Dragged Across Concrete

di Giulio Casadei
Dragged Across Concrete recensione

L’inizio vale come una dichiarazione d’intenti: un ragazzo afroamericano torna a casa dopo essere stato in prigione (e dopo aver passato la serata con una prostituta). Ad “attenderlo” trova la madre a letto con uno sconosciuto ed il fratello sulla sedia a rotelle, chiuso a chiave nella sua stanza. Scopriamo che il padre ha abbandonato la famiglia per fuggire con un altro uomo e che i soldi scarseggiano. Nel frattempo, due ispettori di polizia, interpretati da Mel Gibson e Vince Vaughn, fanno irruzione nell’appartamento di uno spacciatore messicano. I modi sono quelli spicci e brutali di tanti altri polizieschi: la differenza la fa lo sguardo implacabile di un telefonino che riprende tutta la scena e poi la diffonde in rete.  Risultato? Sospensione dal servizio per sei settimane con conseguente taglio dello stipendio. La necessità di soldi spingerà i due poliziotti verso una strada senza via d’uscita.

Dopo lo straordinario Brawl in Cell Block 99, S. Craig Zahler torna a Venezia con un’opera che conferma l’unicità del suo cinema. Da un lato pienamente inserito dentro coordinate di genere anni Settanta (il western, l’horror, l’exploitation e il poliziesco), dall’altro lontano dalle facili scorciatoie del postmoderno. Ironico, certo, ma mai distaccato. Consapevole della storia del cinema, delle sue icone, dei suoi modelli, eppure orgogliosamente antiformalista e anticonformista. Provocatorio, con il feticcio per il dettaglio splatter, ma con un’etica granitica. Praticamente un pezzo di classico incastonato tra le pieghe del contemporaneo. Da qualche parte tra John Carpenter e Walter Hill, con dentro però un interesse per l’universo interiore dei personaggi che ha qualcosa di letterario (Zahler è non a caso anche scrittore) e con una consapevolezza (che però non fa rima con aridità) rara del proprio tempo che lo pone in maniera problematica rispetto all’attualità.

Per Zahler i personaggi vengono sempre prima dello schema narrativo. Sono loro a dettare l’andatura del racconto, prendendosi spazi e tempi che non gli “spetterebbero”. Per cui è possibile imbattersi in due criminali che nel pieno di una fuga post-rapina si ritrovano a parlare delle loro madri. O ancora una donna, neo madre che dopo tre mesi è costretta controvoglia a tornare a lavoro. Circostanza che la condannerà a morte. Ma quella che per la stragrande maggioranza dei registi sarebbe stata solo la vittima anonima di una rapina in banca, diventa nelle mani di Zahler una persona in carne ed ossa con tutto il suo carico di affetti e fragilità, alla quale dedicare una lunga parentesi inutile ai fini del racconto e proprio per questo preziosa. Proprio perché non esistono ingranaggi né funzioni. Il cinema di Zahler è un universo in espansione, lento e inesorabile che spalanca abissi interiori. Più che la destinazione o i suoi passaggi chiave, a contare è il tragitto con le sue pause, le sue improvvise accensioni, i suoi inattesi detour.

Da qui un lavoro sul tempo che non ha niente a che vedere con il cinema di genere e con l’exploitation. E non si tratta tanto di una questione di durata complessiva (i film di Zahler superano sempre le due ore e in questo caso siamo ben oltre le due ore e trenta) quanto di gestione interna, di fraseggio, di articolazione dei segmenti e del loro rapporto con l’opera. Ecco allora lunghissime conversazioni consumate tra la notte ed il giorno sul sedile di un’utilitaria o in un’anonima cucina di un palazzo popolare, oppure inseguimenti in macchina tra i più anti-spettacolari mai visti. Deviazioni dal tracciato che si spingono fino ad inceppare il meccanismo, svuotarlo dall’interno. E non certo per un capriccio narcisista o per una posa postmoderna, ma per una semplice necessità espressiva. La necessità cioè di descrivere minuziosamente un mondo popolato da coloro che non ce l’hanno fatta. Come il criminale di piccolo taglio fresco di prigione, con una madre prostituta ed un fratello tetraplegico, o il poliziotto Italo-americano Anthony Lurasetti, intepretato da Vince Vaughn, innamorato invano di una ragazza che rifiuta la sua proposta di matrimonio. In questa galleria di sconfitti emerge il Brett Ridgeman di Mel Gibson – discendente diretto del Martin Riggs di Arma Letale (di cui vediamo anche una foto nell’ufficio del tenente interpretato da Don Johnson) – con più di trent’anni di onorata carriera alle spalle e nessuna promozione. E con una situazione familiare al limite: moglie malata di SLA e figlia introversa oggetto di scherno dei bulli afroamericani del quartiere.

È sul suo personaggio, ed in particolare sul corpo simbolico di Mel Gibson, che Zahler costruisce tutto il film, un poliziesco crepuscolare e politico che appare come il canto del cigno se non del genere, sicuramente di uno dei suoi corpi attoriali più rappresentativi, soprattutto nella sua versione buddy movie. Ecco allora che le fragilità e le controversie dell’uomo Gibson (alcolismo, posizioni politiche conservatrici e razziste) concorrono alla caratterizzazione del personaggio e producono la sanzione disciplinare che innesca il dramma. Alla base della punizione non c’è tanto la censura di un comportamento scorretto, quanto piuttosto la sua diffusione in rete. In questo dato si potrebbe leggere un commento ai numerosi fatti di cronaca di questi anni che hanno visto poliziotti americani macchiarsi di crimini di ogni genere, in particolare contro la comunità afroamericana (fatti alla base dell’ultimo lavoro di Roberto Minervini, presentato in Concorso). A riprova della natura ipoteticamente reazionaria del cinema di Zahler, che per qualcuno sarebbe confermata anche dalla scelta ricorrente di icone repubblicane (Vince Vaughn, Mel Gibson, Kurt Russell). Come se poi questo fosse un problema. In realtà ci sembra che il regista affronti questioni problematiche per sfidare i suoi personaggi prima ancora che gli spettatori o la cosiddetta opinione pubblica. Come fosse una battaglia astratta giocata sul terreno delle idee e dell’etica. Una battaglia dall’esito incerto e mai banale.

Discorso simile sul riferimento ai nuovi dispositivi che, pur avendo un indiscutibile aggancio con l’attualità politica, s'iscrive in una riflessione tutta interna al cinema, ed in particolare al genere poliziesco. Nella dialettica tra immagine cinematografica ed immagine amatoriale la prima è destinata a soccombere: più pesante, lenta, legata a codici anacronistici. (Come non vedere del resto nei ritmi estremamente dilatati del film e nel passo incerto dei protagonisti il segno di una sconfitta storica, contrapposta alla rapidità della circolazione delle immagini e delle informazioni in rete?). Lezione che i due protagonisti apprenderanno sulla loro pelle, quando cercheranno invano di opporre allo sguardo invisibile dei nuovi dispositivi una piccola telecamera puntata verso il parabrezza. Immagini destinate ad essere sepolte insieme con i loro autori. 

 

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S. Craig Zahler Mel Gibson Vince Vaughn 159 minuti
Canada, USA, 2018
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Vox Lux

di Samuele Sestieri
Vox Lux - recensione film

A cavallo fra due secoli, sul crinale teso che separa i millenni, si spalanca Vox Lux in tutto il suo febbrile, incandescente ardore. Brady Corbet realizza un film ambizioso, quasi titanico nel raccontare i nostri giorni e questi ultimi vent’anni. Vox Lux guarda al ventesimo secolo come l’età del male, marchiata dal dolore e dalla sofferenza; guarda al ventunesimo come l’epoca del transfert digitale, l’era post-traumatica e post-reale, sciolta nell’egotismo sfrenato di una lunga elaborazione del lutto. Un’elaborazione tutta pubblica, da palcoscenico, infinitamente riproducibile: il dolore di Celeste, protagonista del film, è il dolore del mondo.

Il presente di Corbet è attraversato da un processo di metabolizzazione digitale, da un narcisismo 2.0, da una compressione anestetica: in un corpo solo, come in un enorme file zippato, tutto l’orrore di questi anni senza luce. Ogni cosa si condensa nella patina del virtuale, tra retaggi perversi del giornalismo e simulacri di nuove, conturbanti icone mondiali.

Come Olivier Assayas in Double Vies, anche Corbet filma il digitale con la pellicola, contrappone all’immaterialità del presente la grana del cinema che fu. Usa il supporto del film per farlo implodere verso un’astrazione totale. Il corpo che mette in scena è quello di Celeste, la popstar nata dalle macerie del reale. Il film parte dall’anno della fine del mondo: 1999, una strage scolastica che riporta subito alla mente quella di Columbine. Fra quei cadaveri - filmati con una pasta visionaria che ricorda da vicino il Sion Sono di Suicide Club - c’è Celeste, morta per un istante e poi tornata in vita. Si dice che – fra un mondo e l’altro - abbia stretto un patto col diavolo: comincia con una morta vivente la favola faustiana di Brady Corbet. Vox Lux reinventa la cronaca con indicibile potenza realizzando una mitologia elettrica e conturbante. Pop, inevitabilmente pop. L’obiettivo per Faust era la conoscenza, per Celeste – e non potrebbe essere altrimenti – il successo mondiale (e oltre).

Nell’ascesa di una popstar, la perdita d’innocenza tanto somiglia a un lungo sogno, sempre in bilico tra incantesimo e follia. Celeste sembra un angelo caduto e addormentato, paladina di metropoli verticali e abissi mediatici. Attenzione, a questo punto, all’architettura che guadagna un posto di primo piano nel film, edificando le sue torri di Babele che sfidano il cielo. Se la città è una moderna Babilonia, Celeste è - biblicamente - la donna che cavalca la bestia in un’Apocalisse visionaria, in un coloratissimo, dolente requiem del reale. Vette siderali, grattacieli che somigliano ad alberi maestri, nuove configurazioni di un potere sempre più ora e ovunque. La violenza del presente, gli episodi di cronaca più brutali di quest’ultimo ventennio, sembrano essersi incarnati sui nostri schermi. E quest’incarnazione è Celeste, la donna tra la terra e il cielo, in salita vorticosa ( o in caduta libera) verso il cuore pop dell’Apocalisse.

Non a caso, il primo atto del film è la Genesi: la nascita del male, il suo albergare la storia, la sua progressiva privazione di bene. Tutto raccontato dalla voce fuoricampo - quella magnetica di Willem Dafoe - di un narratore da un altro mondo. Forse un uomo del futuro che ricorda – sardonico e distaccato – un mondo in continua, inarrestabile trasformazione. Celeste cresce e diventa Natalie Portman (nella performance più impressionante della sua carriera) ed è come se - in questa ellissi - tutto sia cambiato. Celeste è perennemente sull’orlo di una crisi di nervi, come posseduta da un demone che scalcia sotto la pelle, tormentata da una spina nel fianco impossibile da estirpare. La sua immagine virale contamina il mondo intero nel delirio di schermi, colori, costumi e fanboy. Celeste diventa un simbolo, idolo mediatico che porge l’altra faccia di Dio. Se l’ansia è diventata la condizione esistenziale dei nostri tempi, Celeste ne è la mostruosa incarnazione: respinge e mortifica gli affetti (emblematico il rapporto con la sorella), lancia strali infuocati nei confronti di tutto e tutti. Soffre nella vita quotidiana e cerca conforto nelle pozioni magiche, nei sieri del presente. Si libera poi sul palco, lasciandosi andare al furore dionisiaco di un concerto alla fine del mondo. La performance conclusiva - in tutto il suo esaltante disequilibrio strutturale - sembra un sabba di proporzioni mondiali: il pensiero oscuro sotteso per tutto il film, quello di un enorme sortilegio propagato attraverso le immagini – veri e propri agenti endemici – trova qui la sua radicale rappresentazione.

Vox Lux precipita indemoniato nell’estasi febbrile del Nuovo Mondo, sprigionato dall'incantesimo collettivo. L'intera umanità dietro a uno schermo-velo, in un'ipnosi senza fine, col ritornello cantato all’unisono, retaggio dei mantra e delle canzoni sacre del passato. Corbet intercetta nella popstar la strega moderna e il nuovo messia; nel farlo ci regala un’opera che sfida continuamente qualsiasi limite, qualsiasi barriera, senza paura. Anche per questo Vox Lux è un capolavoro esplosivo che crede nel corpo - e nella sua immagine - come entità in continua mutazione. Il film è un susseguirsi instancabile di invenzioni visive e sperimentali, abitato da forze eterogenee che si scontrano fra di loro, dimentiche di qualsiasi stasi, di qualsiasi comfort. Le immagini danzano, si scontrano, si accoppiano, deflagrano improvvise, corteggiano il delirio accarezzandone i confini. Il vero horror è tutto qui, nella volontà di potenza di un’immagine che lancia i suoi dardi in fiamme contro Dio e contro qualsiasi norma o disciplina, verso uno spirito sempre più indecifrabile.

Celeste abita questa rivalità, facendosi regina di un nuovo mondo, iperbolico e seducente, dove trionfano le forme indefinite. Il terrorismo rimbalza di schermo in schermo, inietta il siero nella rete lanciando le sue metastasi mondiali, i suoi inni di gioia, il suo famelico terrore. A metà strada fra l’incubo e l'incanto, fra la paura e il desiderio, verso l'immortalità.

 

 

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Brady Corbet Natalie Portman Jude Law Stacy Martin Raffey Cassidy Jennifer Ehle 110 minuti
USA 2018
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The film spans 18 years and traces important cultural moments through her eyes, starting in 1999 and concluding in 2017

infanzia del leader Premio Orizzonti alla miglior regia e il Leone del Futuro - Premio Venezia Opera Prima

Aquarela

di Giovanni Bottiglieri
Aquarela - recensione film

Nel variegato Fuori Concorso di Venezia 75 troviamo Aquarela, diretto dal documentarista russo Victor Kossakovsky. Il regista, dopo essersi concentrato sul rapporto tra l’essere umano e lo sport in Grain de champion del 2016, qui è intento a dipingere l’essere umano perduto in mezzo ai titanici monoliti di ghiaccio che costituiscono il territorio scandinavo. Non a caso fin dal titolo Kossakovsky attribuisce all’acqua il ruolo di protagonista, ritraendola come un elemento in grado di creare una dimensione in cui l’uomo pian piano sparisce. Il risultato è un’esperienza visiva che coinvolge il pubblico, facendo appello alla sua capacità di registrare i movimenti, talvolta minimi, del mondo di ghiaccio attraverso le forme, i colori e i suoni. Qui l’essere umano diviene soltanto spettatore in una terra che non gli consente di agire in primo piano; egli è sempre piccolo e sperduto nella vasta landa del silenzio di ghiaccio: un silenzio che segue in realtà i ritmi del suono naturale dell’acqua, fonte di ogni esperienza dell’universo rappresentato.

Kossakovsky lavora sul ricordo del primitivo della natura e dell’uomo, un rapporto tra gli elementi che costituisce l’essenza nascosta e imprescindibile di questa pellicola, e utilizza la suggestione della magnifica potenza della natura per rivelarne le fragilità; il film non utilizza discorsi retorici per sollevare il problema dei mutamenti climatici ma è ancorato al solo linguaggio audiovisivo, chiaramente più vasto e più incline a far emergere la questione. La varietà degli elementi agisce coralmente come un’anima unica in eterno mutamento, inseguendo i cicli naturali e mostrando le sue capacità di comporre e scomporre i mari e i monti. Il regista sceglie di mostrare l’acqua senza sentire il bisogno di spiegare i processi nascosti e trasfigura le opere della natura racchiudendole entro la cornice tecnica dell’inquadratura, congelando il momento come se si trattasse di un dipinto: la pittura è sicuramente uno dei riferimenti principi di Kossakovsky, che la approfondisce attraverso la mostra di una tavolozza alquanto variegata e ricca delle sfumature del nord del mondo.

Aquarela è un’opera intrisa della consapevolezza dello scorrere del tempo, e la sua visione sospende il ritmo del quotidiano per far posto al flusso del ritmo della natura, sapientemente architettato: un flusso che mostra quanto il nord del mondo sia insieme spietato e spettacolare.

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Victor Kossakovsky 89 minuti
Gran Bretagna, Germania 2018
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Adam und Evelyn

di Domenico Saracino
Adam und Evelyn - recensione film

L’estate del 1989 fu un momento di passaggio epocale per centinaia di migliaia di tedeschi che fino a quel momento erano rimasti confinati ad Est della cortina di ferro. Un passaggio che è tanto storico e sociale – vero e proprio catalizzatore della caduta del muro, avvenuta poco più tardi – quanto materiale, fatto, com’era, di spostamenti di massa dalla RDT alla RFG (all’Ovest, in generale), resi finalmente possibili dall’apertura della frontiera tra Ungheria e Austria. È in questa precisa temperie che si collocano le vacanze estive di Adam e Evelyn, protagonisti dal nome biblico ed archetipico di Adam und Evelyn, tratto dal libro di Ingo Schulze e in Concorso nella sezione della Settimana Internazionale della Critica di Venezia 75.

Liberi di rideterminarsi, di rimettere in discussione le proprie esistenze e di incanalarle verso nuovi approdi, i due si avviano verso la terra ungherese. Il loro è un viaggio in macchina che, scandito da elementi di crisi che scompigliano la vita di coppia prima e durante la villeggiatura, sarà propedeutico al cambiamento radicale che la Storia offre loro. Come in ogni road movie che si rispetti, infatti, i personaggi del film vanno incontro ad esperienze che ne segnano, irrimediabilmente, il processo di formazione e influiscono in maniera sostanziale sulle scelte che il mutamento storico gli chiede di operare. Da un lato Evelyn, abituatasi – dice – all’idea di non fermarsi più, e quindi decisa, già in virtù di una non trascurabile insoddisfazione di fondo per la realtà vissuta fino a quel momento, a lasciarsi alle spalle il passato e a ricominciare altrove. Dall’altro Adam, che non ha alcuna velleità di trasformazione ed è del tutto appagato dal suo lavoro di sarto e fotografo per donne e dai benefit amorosi che da esso sembrano venire.

Due caratteri apparentemente opposti, dunque, che si ritrovano a rappresentare una precisa dicotomia tra stasi e movimento, tra status quo e palingenesi. E, perché no, considerando il riferimento ai progenitori veterotestamentari, tra maschile e femminile. Quello dei nomi non è però il solo riferimento simbolico tratto dalle sacre scritture. La struttura del libro, nel quale sono contenuti diversi riferimenti alla mitologia religiosa, viene infatti mantenuta nell’adattamento cinematografico. Ad un certo punto del film il gioco di rimandi viene persino esplicitato con il (non) casuale ritrovamento di una Bibbia nel cassetto di una camera d’albergo, e la lettura del passo della Genesi in cui Dio caccia Adamo ed Eva dall’Eden, maledicendone la stirpe.

Quel che interessa a Schulze e al regista Andreas Goldstein, che esordisce al lungometraggio con Adam unt Evelyn ben dopo i quarant’anni (e dunque con una conoscenza diretta del periodo in cui sono ambientati libro e film) non è tanto la situazione storica con le sue specificità, ma il modo in cui essa agisce sugli individui, determinandone carattere, opinioni, parabola esistenziale. Non ci sono né le spie della Stasi de Le vite degli altri, né quelle internazionali de Il ponte delle spie, ma soltanto la storia d’amore tra un uomo e una donna alla vigilia della riunificazione delle due Germanie.

A questa concezione manzoniana della Storia, in cui la macrostoria assume sostanza nella microstoria, si aggiunge poi il taglio antipsicologico e antisociologico del romanzo, scelto proprio in virtù della sua essenzialità. Ne deriva una narrazione tutta concentrata sulla gestualità, sui comportamenti, sulle circostanze, tanto più incisiva quanto più laconica e iscritta nelle cose e nei fatti. È un film di sguardi silenti e di indecifrabili travagli interiori, quello di Goldstein, fatto di sospensioni, così come sospesi sono stati per lungo tempo la libertà di Adam e Evelyn e il destino stesso di un’intera nazione, una Germania forse diversa da quella cui siamo abituati a pensare, fragile, esposta, confusa; un Paese spaccato, asimmetrico, a due velocità, esattamente come i due protagonisti. Per Adam ad ovest c’è troppo di tutto, per Evelyn soltanto abbastanza per una vita felice. Ed è in questo scarto e in tutto ciò che serve a colmarlo, nella difficoltà dello stare assieme – persone, animi, nazioni – e in ciò che si può fare per superarla che sta la chiave principale del film.

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Andreas Goldstein Florian Teichtmeister Anne Kanis Lena Lauzemis Milian Zerzawy 100 minuti
Germania 2018
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Peterloo

di Damiano Garofalo
Peterloo - recensione film

Manchester, 16 agosto 1819. Durante una grande manifestazione radicale a favore dell’adozione del suffragio universale nel Regno Unito, una folla di oltre 60 mila persone viene caricata dalla polizia a cavallo presso St. Peter’s Field. Undici manifestanti rimangono uccisi, un centinaio restano feriti. Quello che è passato alla storia come il “massacro di Peterloo” (invenzione giornalistica ispirata a quello appena concluso di Waterloo) è considerato tra gli eventi più incisivi nel percorso di elaborazione della riforma elettorale del 1832, che aumentava il numero di cittadini britannici con diritto di voto (uno su sei). Il suffragio universale, maschile e femminile, sarà introdotto in Gran Bretagna soltanto nel 1928, ma i fatti di quella mattina passarono alla Storia come uno dei momenti più importanti di quel processo di disseminazione europea dello spirito rivoluzionario francese. Non per caso, Peterloo è ricordata come uno dei primi eventi storici ad aver ricevuto una copertura mediatica immediata senza precedenti per la stampa periodica britannica.

Il film di Mike Leigh, presentato in Concorso a Venezia 75, riprende fedelmente i fatti che portarono a quella tragica mattinata, raccontando lo spirito radicale del tempo e seguendo i preparativi dell’assemblea pacifica che si sarebbe dovuta tenere quella mattina, ma che fu interrotta dall’intervento delle forze dell’ordine. Peterloo è un vero e proprio film di ricostruzione storica, non solo perché recupera gli stilemi classici del cinema britannico d’impegno politico, ma soprattutto per le sue ambizioni esplicitamente didattiche, pedagogiche, umaniste. Richiamandosi alla migliore delle tradizioni degli sceneggiati storici BBC, Leigh costruisce un film parlato, utilizzando lunghissimi dialoghi e discussioni animate per introdurre e accompagnare lo spettatore verso le catartiche e coinvolgenti scene di massa dei minuti finali. In questo modo, nel momento in cui il regista ci conduce tra la folla, noi spettatori abbiamo già preso parte alle assemblee condotte dai personaggi per preparare la manifestazione, possiamo comprendere le ragioni dei manifestanti, patteggiare inevitabilmente per loro. Leigh non ci porta soltanto dentro le polverose riunioni delle prime società sindacali, sia maschili che femminili, ma ci introduce anche ai meccanismi decisionali messi in atto dal potere, dalla magistratura nello specifico, per reprimere i movimenti riformisti. Le infiltrazioni della polizia nell’universo popolare, l’organizzazione degli arresti preventivi ai danni di alcuni animatori e oratori considerati più radicali, sono solo alcuni degli elementi che il regista britannico decide di svelare dal sommerso della storia, finalmente resi trasparenti e accessibili.

Peterloo è un film contro l’indifferenza del presente, un cinema che esorta alla produzione di pensiero e all’agire politico in un’epoca di diffidenze, speculazioni, populismi. Leigh si getta nell’impresa di creare un film “politico” pur decidendo volutamente di non approfondire mai i personaggi che racconta, restando sulla soglia della storia e limitandosi a incorniciare gli eventi come fossero materiale di repertorio. Un repertorio di immagini mancanti e ricostruite, arricchite dalla pervasività anacronistica di spazi quali fabbriche, campagne, piazze, assemblee, riempite e svuotate da operai, contadini, oratori, un esercito di fantasmi inquadrati, scolasticamente, in campi medi o piani americani. Nell’ultima parte, Leigh decide di cambiare registro, portandoci direttamente dentro il massacro. Riprendendo le cariche della cavalleria in sfocati dettagli dal basso verso l’alto, ci rende ancora più osservatori partecipanti, riducendoci minuscoli e impotenti di fronte a un potere storico che non sembra ancora rovesciabile. Attraverso una secca messa in scena del passato e dei suoi abitanti, Peterloo ci ricorda soprattutto un tempo presente in cui la necessità di prendere posizione “fisicamente” si è fatta, ormai, urgente.

Articolo in collaborazione con la rivista scientifica Cinema e Storia

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Mike Leigh Maxine Peake Rory Kinnear David Bamber Teresa Mahoney 154 minuti
Gran Bretagna 2018
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Che fare quando il mondo è in fiamme?

di Andreina Di Sanzo
Che fare quando il mondo è in fiamme? - recensione film minervini

Nei margini profondi degli Stati Uniti, Roberto Minervini torna a raccontare una realtà differente e, dopo aver folgorato Cannes con Stop the Pounding Heart e Louisiana (The other side), il regista marchigiano arriva in Concorso a Venezia 75 con Che fare quando il mondo è in fiamme?

L’altra faccia dell’America che non smette di soffrire e lottare.
Siamo tra Baton Rouge e Jackson, ancora una volta in Louisiana, dove la maggior parte della popolazione è nera ma nulla impedisce ai bianchi di perpetrare razzismo e odio, mentre le vite fragili e sgretolate di Jenny Hill o dei piccoli Roland e Titus sono accomunate dalla paura costante e da una forte voglia di aggrapparsi alla speranza. Non c’è un inizio e una fine in queste storie che Minervini sceglie di seguire: il flusso di frammenti del presente, momenti intimi, ricordi e il timore di un futuro mai così incerto, sono solo un breve estratto che ci fa intuire qualcosa di più profondo. Un nuovo nucleo di Black Panthers guidato da Krystal Muhammad urla giustizia per Aldo Sterling e Philando Castile, due afroamericani uccisi nel 2016 da poliziotti, episodi che fecero molto discutere e animarono diversi momenti di protesta. La scelta di un bianco e nero raffinato attenua i toni delle tragedie quotidiane, i personaggi che Minervini ci racconta, come la magnetica Jenny e la sua straziante storia di un’infanzia e una giovinezza tra abusi e dipendenze, si pongono come testimonianze reali di un universo di sofferenza che forse cerca solo normalità. Titus e suo fratello devono ogni giorno fare i conti con situazioni pericolose, ovunque, per strada, a scuola, tra gli amici, mentre la madre cerca di indirizzarli verso una strada differente. Differente per quei luoghi, dove il destino sembra segnato per tutti. Il marchio è la razza, il colore della pelle, si cresce con la parola razzismo ben impressa.

Minervini sembra rubare momenti di quotidianità lasciando liberi i suoi personaggi di presentarsi e rappresentarsi. Ma il filtro di un obiettivo addosso è una questione sempre così viva. Jenny di fronte alla camera rappresenta la sua personale tragedia, diventando un’eroina, con i suoi segni e le sue cicatrici, catturata da un occhio che non può essere invisibile e che ci porta a dover riempire di significato le parole di chi vuole solo uscire da quelle gabbie. Filmare il reale non significa necessariamente non ricostruire, il film di Minervini guarda e rappresenta cercando di creare un’apertura verso una riflessione che parte dall’osservazione. I corpi che mettono in scena loro stessi costituiscono già una narrazione.

Se Stop the Pounding Heart ci portava in un mondo perduto, intimo e lontano, Che fare quando il mondo è in fiamme? resta nel nostro di mondo, cercando, ancora una volta, di non imporre nessuno sguardo ma operando per suggerimenti e andando oltre la superficie dell’immagine. Spegnere quelle fiamme per poi rinascere dalle ceneri.

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Roberto Minervini Judy Hill 123 minuti
Italia, Francia, USA, Danimarca, Belgio 2018
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aKasha (The Roundup)

di Domenico Saracino
Akasha  - recensione film

Non è facile guardare con calviniana leggerezza ad un conflitto che riguarda la propria terra, a maggior ragione se si tratta di una guerra civile che, fatta eccezione per brevi periodi di tregua, continua ad infuriare da più di sessant’anni, dopo aver mietuto vittime e causato esodi, a milioni, tra i propri connazionali. Eppure, per tornare a Calvino, basta saper cercare e riconoscere chi, in mezzo all’inferno, inferno non è, e dargli spazio.

In Akasha, primo film in concorso della 33esima Settimana Internazionale della Critica, il regista Hajooj Kuka, quarantaduenne sudanese, fa esattamente questo. Sceglie di dare spazio a Adnan e Absi, due ribelli che alla lotta armata contro il regime di Omar Al-Bashir, alle bombe, alla paura di uccidere e morire, preferiscono le piccole gioie ordinarie della vita nel villaggio, la musica, le relazioni umane, la facoltà di determinare cosa è giusto e cosa non lo è, senza coercizioni, senza ordini, senza violenza. Non soldati o guerriglieri, dunque, ma due individui naturalmente inclini alla giovialità, vittime delle circostanze, decisi a rendere permanente la tregua dal campo di battaglia che la stagione delle piogge ciclicamente concede alle fazioni contrapposte.

Kuka lascia la guerra fuori campo, i suoi personaggi la rifiutano, rifuggono da essa, letteralmente. Per smarcarsi dalla tragedia, del resto, nulla funziona più dello spostamento, del ribaltamento, della traslazione, del mutamento di prospettiva, sguardo, pelle. Per sfuggire al pericolo e all’orrore i due protagonisti maschili di Akasha arrivano a travestirsi da donna, come nel più collaudato degli espedienti drammaturgici del genere comico, da Plauto e Terenzio a Goldoni e Marivaux, fino ai classici della commedia brillante americana (tra i tanti, Ero uno sposo di guerra e A qualcuno piace caldo). Travestimento – in questo caso sessuale – che, tra l’altro, in molte culture definite malamente, fino a qualche decennio fa, “primitive”, veniva considerato un rito fondamentale per il passaggio all’età adulta.

Alla screwball comedy potrebbe essere inoltre ricondotta anche la guerra dei sessi che si instaura tra Adnan e alcune donne del villaggio, a partire dal divertente rapporto spigoloso con Lina, la ragazza che ama e che, a suo dire, vorrebbe sposare, gelosa dei tanti flirt che lo spasimante si concede, compreso quello con il suo kalashnikov rinominato Nancy e cosparso amorevolmente di crema ogni giorno. Scoperto il plurimo amoreggiamento, le ragazze si coalizzano infatti contro di lui, smascherandone spassosamente l’infantile farfalloneria e umiliandolo ancor più di quanto non abbia già fatto autonomamente indossando i loro panni.

Oltre ad essere una riuscita commedia africana, capace di mostrare allo spettatore il lato più luminoso e mirabile del continente nero, dalla strabiliante ricchezza cromatica che caratterizza paesaggi e indumenti alla contagiosa festosità dei suoi figli più degni, Akasha è anche un film capace di osare e sperimentare nuove ibridazioni, nuovi approdi stilistici, grazie all’ausilio del digitale. In un momento di viaggio lisergico, causato dall’ingestione di un fiore psicoattivo, un vividissimo tribale viola – splendidamente artefatto, posticcio – viene sparato dalla grafica computerizzata sul volto di Adnan, che di lì a poco si ritrova a parlare con la sua corolla, anch’essa resa innaturalmente luminosa e vibrante dall’intervento del color grading. È un momento del tutto inatteso, un gesto creativo e magico, coraggioso ed estremo, che di colpo carica di afflato favolistico tutta la narrazione e rivela l’iridescente natura del suo protagonista e del suo autore. È di magie come questa che il cinema ha davvero bisogno.

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Hajooj Kuka Kamal Ramadan Ekram Marcus 78
Sudan, Sudafrica, Qatar, Germania 2018
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Friedkin Uncut

di Matteo Marescalco
Friedkin uncut - recensione film Zippel

Dopo gli ultimi Killer Joe e The Devil and Father Amorth, William Friedkin torna nuovamente al Lido di Venezia. Questa volta non in veste di regista ma di intervistato, nel documentario Friedkin Uncut di Francesco Zippel.

Camicia scura su pantalone beige, il regista di Chicago si muove con piglio deciso nel suo appartamento, mostra alla macchina da presa quadri di Corot, preziosi disegni di Ejzenstejn e stampe giapponesi. Gesù Cristo e Adolf Hitler: sono loro i personaggi da cui Friedkin inizia il suo one-man-show, a sua detta i due personaggi più interessanti della storia dell’umanità, che si sono spinti, nel bene e nel male, oltre ogni limite possibile. Poi preparazione del set in appartamento e tazza di caffè come accompagnamento. Si parte.

Dopo una lunga gavetta in televisione arriva l’occasione giusta con il documentario The People vs. Paul Crump, che racconta la storia di un uomo salvato dalla condanna a morte. Da qui inizia il lavoro di Friedkin per il cinema («Odio chi si considera un artista. Fare cinema è un semplice mestiere, non un’arte»). Vengono ripercorse alcune delle fasi principali della carriera del cineasta che, più di tutti, ha caratterizzato gli anni ’70 e la New Hollywood, incorniciata da Il salario della paura e Cruising e, ovviamente, spaccata da L’esorcista.

Le numerose testimonianze ricordano con estrema attenzione alcuni dettagli che hanno avuto un netto impatto su molti colleghi, da Wes Anderson (per cui è possibile vivere dentro i film di Friedkin) a Walter Hill (che sostiene che L’esorcista è per il genere horror ciò che Star Wars ha rappresentato per la fantascienza), e ancora da Quentin Tarantino (che ricorda le interminabili file davanti ai cinema che proiettavano il film del ’73) agli interventi di Francis Ford Coppola, Philip Kaufman, Damien Chazelle (indicato da Friedkin come il futuro del cinema americano), Juno Temple, Dario Argento e Antonio Monda. Bill è come un vulcano, il suo flusso magmatico è impossibile da arrestare. Si sofferma sul grande amore per il documentario, la cui ansia di verità caratterizzerà tutti i suoi film a venire e sarà centrale anche nel lento prologo “quotidiano” de L’esorcista.

A rievocare una carriera così lunga e importante contribuiscono anche i richiami a Il braccio violento della legge («Se non avessimo girato la scena dell’inseguimento in mezzo ad auto e persone, non avrei restituito l’impressione di una vera New York») e alle polemiche generate da Cruising (girato interamente nel sottobosco omosessuale di New York) e Vivere e morire a Los Angeles. Il racconto autobiografico è alimentato dai suoi ricordi cinematografici giovanili, da quel Quarto potere che lo spinse ad intraprendere la carriera di regista e dall’intervista del 1975 a Fritz Lang, che confessò al regista americano di aver odiato i suoi film del periodo europeo («Ho l’impressione che siano girati da un sonnambulo») e di considerare più riusciti i titoli del periodo americano.

Il maggior pregio del documentario di Zippel risiede proprio nell’estrema accuratezza a tratti ellittica, nella passione che lo anima e nella restituzione di un senso di verità molto fedele al cinema di Friedkin, per cui, prima di ogni cosa, ciò che conta è l’urgenza del racconto, al di là di ogni sfumatura politica. Emerge così una concretezza ed una solidità che sono spesso difficili da trovare dietro l’aura dei grandi miti.

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Francesco Zippel 106 minuti
Italia 2018
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Fratelli nemici - Close Enemies

di Matteo Marescalco
Freres enemies - recensione film

«Ricordi? Abbiamo attaccato la carta da parati insieme. Allora non mi piaceva, adesso mi manca».
Si tratta di una battuta pronunciata da Manuel nel momento in cui ritorna a casa dai genitori, con i quali ha un rapporto conflittuale. Il ragazzo fa parte di una comunità slava in una banlieue parigina che soffoca ogni possibilità di fuga. Le rapine e lo spaccio di droga sono all’ordine del giorno fino a quando la morte per omicidio del suo migliore amico lo spinge a rivolgersi a Driss, un investigatore della narcotici cresciuto nel suo stesso ambiente ma che è riuscito a passare all’altro lato della barricata. Chi è il mandante dell’omicidio? Tra marciapiedi ed appartamenti asfissianti, si consumano le fughe ed i regolamenti di conti di Manuel.

Con un occhio volto ad Heat di Michael Mann e l’altro a I padroni della notte di James Gray, David Oelhoffen plasma il suo Fratelli nemici - Close Enemies immergendo le dinamiche tradizionali del polar in un contesto sociale ed umano che ne arricchisce le sfumature e le fughe emotive. Risulta, a tal proposito, impressionante il contrasto tra la mascolinità ferina e criminale di Manuel nei momenti al cardiopalma e le pause di riflessione che consentono - anche allo spettatore - di tirare il fiato e respirare dopo gli inseguimenti in ambienti ad alveare che opprimono ogni possibilità di futuro. Eppure, qualcosa c’è. Le atmosfere tragiche consentono al film di trovare una sua dimensione emotiva e di registrare alcuni momenti di estrema potenza. Il dialogo tra genitori e figli da cui è stata estrapolata la frase iniziale ne è un esempio. La forza dei desideri e dei legami di un passato che non abbandona mai i suoi personaggi (e non è inopportuno pensare persino alla Boston eastwoodiana) supera le classiche distinzioni di legge e fuorilegge e restituisce un quadro in cui le piccole situazioni private si pongono come tasselli necessari di un mosaico molto più ampio.

Ci si trova davanti ad una gabbia riconoscibile dentro la quale, nonostante gli spazi ristretti, il regista e sceneggiatore riesce a muoversi con ampie falcate, a forzarne la struttura e ad aprire il suo noir al melodramma, dimostrando quanto sia necessaria una struttura di paletti e confini da poter forzare a proprio piacimento. E i sentimenti che hanno a che fare con gli esseri umani emergono, trasformandoli in divinità greche che sentono su di sé il peso di una disfatta inevitabile, illuminati da un controcampo infantile e femminile che, nonostante la parcellizzata presenza, dona speranza e possibilità di redenzione. Fino al finale, in cui l’inquadratura stretta sui due protagonisti si allarga fino ad abbracciare lo skyline di periferia, contenitore che consente ai suoi abitanti di sfiorare la superficie per poi precipitare rovinosamente, nel buio dei loro sensi di colpa e di un passato che è difficile da fugare.

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David Oelhoffen Matthias Schoenaerts Reda Kateb Sabrina Ouazani Nicolas Giraud 111 minuti
Francia 2018
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Suspiria

di Damiano Garofalo
Suspiria di Luca Guadagnino - recensione film

«Libertà per Baader! Libertà per Meinhof!» Con queste urla di un giovane militante tedesco si apre il Suspiria di Luca Guadagnino, variazione sul tema del capolavoro di Argento.

Siamo a Berlino nel 1977, l’annus horribilis della RAF che vede susseguirsi, nel giro di pochi mesi, il sequestro Schleyer, il dirottamento del Boeing Lufthansa di Palma di Maiorca, i “suicidi” a Stammhein di Baader, Ensslin e Raspe. Fin dalle prime sequenze, Guadagnino ci conduce in una Berlino animata dai movimenti studenteschi della “terza generazione”, lacerata dalla lotta armata e dalle politiche repressive di BDR/DDR, tranciata a metà da un ignobile muro di cemento, madida di un pioggia battente che sa di bisogno di purificazione. Rimette in scena il soggetto di Argento e Nicolodi, ambientato e girato sempre nel 1977 a Friburgo.

Questo Suspiria, come ammesso dal stesso regista, non poteva che essere ancora collocato in Germania, nello stesso anno in cui usciva l’altro Suspiria. Ma in un altra città, per rispetto della cosmogonia argentiana. Il lavoro sul contesto, le scenografie, i costumi sono di uno scrupolo quasi viscontiano. Nel ricreare quell’immaginario, Guadagnino procede attraverso la Germania in autunno (1978) degli episodi (soprattutto) di Fassbinder, Kluge e Schlöndorff, scende con Von Trotta negli abissi degli Anni di piombo (1981), rientra dentro le stesse ricostruzioni fassbinderiane dello “spirito del tempo”, come emerge ferocemente proprio ne La terza generazione (1979).
C’è ancora il regista bavarese nel modo in cui Guadagnino riprende il mondo femminile, inquieto e mai riconciliato: confinati nell’ambiente chiuso della Tanz Akademie, i corpi di Dakota Johnson e Mia Goth, ma anche dei tre personaggi (smentiti) di Tilda Swinton, errano tra gli specchi, alla ricerca delle loro viscere, in una danza macabra alla Bausch. La presenza inquietante di Ingrid Caven (Miss Vendegast), attrice feticcio (e brevemente moglie) di Fassbinder, così come quella del fantasma di Jessica Harper, già protagonista del Suspiria di Argento, convalida e (momentaneamente) completa il vasto pantheon di referenze, qui tarate e rinnovate in una forma cinematografica originale, efficace e perturbante.

Il cinema di Guadagnino è, da sempre, un cinema esplicitamente colto, costantemente influenzato nella sua forma aulica dai grandi autori della storia del cinema, soprattutto italiano (Visconti, Bertolucci, Rossellini, Argento), ma anche europeo (abbiamo detto di Fassbinder e dei “tedeschi”) e americano (una vera e propria ossessione per Demme, oggetto della sua tesi di laurea in cinema, a cui questo film è dedicato). Nel suo Suspiria, tuttavia, il regista individua un percorso di ricerca alternativo, distruggendo il monumento-Argento e ricomponendo con aggiunte, supplementi, variazioni l’unico rifacimento possibile, dove i rimandi all’antenato del 1977 sono distillati, con rispetto, in un nuovo, ambizioso iper-testo (si vedano anche le velate ed eleganti referenze della colonna sonora di Thom Yorke ai Goblin di Simonetti). La sceneggiatura di David Kajganich, in aggiunta, complica la scarna ed essenziale storia di Argento-Nicolodi, introducendo elementi storici, teorici, filosofici, psicanalitici (Lacan citato esplicitamente), alcuni dei quali presi in prestito direttamente dal residuo dell’universo argentiano.

L’ambizione di Guadagnino è duplice: rileggere, da un lato, la storia della Germania e dell’Europa contemporanea come una lunga pratica stregonica, utilizzando metaforicamente le famigerate “tre madri” di De Quincey; dall’altro, utilizzare la Storia per illuminare e risignificare il nascosto, il celato, l’occulto del primo Suspiria. In quest’ottica, Guadagnino e Kajganich riamalgamano l’ordine delle tre madri: Mater Tenebrarum qui è la madre più vecchia, rappresenta la prima fase storica in cui il male ha avuto origine, il Terzo Reich, e la guerra devastante con cui il mondo è stato condotto nelle tenebre; la seconda madre, Mater Lacrimarum, è la fase del dopoguerra, della ricostruzione, delle macerie e delle lacrime versate per le decine di milioni di morti; Mater Suspiriorum, l’ultima, è la terza madre, che è anche la terza generazione fassbinderiana, quella dei giovani arrabbiati del ’77, i nipoti della generazione del Reich costretti a fare i conti con le colpe degli avi, ad elaborare i lutti e le vergogne del passato per potersi protendere, con un lungo e agognato sospiro, verso il futuro. La vera protagonista del film, Susie, è la terza madre/generazione che, appena arrivata dall’Ohio, diventa l’étoile della Tanz. Dopo vari flashback, ricordi, reminiscenze infantili, Susie è pronta per immergersi nelle tenebre e scendere verso l’inferno: deve espiare le colpe della prima madre, compiendo un vero e proprio matricidio ai danni di Elena Markos, in un lunghissimo e sconvolgente sabba in rosso-Tovoli che trasforma l’ultimo capitolo in un horror B-movie alla Fulci. Solo così, la terza generazione può liberarsi dalle colpe della prima, uccidendo metaforicamente l’origine del male, il Reich/Markos, senza alcuna mediazione possibile (si vedano i vari tentativi di “salvare” Susie di Madame Blanc, la seconda madre, così come la sua stessa morte).

Congiunzione drammaturgica tra Terzo Reich e stregoneria, Virgilio nel nostro rito di passaggio tra inferno e purgatorio, chiave metaforica essenziale per individuare il sistema di stratificazioni in cui è strutturato il film, il vecchio psichiatra Klemperer (unico personaggio maschile, interpretato da un misterioso Lutz Ebersdorf, probabilmente pseudonimo di Tilda Swinton), ex-nazista tormentato per non aver salvato la moglie non-ariana dalla morte nel campo di Terezin, si mette sulle tracce delle origini del male dentro e attorno la Tanz, forse col fine ideale di ricongiungersi all’amata. Dopo il sabba di sangue cui egli partecipa inerme e sopravvive, Suspiria accorre al suo capezzale, perdonando tutte le colpe del passato e cancellando dalla sua memoria i ricordi che, sotto forma di donne, madri, lo tormentano da anni. Abbiamo bisogno del senso di colpa, ricorda la terza generazione alla prima, così come abbiamo bisogno di continuare a provare vergogna. Guadagnino conclude così il suo film più complesso, ambizioso e teorico, prendendosi dei rischi, azzardando e giocando sempre sul filo del rasoio, rispettando ma ricostruendo interamente il Suspiria della prima generazione, creando immagini che vivono, lacrimano, sospirano, scendono e risalgono dalle tenebre.

Articolo in collaborazione con la rivista scientifica Cinema e Storia

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Luca Guadagnino Dakota Johnson Tilda Swinton Chloë Grace Moretz Mia Goth Jessica Harper Ingrid Caven 152
Italia, USA 2018
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