sono gli abissi della memoria a fare da leitmotiv e principio costruttivo di queste puntate, quanto la psicosi e l’ossessione.

In questo mondo, la narrazione procede quasi sempre per vie traverse, allegorie, illusioni. I dialoghi sono pochi, densi di teatralità e spesso ironici: orientarsi in questo labirinto è pressoché impossibile, e risulta più proficuo perdersi nei suoi meandri e vivere i suoi incubi elettrici.

Un ipotetico atlante di Legion potrebbe tracciarne alcune rotte fondamentali: la ricerca del corpo di Farouk; la rivelazione di una Apocalisse incombente; le dinamiche tra il Re delle Ombre e i suoi succubi, Oliver e Lenny; le vicende attorno alla Divisione 3 e al suo personale. Tuttavia, è meglio non affidarsi troppo a queste rotte: molti passaggi decisivi di Legion avvengono al di fuori della "storia" in sé, come nel caso del sesto episodio, che racconta possibili vite alternative di David in un montaggio parallelo che ha il sapore della tragedia. Legion sembra procedere con la logica di una composizione musicale più che con quella di un racconto audiovisivo, i cui ritmi e motivi sono narratori ben più affidabili delle impressioni visuali dalla mente di David o delle sequenze narrate dalla voce stentorea di Jon Hamm.

A un livello metanarrativo, la storia di Legion è la storia di una progressiva perdita di senso della realtà: un disorientamento nel quale tutto è possibile, a partire dalla banalità del male, compreso il Male in maiuscolo dei villain Marvel.

A volte, questo Male porta direttamente al padre spirituale della serie, in particolare di questa seconda annata: David Lynch. Legion nasconde un male metafisico, indefinibile, nascosto dietro alle maschere dei suoi supereroi. Alcuni episodi dichiarano esplicitamente il loro debito verso il regista di Twin Peaks, tra crostate di ciliegie e incarnazioni del male che sembrano arrivare dritte dall’indimenticabile ottavo episodio di The Return.

Legion mette in scena una serie di tematiche, come la malattia mentale e la natura delle ossessioni, e dà loro una forma. Forme mostruose, forme paradossali, forme invisibili: una cacofonia dove le atmosfere sci-fi anni Settanta incontrano l’estetica di MTV o le suggestioni del digitale del terzo millennio. In questo vortice di stili, citazioni, estetiche pop e ribaltamenti di senso, tutto è possibile: difficile non vedere la figura di Noah Hawley dietro a quella degli dei di questo mondo, David e Farouk. Demiurghi in grado di creare la realtà a loro piacimento, i cui scontri avvengono tanto sul piano fisico quanto in quella della pura astrazione. Hawley, uno degli showrunner più influenti e creativi del panorama americano, porta qui a termine l’operazione che aveva cominciato e progressivamente approfondito nel corso delle stagioni di Fargo: superare ogni vincolo o regola tradizionale della narrazione televisiva in favore di una narrazione del tutto personale e onnipotente resa possibile dai precedenti successi di Hawley per la rete FX, che sembra avergli dato carta bianca su qualsiasi aspetto della serie. Legion contraddice qualsiasi aspettativa, fa la spola tra il pop più spinto e il cinema sperimentale con una libertà che non teme di farsi nemici e perdere qualche spettatore per strada (fatto che si è effettivamente verificato, a giudicare dai dati di ascolto della stagione).

Il coraggio sconsiderato nelle scelte espressive e narrative porta ad un esito artisticamente riuscito e seduce chi è disposto ad arrendersi all’aut aut posto da Legion: prendere o lasciare. A volte, prevale il piacere di ricostruire il puzzle e trovare il senso di una sequenza o di un arco narrativo; più spesso, a prevalere è il piacere di essere colti alla sprovvista e di essere spiazzati da un improvviso cambio di registro, dal virtuosismo di una sequenza o di un dialogo, da un colpo di scena che si consuma tra immagini ipnotiche. Se il primo tipo di gratificazione è rivolto ad uno spettatore più tradizionale, il secondo si appella a chi vuole sfuggire alle tecniche e agli stili più in voga nell’epoca della peak TV e salpare verso il mare aperto, con annesso il rischio di naufragio. Del resto Legion si prende molti rischi e, talvolta, fa dei passi falsi: alcuni episodi non riescono a connettere a livello emotivo con lo spettatore a causa di una trama estremamente rarefatta, mentre altri risultano troppo lunghi e mancano di ritmo. In generale, la scelta di aumentare il numero di episodi da otto a undici sembra avere penalizzato la serie e dilatato i tempi di un arco narrativo che funziona meglio sulla breve o media distanza.

Nonostante questi limiti, Legion resta un’opera imperdibile e una dimostrazione che il futuro del linguaggio delle immagini su piccolo schermo non è mai stato così eccitante ed imprevedibile. Chi è disposto a tollerarne i cali e gli errori troverà che la mente di David Haller è una camera delle meraviglie da cui è impossibile uscire.

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Sam Was Here

di Gian Giacomo Petrone
sam was here cover

Il road movie ha donato al cinema uno dei filoni narrativi più fertili nell’incarnare l’intima connessione fra l’individuo e l’ambiente, là dove quest’ultimo si configura non solo come alterità da scoprire e decifrare in tutte le sue lusinghe e i suoi magmatici misteri, ma anche e soprattutto come immagine speculare dell’interiorità, di quella zona oscura e di confine che prende la denominazione di inconscio.

Non è un caso che, una volta incrinato il Sogno Americano a partire dalla seconda metà degli anni Sessanta, una volta scoperchiato il vaso di Pandora delle insanabili contraddizioni e dei fantasmi per troppo tempo rimossi dalla coscienza della Grande Nazione, i film realizzati negli USA comincino a mutare di segno e a guardare a nuovi linguaggi, temi, orizzonti valoriali. Il western, dopo aver abbandonato la propria aura epica in favore di personaggi sempre più antieroici e di racconti sempre più lontani dalla retorica della conquista della Frontiera, letta originariamente come l’impresa di un manipolo uomini di buona volontà contrapposti alla wilderness e ai suoi abitanti, lascia progressivamente spazio al road movie, appunto, e non di rado alle sue contaminazioni col nascente New Horror, cioè con la nuova stella polare della produzione indipendente americana. L’American Dream si trasforma così, passo dopo passo, nell’American Nightmare, la (spesso falsa) coscienza lascia spazio all’irrompere dell’inconscio. Tuttavia, se il road movie “puro” promuove l’ansia di libertà del singolo (Easy Rider ne è l’esempio più ovvio e lampante), la sua necessità di fuoriuscire, letteralmente di fuggire, dalle secche di un consorzio civile sempre più conformista e repressivo, quello contaminato con l’horror mostra l’altra faccia della medaglia, vale a dire l’immersione inquietante dell’universo borghese (incarnato, più che dagli adulti, dai loro eredi adolescenti) nelle roads to nowhere di un paese ancora ricco di mistero e tutt’altro che docile verso l’uomo bianco e la sua ottusa convinzione di esserne l’incontrastato padrone.

Va da sé che smarrirsi in una lost highway – poco importa se con l’aggravio di concrete minacce fisiche – equivale, per l’uomo urbanizzato, a ritrovarsi di fronte alle paure ancestrali che sopraggiungono al cospetto di territori privi del conforto della civiltà. E chiaramente, vedere rilevati i propri limiti, tramite la concretizzazione di tali atavici terrori, corrisponde ad assistere alla messa a nudo del proprio carattere, della propria (in)capacità di reazione alle sollecitazioni del pericolo e della sopravvivenza: in breve, la perdita della sicurezza, non più demandata alle istituzioni bensì messa nuovamente nelle mani del singolo, rivela a quest’ultimo, senza infingimenti e sovrastrutture, chi egli sia nella sua più profonda essenza.

Sam Was Here (distribuito anche col titolo evocativo e maggiormente ambiguo di Nemesis), esordio nel lungometraggio del francese Christophe Deroo, sviluppa un congegno narrativo certamente debitore proprio della contaminazione fra road movie e horror di cui si diceva, riuscendo comunque a mantenere in ottimo equilibrio una corposa stratificazione tematica, innumerevoli influenze letterarie e filmiche, oltre che un racconto dalle molteplici e ambigue sfaccettature. La vicenda di Sam Cobritz (Rusty Joiner), venditore porta a porta disperso in un villaggio del deserto del Mojave in California – una vera e propria no man’s land apparentemente disabitata – offre lo spunto per un’articolata riflessione sulla solitudine, sulla colpa (individuale e collettiva), sull’indiscernibilità fra vero e falso, sul senso di impotenza del singolo individuo civilizzato al cospetto della wilderness e di una comunità ostile di rednecks, e infine sulla facilità con cui l’uomo contemporaneo possa veder mutare radicalmente di segno le confortevoli coordinate su cui ha edificato la fragile impalcatura della propria visione del mondo.

In prima istanza, emerge la condizione dell’homo americanus, una volta bloccato all’interno di una delle innumerevoli aree periferiche del proprio paese, un paese che egli ritiene di conoscere e controllare innanzitutto grazie ai mezzi di locomozione e di comunicazione. L’ambizione di dominio territoriale si rivela in tutta la sua disarmante illusorietà, allorché il soggetto si ritrova posto di fronte alla pochezza della propria capacità di reazione agli input ambientali, in quanto privato del supporto tecnologico. Da questo punto di vista, Deroo gioca molto bene le proprie carte, calando l’ambientazione temporale della vicenda alla fine degli anni Novanta, cioè in un’epoca in cui la telefonia mobile e internet stavano muovendo solo i primi e incerti passi, e quindi rendendo più credibile lo stallo comunicativo del protagonista. Sam, da controllore della propria vita (pubblica, giacché quella privata sembra già decisamente alla deriva) e delle proprie azioni, diviene dapprima vittima di eventi apparentemente scollegati (l’abbandono e l’incuria del luogo, l’assenza di abitanti, il malfunzionamento delle linee telefoniche e della propria automobile), per poi finire con l’essere controllato: invisibili videocamere scrutano i suoi movimenti, degli allarmanti messaggi cominciano a comparire sul suo cercapersone elettronico, degli individui mascherati cominciano a dargli la caccia, mentre una rossa luce aliena nel cielo sembra osservarlo e la voce di un presentatore radiofonico (Sigrid La Chapelle) – per molti tratti del film, l’unico autentico e paradossale “contatto” del protagonista col mondo dei viventi, da cui pare tagliato fuori – pungola gli invisibili cittadini della comunità a trovare e catturare un misterioso killer di bambini, la cui identità sembra sempre più corrispondere, mano a mano che la vicenda procede, proprio a quella Sam.

Per Sam, la paura dell’isolamento si accompagna quindi, a un secondo livello, a quella verso la misteriosa cospirazione di cui egli stesso pare l’obiettivo, senza che il regista sia prodigo di indizi per far raccapezzare lo spettatore. L’indecidibilità fra vero e falso, il conflitto fra il realismo (sia pure contrappuntato da tenui segnali onirici) dell’ambientazione e la dimensione allucinatoria degli eventi conferiscono alla vicenda la calibrata tonalità enigmatica e oscura propria dell’incubo a occhi aperti. Per il protagonista, il passaggio dalla condizione di vittima designata a quella di capro espiatorio è decisamente breve: a Deroo preme evidenziare, più che l’incerta colpevolezza di Sam (tutta da dimostrare e peraltro cancellata dalla sua assenza di ricordi espliciti dei suoi eventuali crimini), la facilità con cui una comunità regredita e bestiale decida della sua sorte, in guisa di giuria e carnefice. È sul versante della caccia sadica al malcapitato che si situano anche i momenti più tesi e dinamici di un film che funziona altrettanto bene – forse meglio – in quelli sospesi, al limite del metafisico, in cui il paesaggio abbandonato e allucinatorio del deserto del Mojave è un protagonista aggiunto, una sorta di Zona, di inferno dei vivi (o magari di anime già perdute e dannate, anche se dotate ancora di sembianze umane), proprio in quanto scrutato dallo sguardo alieno di un regista europeo, che intensifica quello del suo già sconcertato protagonista-.

Deroo immerge il film in un’atmosfera malata e polverosa, ricca di rimandi letterari (Matheson, innanzitutto), pittorici (tra le varie possibili notazioni, si può citare la presenza di un quadro di Hopper appeso su uno dei muri del motel in cui si rifugia Sam) e filmici (da Carpenter, che funge da nume tutelare anche del comparto musicale, a Polanski, passando per Lynch o per titoli fondamentali come Duel o The Hitcher), che però non pesano sull’equilibrio complessivo di un’opera prima inafferrabile – e perciò affascinante – come il vento del deserto.

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Francia, USA 2016
Regia: Christophe Deroo
Cast: Rusty Joiner, Sigrid La Chapelle, Rhoda Pell
Durata: 72 minuti


A Quiet Passion

di Emanuele Di Nicola
a quiet passion recensione film

«Per un istante di estasi

Noi paghiamo in angoscia

Una misura esatta e trepidante,

Proporzionata all’estasi»

Una delle più note poesie di Emily Dickinson viene cinematografata, ovvero si scioglie nella rappresentazione, in una scena chiave di A Quiet Passion: Terence Davies esegue un lento movimento circolare della macchina da presa, che inizia e finisce su Emily, e in mezzo perlustra gradualmente l’ambiente attraversato da diversi bagliori, lampadine, candele e il fuoco nel camino, rivelando un mondo fermo, immobile nella sua stasi ma illuminato dalle luci. Emily è il fulcro propagatore, l’elemento centrale da cui l’inquadratura parte e si conclude, in altre parole il poeta: è lei che connota l’altro, “emana” ciò che sta intorno. Quando Emily prova a spiegare la grandezza delle sorelle Brontë, afferma che esse raggiungono “la poesia di ciò che è noto”: allo stesso modo i suoi componimenti, scritti nell’alveo della casa e nel guscio della famiglia, lontano dall’esperienza, alla ricerca del poetico dentro il banale. Ecco perché la ripresa sintetizza la sostanza dei versi: Emily è qui prigioniera, in gabbia (an anguish pay), e allo stesso tempo il bagliore rischiara il contesto, il suo sguardo poetico “genera” gli altri e dunque tocca il nocciolo di quella stessa poesia (ecstatic instant).

A Quiet Passion non è certamente un biopic tradizionale su Emily Dickinson. Seppure insceni la vita della poetessa nata nel 1830 e morta a 56 anni nel 1886, come sempre Terence Davies si muove quanto più lontano possibile dal mero intento illustrativo: il suo cinema non è mai esposizione o divulgazione, bensì ragiona in termini radicalmente diversi e perfino opposti, applicandosi alla messinscena di una storia solo attraverso la costruzione dell’immagine. Ecco perché non può appagare una lettura criptofemminista di questo film, che si ferma all’affresco dell’artista condannata dallo spirito del tempo, perché fu poetessa quando la scrittura era una questione maschile: «Temo che le donne in letteratura non possano creare tesori eterni» dice Samuel Bowles, l’editore che manipola i suoi versi, e questo già basta per esaurire la questione sociale e di genere. Piuttosto, A Quiet Passion si posiziona in paradossale vicinanza ai film autobiografici di Davies, come lo splendido Il lungo giorno finisce, del 1992: lì nella Liverpool degli anni ’50 Bud/Terence, giovane irlandese di famiglia ultracattolica, scopriva la sua omosessualità e l’attrazione ipnotica verso il cinema, in totale contropiede sui costumi dell’epoca e sul nucleo di provenienza. Non è forse questa, cambiando gli elementi, la storia di Emily Dickinson? Stavolta, però, Davies fa un passo inedito e riscrive la forma convenzionale del biopic: non inscena solo la donna, ma mette in immagini la sua poesia.

Emily (Cynthia Nixon in un prova da fuoriclasse) vive in un mondo in cui le donne non fanno lirica, possono solo cantare i salmi. «I don’t feel anything», afferma all’istitutrice nell’incipit, non sento niente, subito decostruendo l’etichetta religiosa dominante. «You’re alone in your rebellion» è la risposta, ed è la verità, di fatto la scrittrice è sola nel suo percorso contrario al tempo. Il sostegno che ottiene è un appoggio umano, ma non può invertire il senso della Storia. Smentendo lo stereotipo della condanna domestica, la famiglia non si oppone alla peculiarità della giovane: il padre Edward (Keith Carradine) la asseconda nel recinto delle circostanze, accordandole la possibilità di scrivere di notte; la sorella Vinnie (Jennifer Ehle) e il fratello Austin (Duncan Duff) sono entrambi molto amati, anche nei rispettivi contrasti, nella rottura della formalità e nell’adulterio dell’uomo che Emily condanna. Il legame con la famiglia è forte e duraturo. La ragazza percorre una vita ordinaria, passando dall’adolescenza all’età adulta nell’arco di una magnifica ellissi affidata all’invecchiamento di una fotografia; l’aperta ribellione giovanile diventa passione quieta in maturità, lasciando emergere il carattere a tratti, ma soprattutto frequentando sempre e assiduamente la poesia. Emily subisce il più grave torto per uno scrittore, la privazione del giudizio. «Le mie poesie hanno qualche valore?», chiede al reverendo Wadsworth, e nell’inquadratura del suo volto, nell’attesa dolente della risposta il racconto incide la profondità di una sofferenza, la gravità della violenza del secolo.

La parabola di Dickinson si intreccia alle altre figure, che reagiscono al contesto o lo seguono, e perfino entrambi come nell’autonomia a elastico dell’amica Vryling Buffam (Catherine Bailey) che sceglie strategicamente di mimetizzarsi nel matrimonio. Emily, invece, passeggia nella routine antispettacolare fino alla malattia e alla morte. Oltre ogni didascalia, Terence Davies per disegnare la sua condizione si affida a un’altra emanazione mentale, un innesto onirico che rende l’interiore tangibile: la donna immagina un uomo indefinito che va verso di lei, uno spettro sfocato che sale le scale della sua stanza. Prima la porta si apre, fiorisce la visione, poi non c’è nessuno e la porta si richiude, con la poetessa (la Poesia) mostrata solo da un tenue lume. «Amore, sei velato / E ben pochi ti scorgono / Sorridono, si alterano / e balbettano e muoiono».

Il cineasta apre uno squarcio nel discorso visivo davanti all’avanzare della morte: qui, contravvenendo al registro consueto, Davies inquadra senza risparmiare, inscena l’epilessia in lunghe riprese, diviene quasi naturalista nel concretizzare il tormento intimo della donna nel dato realista degli attacchi. Lo spasmo è in campo: Emily si contorce e dunque, ancora una volta, la sostanza della poetessa viene iscritta nell’inquadratura. «Per un’ora diletta / Compensi amari d’anni, / Centesimi strappati con dolore, / Scrigni pieni di lacrime». Ed è proprio nella morte che Emily trova la sua beloved hour: la fine della vita è anche l’inizio dell’eternità, raggiunta per interposta letteratura e qui rivista attraverso il cinema. Terence Davies tratta Emily Dickinson come trattava Liverpool nel documentario collage Of Time and the City: la riscrive nella sua forma lirica, nel suo pensiero visivo, da uno scenario al successivo, senza nulla da dire e tutto da mostrare.

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Gran Bretagna, Belgio, USA 2016
Regia: Terence Davies
Cast: Cynthia Nixon, Jennifer Ehle, Keith Carradine, Catherine Bailey, Jodhi May
Durata: 126 minuti


Roseanne

di Eugenia Fattori
roseanne recensione serie tv

È annuncio di pochi giorni fa che in seguito alla chiacchieratissima chiusura di Roseanne, evento del tutto eccezionale ma al tempo stesso perfetto specchio del contemporaneo (causato da un tweet razzista dell’attrice protagonista), il cast e la produzione proseguiranno con uno spin-off dal titolo The Conners, che continuerà la trama originale della serie escludendo però la sua star e creatrice Roseanne Barr.

Sulla Barr, passata in alcuni decenni da stand up commedia a star della televisione, per poi diventare un simbolo dell’alt right americana e dei sostenitori di Trump, ci sarebbero pagine e pagine da scrivere (e infatti ne ha scritto molto bene, in un fluviale longform su Link, Violetta Bellocchio), ma come in molti casi succede la presenza di un personaggio così eccentrico ha finito per offuscare l’importanza della serie e il peso dei discorsi che ha scelto di mettere in campo.

In maniera del tutto rivoluzionaria per una comedy generalista, Roseanne scelse fin dal suo esordio di trattare in maniera realistica e a tratti cruda la realtà della classe operaia americana: nel contesto di un Midwest pre-crisi economica, ma già decisamente in difficoltà, Roseanne raccontava una storia completamente scevra di ogni cliché da sogno americano, costruendo il suo impianto di commedia sulle basi di quella che era, in fondo, più che altro una tragedia americana.

La vita dei Conner, perennemente appesa al filo del disagio economico, rispecchiava già all’epoca la vita di gran parte degli americani, fatta di conti da pagare, assistenza medica insufficiente, gap di istruzione incolmabile, immersa in un contesto culturale in cui la capacità di spesa corrispondeva (e corrisponde tutt’ora) alla misura del successo personale. Una vita da emarginati del capitalismo in un paese in cui il capitalismo domina le logiche della società e chi ne è escluso ha scarsissime speranze di emanciparsi da questa condizione, nonostante la retorica dell’American Dream e della democrazia riescano ad illudere molti del contrario.

Roseanne raccontava una storia di persone normali, capaci e intelligenti ma bloccate dall’indigenza in una condizione perennemente subalterna e precaria, e lo faceva attraverso la leggerezza e il sarcasmo che da sempre, solo nella comedy, riescono a convivere in maniera così felice. Dialoghi eccellenti, storyline spesso rivoluzionarie (ad esempio, fu una delle prime serie ad affrontare seriamente il tema LGBT in quella fascia oraria e su quel tipo di canale) ne fecero uno dei gioielli della corona di ABC per parecchi anni e resero Roseanne Barr una star. La fama per la Barr fu il veicolo per esprimere una personalità esagerata, attraverso rivelazioni choc sulla sua vita privata, scandali gossippari e soprattutto, pare, la tendenza a tiranneggiare in maniera orribile il set dello show.

Conclusa la serie, la parabola della Barr si è radicalizzata, portandola gradualmente sempre più al centro di quella che in USA chiamano la destra alternativa, quella non convenzionalmente legata al Partito Repubblicano ma tendente, come del resto vale per quella europea, alla glorificazione della classe lavoratrice con una retorica dell’uomo comune molto simile a quella dell’estrema sinistra ma tinta di una fortissima vena razzista e anti-sistema.

La star, anche lei di provenienza working class, si è fusa ulteriormente con il personaggio e nonostante fosse ormai una celebrità miliardaria, ha continuato a guardare all’attualità con il punto di vista dell’americano medio di bassa istruzione (quello che in modo dispregiativo viene chiamato white trash), con in più una vena di eccentricità e tendenza all’esagerazione che l’hanno resa un villain perfetto nell’era dei social media, specialmente su Twitter.

È in questo contesto che ha preso forma il reboot di Roseanne, un’operazione già in partenza rischiosa per la personalità della protagonista e complicata da una situazione politica polarizzata; se la produzione e la writer’s room erano quasi interamente orientate politicamente a sinistra, così come la rete (diretta da una donna afroamericana), la collocazione politica di Roseanne sia nella vita che nella finzione stava tra i sostenitori di Trump. La vera sfida era quindi il bilanciamento tra il desiderio di riflettere ancora la vita della classe lavoratrice americana e il mantenimento di un atteggiamento neutrale, che non fosse sbilanciato verso una favola liberal ma neppure caricato di toni di cupezza mal conciliabili con una comedy.

Inoltre, c’era la necessità di contenere gli eccessi della Barr, frettolosamente risolta con la cessione (come si è poi visto, per nulla risolutiva) dei suoi account social media al figlio. In questa condizione obiettivamente rischiosa, la serie ha debuttato con rating altissimi e con tutti gli occhi dell’America – compreso il POTUS – puntati addosso.

Complessivamente, Roseanne è riuscita perfettamente nel suo intento: continuare a raccontare la vita di un’America profonda e lontana dagli occhi dei media, senza pietismi e senza inutili edulcorazioni, alla luce dell’enorme cambiamento culturale dell’ultimo decennio. Un’America che dopo la crisi si è sentita ancor più abbandonata dallo Stato e ha finito per abbracciare in parte le teorie populiste e razziste, radicalizzando le posizioni politiche anche all’interno delle stesse famiglie. Un’America in cui i figli tornano a vivere con i genitori perché perdono il lavoro, in cui le poche certezze – su tutte, quella di poter garantire ai propri figli un futuro migliore motivandoli al cambiamento e all’istruzione – sono miseramente crollate sotto il peso della globalizzazione.

Come può stupire, pensando razionalmente, che la stessa Roseanne finzionale, che negli anni ’90 inneggiava ai diritti dei gay e prendeva posizioni femministe, vedendo distrutte tutte le speranze per i propri figli e per la propria vecchiaia finisca per votare per Trump? Lo show analizza quindi con spirito critico le ragioni di questo cambiamento e affronta con neutralità il conflitto familiare (specialmente con la sorella) che ne deriva.

I veri protagonisti di Roseanne sono però, come sempre, l’economia americana, il pregiudizio, la sanità insufficiente e classista, la quotidiana lotta per la sopravvivenza: ed è questo il motivo per cui ci sono buone possibilità che la serie possa sopravvivere brillantemente al licenziamento della Barr. Perché il ritratto di questa famiglia può tranquillamente prescindere sia dalle (ormai non più così dirimenti in termini di qualità) capacità attoriali della matriarca protagonista che dalla precisa composizione del cast e della famiglia Conner stessa.

I Conner sono il ritratto di un Paese che è lo stesso, ma è anche opposto e speculare a quello raccontato da un altro reboot televisivo, quello di One Day at a Time: da una parte c’è una classe di immigrati che fa della fiducia nel futuro e nell’America liberal e multiculturale la propria forza; dall’altro quello degli americani di nascita, delusi nelle proprie aspettative e rancorosi verso quella stessa ideologia liberal e verso quel sogno americano che invece ancora spinge le masse verso il loro Paese. Due mondi apparentemente inconciliabili eppure non così distanti – e la serie stessa, in uno dei suoi episodi più discussi, mette in luce questa contraddizione – che rappresentano il tramonto, forse, di un intero stile di vita ma anche l’inizio di una società diversa.

Come Roseanne, la serie, e come Roseanne Barr, la classe lavoratrice americana deve necessariamente cambiare o auto-condannarsi a un tramonto fatto di rimpianti, recriminazioni e rabbia. Ma per questo è necessaria una presa di coscienza collettiva, che forse una serie come The Conners potrebbe aiutare a sviluppare: non sarebbe la prima né l’ultima volta in cui la televisione generalista si fa portatrice di valori di tolleranza che innescano un cambiamento positivo nella società (pensiamo al ruolo di Will&Grace nell’accettazione dell’omosessualità) e se anche l’idea che una serie tv possa anticipare in positivo l’evoluzione della società fosse un’utopia, è un’utopia a cui è bello credere.

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Appennino

di Paolo Di Marcelli
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Alla domanda se ci siano o meno dei tabù infrangibili, il comico Giorgio Montanini rispose di sì, che in effetti alcuni limiti invalicabili esistono eccome, citando come esempio proprio i terremotati: “Scherzarci su è davvero troppo presto”. Se è vero che la distanza tra la satira e il cinema del reale è enorme, è tuttavia innegabile che entrambe considerano il proprio oggetto d’indagine come un pretesto, qualcosa su cui ridere o da mostrare in tutta la sua soggettiva verità per parlare, in realtà, dell’essere umano e del suo rapporto col mondo.

Emiliano Dante, aquilano, giunge al suo terzo lungometraggio insistendo sulle conseguenze della ricostruzione e sulle relazioni sentimentali ed affettive che si sviluppano dopo la tragedia del sisma. Dopo Into the Blue (2009) e Habitat – Note personali (2014), è la volta di un lavoro che riparte ancora dal capoluogo abruzzese ma fa subito i conti col presente (le scosse di Accumoli ed Arquata del Tronto del 24 agosto del 2016) tanto da fargli abbandonare in corso d’opera la sua città alla volta dei luoghi e delle persone interessate dalla cronaca di quei giorni. Appennino è un diario sul terremoto scritto e messo in scena da un autore in cerca della propria personale elaborazione che finisce per diventare un compendio di appunti sul movimento rispetto alla staticità, sulla trasformazione rispetto alla conservazione e, infine, sulla provvisorietà rispetto alla stabilità. E l’elenco dei temi rintracciabili nel documentario, in concorso all’ultima edizione del festival di Torino nella sezione Italiana.doc, potrebbe continuare a lungo e comprendere tutto ciò che si contrappone a un’idea di esistenza che nel tempo resti immutabile.I personaggi coinvolti reagiscono ognuno a proprio modo e secondo la propria sensibilità alla scossa che hanno subito diventando persone diverse, chi risvegliandosi dal torpore di una vita sempre uguale a sé stessa, chi abituandosi a non mettere mai più radici. C’è spazio per la nascita di un amore, per una nuova e migliore consapevolezza rispetto al lavoro e al rapporto con gli altri ma anche per l’ombra di inediti cinismi e disperate resistenze al volere dello Stato.

Il regista, montatore e autore delle musiche, non fornisce soluzioni concilianti e consolatorie né registra l’oblio dei soggetti a cui da voce e corpo. Tutto è in divenire e certamente la fine delle cinquecento inquadrature, puntualmente segnalate, non esaurisce le vicende narrate. Soprattutto, Appennino registra come il cinema, e in particolare il montaggio, riesca a dare ordine al caos e permetta la magnifica realizzazione di un paradosso, ovvero di fissare e rendere eterno la messa in moto della reazione a un trauma, mostrando con grande intelligenza visiva come anche l’essenza granitica di una catena montuosa possa trasformarsi nella beffarda liquidità delle onde del mare.

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Dei

di Emanuele Protano
dei terlizzi recensione film

Martino è un ragazzo del sottoproletariato barese che vive ai bordi di una città alla quale sogna di appartenere. È per questo che saltuariamente e clandestinamente frequenta l’università che non può permettersi – sia per motivi anagrafici che economici. In città Martino esprime quello che nella sua casa in periferia non può: con il suo gruppo di amici è libero di frequentare posti che altrimenti non potrebbe, conoscere persone fuori dal suo ventaglio sociale, assorbire conoscenze altrimenti inaccessibili. Questa sua doppia vita crea delle idiosincrasie inevitabili a cavallo della sua già problematica adolescenza, fra la parte familiare di Martino che non comprende appieno le frequentazioni cittadine e borghesi del figlio, e quella dei suoi amici di città, che faticano a sintetizzare le loro essenze e attitudini urbane piccolo-borghesi con il background da cui Martino proviene. In questa parentesi di tempo Martino si trova ad affrontare le problematiche riguardanti il suo percorso di crescita e formazione come pure le tensioni e differenze sociali che i due mondi fra i quali si barcamena creano ed esasperano.

Agli inizi del secolo scorso lo psicologo tedesco Wolfgang Köhler coniò il termine insight, per definire più che una semplice intuizione un processo intellettivo vero e proprio che possa cambiare la percezione di porzioni della nostra realtà. Fu cosi che Köhler dimostrò che uno scimpanzé all’interno di una gabbia, in grado di creare un oggetto unendo più bastoni fra loro per raggiungere delle banane altrimenti irraggiungibili, non aveva semplicemente accorpato dei pezzi di legno, ma aveva creato una “canna”, un utensile rivoluzionario nella mente del primate che andava ben oltre una semplice intuizione e che modificava irreversibilmente la sua percezione di una porzione di mondo. Gli stessi primati, dovendo raggiungere del cibo posto a grande altezza, compresero che alcuni scatoloni insignificanti potevano diventare – uno sopra l’altro – delle scale atte a raggiungere il cibo. I concetti di “canna” e “scala”, in questo senso, sono profondamente gestaltisti, intesi come modelli paradigmatici della elaborazione del pensiero, della successiva percezione dell’esperienza, del comportamento e della sintesi risolutiva di essi. Martino, nel suo mondo sottoproletario ai confini della città, non è poi così diverso dallo scimpanzé in gabbia di Köhler. Anche lui vuole di più e non si accontenta della sua condizione. Vuole qualcosa al di fuori del suo habitat naturale.

Il Potere, nelle sue forme sovrastrutturali, ha creato per tutti noi – Martino incluso – dei mondi in buona parte autosufficienti dove potersi muovere senza il necessario desiderio di curiosare al di là di essi, al fine di disinnescare il più possibile la lotta sociale. Ha creato degli spazi fisici e di senso dove il tutto, autoregolandosi, vive in armonia con se stesso. Ma Martino attraverso le sbarre della gabbia è riuscito a guardare oltre il proprio recinto e ha visto qualcosa per cui vale la pena ingegnarsi e lottare per ottenere, rivelando il suo potenziale insight. Tuttavia a Martino non basta creare una “canna” per raggiungere il cibo desiderato. Martino vuole aprire la gabbia e raggiungere l’oggetto del desiderio con le sue gambe, calcare la terra fuori dal recinto, guardarsi attorno sperimentando nuove prospettive, creando inevitabilmente tensioni e lacerazioni fra le sovrastrutture che lo vorrebbero nella sua gabbia-mondo e la lotta per l’autoaffermazione ed emancipazione di se stesso che lo spingono fuori. Il suo insight è la comprensione dell’esistenza delle sovrastrutture e la possibilità di lottare per sconfiggerle. La partita si giocherà nell’abilità di Martino nell’abbatterle o meno.

Dei, prima opera di finzione di Cosimo Terlizzi, è dunque un’opera di formazione dove le dicotomie fra campagna e città, proletariato e borghesia sono la sublimazione espressiva delle vere polarità del film, ovvero quelle fra adolescenza ed età adulta, fasi della vita nelle quali Martino si dimena e dove si gioca la partita più importante, poiché se l’uscita dall’adolescenza è inevitabile è pero cruciale farlo nei modi sognati e voluti dal protagonista, che lo renderanno o la persona che ha sognato di essere o una copia sbiadita e malinconica di quello che sarebbe potuto diventare ma che non ha avuto i mezzi o le competenze per essere.

Terlizzi firma un’opera esemplare per il suo esordio al cinema di finzione, con delle insufficienze in alcuni reparti (performance attoriali, snodi di sceneggiatura e una certa ultra-visione scenica) in questa sede soprassedibili, consegnando allo spettatore un’opera sussurrata dei nostri “tempi delle mele”, dove però assieme al percorso di maturazione del protagonista vi è come contrappunto inamovibile quello legato al suo status sociale, quasi – sembra suggerire Terlizzi – le due cose siano complementari l’una con l’altra.

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Italia 2018
Regia: Cosimo Terlizzi
Cast: Andrea Arcangeli, Angela Curri, Matthieu Dessertine, Luigi Catani, Martina Catalfamo
Durata: 90 minuti

Biografilm Series - Prima edizione

di Eugenia Fattori
gogol serie tv recensione

Da sorella minore e un po’ snobbata, la serialità televisiva sta finendo per invadere i territori cinematografici non soltanto in termini di target, ma anche di luoghi tradizionalmente riservati al cinema: il Biografilm Festival, in occasione della 14ma edizione, è soltanto l’ultimo in ordine di tempo ad aver portato le serie tv all’interno della propria programmazione. Biografilm Series, questo il nome del progetto, è frutto del lavoro di Andrea Fornasiero (già collaboratore alla programmazione del Roma Fiction Fest) e porta una ventata di novità nella pur ricchissima estate bolognese, che inizia appunto col Biografilm e poi prosegue con Cinema Ritrovato, Sotto le Stelle del Cinema, Arena Puccini.

Anche se penalizzata da una programmazione anticipata (dal 10 al 14 giugno) rispetto al festival principale, Biografilm Series è riuscita a proporre una selezione organica e ragionata che manifesta la volontà di rispecchiare in scala l’enorme offerta di serie TV contemporanea, in cui convivono esperimenti interessanti e produzioni più classiche, mantenendo molto alto il livello qualitativo.

Una decina di titoli in totale – di cui parecchi in anteprima assoluta italiana – “pescati” esplorando il panorama televisivo mondiale (dunque, senza limitarsi al mondo anglosassone) in modo da riflettere alla perfezione la varietà di generi e storie dell’evento “madre” Biografilm.

Dal drama Showtime The Chi, creato da Lena Waithe (la prima donna di colore a vincere un Emmy per Outstanding Writing for a Comedy Series) e in onda da luglio Italia su Fox, al curioso fantasy horror russo Gogol (vincitore del premio del pubblico e adattamento da una raccolta di racconti di Gogol, Veglie alla fattoria presso Dikanka); da Skam, remake italiano di una serie norvegese sulla vita degli adolescenti, creata da TIMVision, alla fantascienza francese in salsa esistenzialista di Transferts; dalla misconosciuta, ma da tenere d’occhio, The Day (heist-series belga che ha vinto il premio della giuria CITEM alla migliore serie di Biografilm Series in Concorso) alla brasiliana The Secret Life of Couples, storia di sex therapy tutta al femminile prodotta da HBO Latin America, per chiudere infine con Bad Banks, drama-thriller finanziario presentato al Festival di Berlino con protagonista Paula Beer (vista in Frantz di François Ozon).

In più un’incursione nella serialità broadcast americana grazie alla proposta di visione dei primi due episodi di Riverdale, serie teen prodotta da CW e creata da Roberto Aguirre-Sacasa sulla base dei personaggi dei fumetti della Archie Comics.

Biografilm Series non è solo un riuscito esperimento di cui attendiamo con interesse l’edizione 2019, ma anche e soprattutto un’occasione unica per ogni appassionato di serie tv: vedere questi prodotti sul grande schermo di un cinema è un’opportunità per nulla scontata e la nostra speranza è che il festival decida di inserire stabilmente questo appuntamento all’interno del calendario principale, contribuendo alla diffusione (e alla giusta celebrazione) di nuovi linguaggi audiovisivi, come e a volte più innovativi del cinema stesso.

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La cura dal benessere

di Jacopo Bonanni
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Hollywood non perdona i passi falsi, soprattutto al botteghino. Basta un film sbagliato e una stroncatura feroce della critica per finire nel dimenticatoio. Ne sa qualcosa Gore Verbinski, ex “Re Mida” dei blockbuster americani passato nel giro di un lustro dagli onori del red carpet (Pirati dei Caraibi, Rango) agli oneri della polvere alzata dal flop colossale del deludente The Lone Ranger, una produzione travagliata (e durata cinque anni) dal budget esorbitante, 215 milioni che a fronte dei 260 hanno decretato la fine del longevo sodalizio dell’autore con la Walt Disney Pictures.

Tuttavia non tutto il male viene per nuocere. Infatti, nei tre anni trascorsi lontano dai riflettori, il regista sembra aver imparato dai propri errori a diffidare dei costosi franchise hollywoodiani, accantonando alcuni rischiosi progetti (il videoludico Bioshock e il cinecomic Gambit) per concentrarsi, anima e corpo, sulla stesura di un’opera personale: La cura dal benessere, inaspettato thriller fanta-sociologico ispirato dalla lettura de La montagna incantata di Thomas Mann.

Scritto da Verbinski insieme al fido sceneggiatore Justin Haythe, il film è un racconto gotico contemporaneo e dall’anima europea – sfarzosa ed elegante – che strizza l’occhio alle recenti suggestioni di Scorsese (Shutter Island) e alle ambientazioni di Sorrentino (Youth) per evocare i “fantasmi” del presente giocando con i cliché e le atmosfere allucinate di alcune “gemme” del cinema di genere nostrano (Gli orrori del castello di Norimberga di Bava, Hanno cambiato faccia di Farina).

La storia è imperniata sul viaggio di Lockhart (Dane De Haan), rampante brooker di Wall Street e novello yuppie, costretto da un’enigmatica missiva a lasciare il suo ufficio di New York per partire alla volta di una remota località situata tra le Alpi Svizzere. La sua missione è quella di recuperare a qualsiasi costo il mittente delle lettera: il sig. Pembroke (Harry Gloomer), l’amministratore delegato da cui dipendono le sorti della società per cui lavora. L’uomo è scomparso durante un soggiorno presso una misteriosa “clinica del benessere”: un vecchio castello convertito in SPA di lusso, dove i facoltosi pazienti cercano rifugio dalle frenetiche esistenze precedenti al ricovero, abbandonandosi alle cure “miracolose” di un bizzarro liquido amniotico brevettato dal luciferino dott. Volmer (Jason Isaacs).

Ogni cosa all’interno della clinica è attorniata dall’acqua che riflette, amplifica, dilata le sensazioni, creando un clima surreale – quasi onirico – tanto da far dubitare lo stesso protagonista della sua presunta sanità mentale. Soltanto da ricoverato, in seguito ad un sinistro incidente, scoprirà di essere prigioniero di un incubo dal quale fatica a risvegliarsi; come tutti gli altri pazienti, isolati dentro delle vasche di deprivazione sensoriale che ricordano da vicino quelle immortalate da Stati di allucinazione di Ken Russel. L’unica eccezione è la giovane “pupilla” del dottore: la candida Hannah (Mia Goth), una presenza eterea che si aggira indisturbata tra le mura familiari del sanatorio, come un’inconsapevole vestale, condannata dal destino al ruolo di vittima sacrificale del suo sordido aguzzino. Sarà proprio il pericolo che incombe sulla ragazza a dare a Lockhart la forza di reagire, raccogliendo gli indizi necessari che lo spingeranno ad addentrarsi nelle viscere labirintiche del castello. Qui scoprirà l’origine del male antico che serpeggia tra le spire delle anguille totemiche che custodiscono da secoli gli inconfessabili segreti del dott. Volmer e dei suoi adepti.

Gore Verbinksi è tornato sulla piazza e si vede. Libero dagli obblighi contrattuali che lo legavano al cinema d’intrattenimento per famiglie – come ogni scapolo che si rispetti – ne ha approfittato per tornare alla sua passione originaria: il cinema thriller-horror. Infatti, sebbene Verbinki debba la sua fama alla capacità di aver trasformato in oro un’attrazione turistica di Disneyland, riportando in auge i film sui pirati dopo cinquant’anni di pallidi tentativi (Corsari di Herlin), il regista era già balzato agli onori della cronaca per aver inaugurato il prolifico filone dei remake americani basati sugli horror nipponici, con la sua riuscita versione di The Ring. Un film che al suo debutto aveva incollato davanti agli schermi di tutto il mondo una nuova generazione di spettatori in cerca di brividi; gli stessi brividi che gli estimatori possono ritrovare qui, grazie a quello spiccato gusto per il macabro e a quel fascino morboso per l’acqua che caratterizzano anche questo nuovo lavoro.

Dopo aver esplorato un passato mitico – frequentato da filibustieri e cowboy – Verbinski torna a focalizzarsi sul presente proponendoci la sua “cura” contro i turbamenti, le ipocondrie e gli inganni del nostro tempo, e lo fa omaggiando esplicitamente tutti i suoi illustri predecessori: da Kubrick a Polanski passando per Argento. A partire dalla colonna sonora – una spettrale litania infantile di morriconiana memoria – il regista palesa tutto il suo amore per il cinema gotico neoclassico, per i suoi stilemi ma soprattutto per i suoi ritmi lenti e cadenzati nel processare l’orrore. Gli stessi protagonisti rispecchiano tutti i canoni del genere: Lockhart è un “vampiro” dell’alta finanza in cerca di redenzione mentre Volmer rappresenta lo “scienziato pazzo” affetto dai deliri di onnipotenza. Entrambi i personaggi sono coinvolti nell’eterno scontro tra bene e male per amore di una vergine.

La cura dal benessere è un film tecnicamente ineccepibile che riscatta il talento visivo di Verbinski, forte di un fotografia straordinaria curata da Bojan Bazelli (Pumpkinhead, Kalifornia, Rock of Ages), capace di esaltare al meglio le potenzialità delle suggestive location scelte per le riprese: il castello di Hohenzollern e l’ex-ospedale militare abbandonato di Beelitz-Heilstätten in Germania. Un’ambientazione ideale per una storia dagli umori malinconici ed autunnali – simili a quella già percepiti in The Weather Man – che fa da sfondo ad un’esuberanza stilistica fuori dal comune e dal taglio registico nettamente autoriale, evidenza dovuta alla necessità di scrollarsi via di dosso l’etichetta di mestierante senza arte né parte. Una critica a cui Verbinski risponde con un uso audace della macchina da presa e una cura maniacale per i dettagli – a tratti ridondante – che lusinga l’occhio dello spettatore ad ogni inquadratura, a prescindere dalla narrazione. Purtroppo le perplessità maggiori si evidenziano proprio in fase di scrittura, a causa di una sceneggiatura che vacilla nello svolgimento a discapito delle solide premesse iniziali, complice una durate eccessiva che rende ostico arrivare al finale, e una parte centrale che risente di scelte narrative ingenue e pretestuose che ritardano i meccanismi della tensione e sviano l’interesse del pubblico al punto da suscitare – involontariamente – lo stesso senso di spaesamento provato dal protagonista durante la visione.

Nonostante questi problemi di scrittura, La cura dal benessere è un gradito ritorno, un film pittoresco, spiazzante per creatività e schizofrenia. Una visione obbligata per tutti i detrattori di Verbinski, che testimonia l’inalterato talento istrionico di un regista “allo stato liquido”, ancora in grado di insinuarsi tra le fessure del cinema mainstream, assumendo nuove forme, descrivendo nuovi percorsi senza perdere l’entusiasmo contagioso degli esordi.

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<i>A Cure for Wellness</i>
USA, Germania 2016
Regia: Gore Verbinski
Cast: Dane DeHaan, Jason Isaacs, Mia Goth, Celia Imrie, Harry Grooner
Durata: 146 minuti

La stanza delle meraviglie

di Leonardo Gregorio
la stanza delle meraviglie 1

In Carol Todd Haynes filmava l’amore in una New York anni Cinquanta (ricostruita, in realtà, nella città di Cincinnati, Ohio), tornando così a tempi e umori sociopolitici e privati che erano stati anche quelli di Lontano dal paradiso. Aveva incontrato una lei e un’altra lei nel romanzo del ’52 The Price of Salt, di Claire Morgan (tra gli svariati pseudonimi di Patricia Highsmith), e aveva fatto del sentimento tra Therese e Carol un grande film. La stanza delle meraviglie (Wonderstruck), prodotto da Amazon, parte dall’omonimo (sia nell’edizione originale che in quella italiana) romanzo grafico di Brian Selznick, autore anche della sceneggiatura, e torna a New York. Ancora a una coppia, ma che non sa di esserlo, divisa: un ragazzino del Minnesota del 1977 e una ragazzina del New Jersey di cinquant’anni prima. Cinema americano seventies, d’atmosfera scorsesiana, e cinema muto; colore e bianco e nero; transizioni e incastri tra silenzio e voce.

Ben (Oakes Fegley) ama sua madre, una bibliotecaria (Michelle Williams); ama lo spazio e le stelle, non ha mai conosciuto suo padre e lo immagina astronomo; sogna lupi e ne ha paura. Un giorno la donna muore in un incidente stradale, poco tempo dopo un fulmine priva Ben dell’udito.

Rose (Millicent Simmonds) guarda invece alle stelle del cinema, perché tra quelle c’è sua madre (Julianne Moore, interprete anche di Rose adulta), che non vede quasi mai se non come fantasma dentro lo schermo di una sala; è sorda Rose (come l’attrice cha la incarna) e sola, con un padre severo che non la comprende. È il 1927, scappa a New York; mezzo secolo dopo lo farà anche Ben.

Una Upper West Side del’77 ricostruita tra Bedford-Stuyvesant e Crown Heights; una chiesa quasi nascosta allo sguardo, trasformata in Promenade Theatre: l’anno (e l’estate) dell’incredibile blackout in città e quello del Cantante di jazz di Alan Crosland. La città ora infinita, ora miniaturizzata. La fotografia di Ed Lachman, le scenografie di Mark Friedberg, le musiche di Carter Burwell. Due epoche, due vite, due storie piccolissime, ma anche due storie del mondo se vogliamo, e poi l’incontro. Il Museo di Storia naturale in cui ritrovare il tempo e lo spazio, il sentimento, la realtà e un’origine nella meraviglia.

È un film ambizioso, Wonderstruck, cerca l’emozione nel nostro oggi anaffettivo ma non gli interessa essere attuale, e questo non perché racconti storie coniugate al passato; è un film gentile, perché gli interessa la tenerezza e tenta di restituirla; è un film che cerca di unire il particolare e la pienezza, i fantasmi e le vite, le cose, trasformando, infine, l’esistenza in diorami, in gioco e malinconia. Ben e Rose attraversano la vita e il cinema, l’assenza dei padri, delle madri, dei suoni, delle parole. La stanza delle meraviglie fonda il racconto di formazione su questa assenza, sulla perdita e sulle paure. Sono personaggi che si perdono, che hanno paura, sono puntini in una geografia reale e irreale, una cartina immaginaria e una città che non conoscono. Il montaggio mette continuamente in dialogo le traiettorie, toglie al viaggio, alla fuga, il lirismo, e dà all’approdo lo smarrimento. Ma a mancare è una levità – che può esserci anche nel dolore, nella solitudine, nel lutto –, un qualcosa che sfugga alla tecnica e alla scrittura, alla manualistica su eroi ed eroine, manca una vera sfuggevolezza, vaghezza, quella meravigliosa leggerezza, ad esempio, che era dell’Hugo Cabret di Scorsese, anch’esso di base fantastica selznickiana. E se lì il maestro italoamericano rendeva invisibile e azzerava strepitosamente il peso della macchina cinema conservandone però l’incanto e i prodigi, nella Stanza delle meraviglie è proprio la sottolineatura insistita e didascalica degli eventi, dei sogni, delle verità, dei traumi e delle scoperte a sacrificare, in parte, l’elemento wonder e a dare così al film incompiutezza e una sostanziale staticità, quando invece è proprio nel movimento che mirava a trovare la sua essenza, la verità delle sue creature.

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<i>Wonderstruck</i>
USA 2017
Regia: Todd Haynes
Cast:, Oakes Fegley, Millicent Simmonds, Julianne Moore, Michelle Williams, Jaden Michael, Cory Michael Smith, Tom Noonan
Durata: 116 minuti

The Strangers – Prey at Night

di Mattia Caruso
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Quando, nel 2008, The Strangers uscì in sala, portando con sé la fascinazione per un (sotto)genere destinato, proprio in quegli anni, a vivere la sua seconda giovinezza, era già chiaro che, nel bene e nel male, ci sarebbero state tutte le potenzialità per un franchise. Chi lo avrebbe detto, però, che, così presi da Notti del Giudizio varie e da un’idea di horror, quella dell’home invasion, spremuta in ogni sua possibile declinazione, avremmo dovuto attendere esattamente dieci anni perché il seguito del film di Bryan Bertino con Liv Tyler vedesse finalmente la luce?

The Strangers – Prey at Night, tratto da una sceneggiatura dello stesso Bertino ma diretto, questa volta, dal Johannes Roberts dell’interessante 47 metri, è un film che ribalta di segno il suo più immediato e schematico predecessore pur rimanendogli, paradossalmente, fedele. È una home invasion atipica, d’altronde, l’opera di Roberts, un crescendo rabbioso di violenza che abbandona gli spazi claustrofobici della casa e si apre a un esterno oscuro e ostile ma in cui, forse, si può ancora scorgere un barlume di speranza. Le mura domestiche non sono più il luogo in cui rifugiarsi, dunque, per l’adolescente problematica Kinsey (Bailee Madison), ma quello da cui fuggire, lontano da una famiglia in crisi (la madre Christina Hendricks, il padre Martin Henderson, il fratello Lewis Pullman) ritrovatasi di colpo a fare i conti con tre psicopatici mascherati.

“La prossima volta sarà più facile”, prometteva proprio uno di quegli psicopatici alle sue due complici (o discepole?) nel finale del film di Bertino, eppure, in The Strangers – Prey at Night, le cose paiono decisamente complicarsi, prendendo una piega inedita e sovversiva. Sono lontani i tempi di un home invasion che, dalla cronaca al cinema, dal settarismo omicida di Manson fino ai giochi sadici di Funny Games, si rispecchiava nei luoghi comuni e negli sviluppi narrativi schematici ed essenziali seguiti dalla prima pellicola. In questo nuovo mondo che guarda più esplicitamente allo slasher e cita con disinvoltura Venerdì 13 (il campeggio a pochi passi da un lago), Halloween (con le sue false soggettive, i suoi sobborghi e i suoi viali deserti) e persino Non aprite quella porta (in un finale quasi speculare a quello del film di Hooper), non c’è più spazio per regole ferree e cieca aderenza al genere. Per sopravvivere a questa ennesima manifestazione del Male bisogna sporcarsi le mani, guardare il mostro dritto negli occhi e fare, inevitabilmente, il suo stesso gioco.

Una lotta per la sopravvivenza che Roberts asseconda con intuizioni registiche e soluzioni formali notevoli, con uno sguardo capace di spaziare dalla cupezza evocativa dei suoi scenari notturni ai colori al neon e al gusto Eighties di alcune tra le sequenze migliori del film (una su tutte: quella della piscina, con “Total Eclipse of The Earth” in sottofondo). È così che il secondo capitolo di questa anomala saga, tra déjavu e originalità, sa farsi specchio del proprio tempo e, insieme, trionfo mai banale di una violenza immotivata e assurda decisamente lontana da facili sensazionalismi e soprassalti emotivi, affermandosi, contro ogni aspettativa, uno degli horror migliori della stagione.

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USA 2018
Regia: Johannes Roberts
Cast: Bailee Madison, Christina Hendricks, Martin Henderson, Lewis Pullman, Damian Maffei, Emma Bellomy
Durata: 85 minuti


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