Final Space

di Alessandro Gaudiano
Final Space - recensione serie tv

Come accade spesso nell'ambito dell'estetica, la bellezza di Final Space è una questione di forme e di equilibrio. La serie di Olan Rogers e David Sacks è un tessuto di avventura e comicità metalinguistica, citazioni e colpi di scena, capace di muoversi con sorprendente agilità tra generi e registri, ed è in questo movimento che Final Space trova la propria identità e il proprio fascino.

L'eroe di Final Space è Gary, giovane e spaccone, condannato a scontare anni di isolamento e prigionia a bordo di una nave spaziale a causa di un incidente. Oltre a Gary, l'astronave è popolata da robot e intelligenze artificiali come HUE (un Hal-9000 a metà tra il carceriere e l'amico paziente) e KVN, compagno robotico la cui funzione di interazione sociale, che dovrebbe impedire a Gary di impazzire del tutto, è svolta con insopportabile zelo. La continuità ripetitiva delle giornate a bordo della nave si interrompe a causa di un incidente che porta Gary a incontrare una misteriosa creatura. Presto, risulta chiaro che la creatura è tutt'altro che innocua e che il temibile e malvagio Lord Commander è disposto a tutto pur di ottenerla.

Dopo alcune puntate di introduzione, la serie trova il proprio ritmo ideale e si mostra come un prodotto di grande qualità tecnica e narrativa, la cui scommessa si fa sempre più rischiosa nel corso della stagione. I primi episodi introducono i personaggi e raccontano quella che pare essere una storia semplice, poco più che una impalcatura per reggere battute e scene comiche. L'intento comico e parodistico non scompare, ma la storia di Final Space si espande e si definisce fino a diventare una space opera vera e propria. L'universo della serie è popolato di personaggi memorabili, scorci di sublime e scrittura drammatica che, contro ogni previsione, funziona quasi senza intoppi. Buona parte del merito è da attribuire ai personaggi, le cui personalità generano dinamiche e archi narrativi sempre interessanti. Quasi tutti i protagonisti di questa storia sono doppiati da voci di alto livello, tra cui segnaliamo David Tennant che presta la voce all'antagonista principale.

Difficile non pensare alla squadra dei Guardiani della Galassia: quell'alchimia di eroismo e fragilità, famigliare ed alieno, sulla cui costruzione la serie investe buona parte del suo minutaggio. La storia principale e la missione per salvare l'universo da Lord Commander è ben costruita, ma è Gary e, soprattutto, il suo equipaggio a dare vita ad una serie che, altrimenti, risulterebbe priva di ragion d'essere. Oltre ai Guardiani, i riferimenti più ovvi sono a Futurama e alla Guida Galattica per autostoppisti, ai loro freaks e protagonisti stralunati: KVN, ad esempio, sembra un improbabile incrocio tra Zoidberg e Bender. Queste dinamiche comiche in un contesto di fantascienza sono ben dosate e supportano lo svolgimento narrativo della serie; entrambe ne escono rafforzate. Il ridicolo e buffo corteggiamento di Gary nei confronti di Quinn, o il suo bromance con il mercenario spaziale Avocato, sono ottimi esempi di scrittura comica che sa trovare il proprio spazio all'interno di un genere epico ed avventuroso, senza trasformarlo in una farsa fine a se stessa e priva di solidità. La posta in gioco è alta, ed ogni risata porta con sé la sottile malinconia di una fine imminente.

Colpisce, soprattutto, la precisione con cui Final Space sa dosare comicità e dramma. La serie omaggia le saghe epiche e di avventura spaziale a cui si ispira, emulandole a livello molto profondo, fino al momento in cui decide, senza preavviso, di sparigliare le carte e cogliere le aspettative dello spettatore in fallo. Quasi sempre, il gambetto funziona. Quando la comicità cade, il silenzio e il dramma ne escono amplificati; quando la maschera di sicurezza e di mascolinità di Gary si incrina, la serie sa porre domande interessanti e inquadra la figura mitica dell'Eroe sotto uno sguardo tutt'altro che banale o lusinghiero.

Final Space è intrattenimento intelligente e di qualità, in equilibrio tra idee e generi  diversi. Una scommessa produttiva e creativa: molte delle scelte compiute a livello narrativo e realizzativo sono nette, irrevocabili, tutt'altro che scontate. Consideriamo la scommessa vinta e, nell'attesa di una seconda stagione che è già in produzione, non possiamo che consigliarne la visione.

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Bullet Ballet

di Carlo Valeri
Bullet-Ballet recensione film tsukamoto

Se c’è una My Generation nella filmografia di Shin'ya Tsukamoto quella è Bullet Ballet. È il primo titolo in cui l’alienazione postmoderna del cineasta giapponese si espande a una dimensione condivisa, collettiva. La rivolta è un grido strozzato, ma anche una corsa automatizzata inarrestabile – quella finale dell’uomo o della donna è emblematica – che sancisce l’unica possibilità di una fuga/liberazione. La solitudine del singolo diventa una pluralità di solitudini e bastano poche sequenze per capire che qui la storia di Goda si allinea con quella di Chisato, Goto e dei vari membri della gang di tossici con cui il personaggio principale entra in contatto. Il fatto che quest’ultimo sia un videomaker, autore di spot televisivi, aumenta poi la portata autobiografica dell’operazione.

Bullet Ballet inizia come elaborazione di un lutto. Quello di Goda, la cui compagna si suicida con un colpo di pistola che non vediamo. Il giovane presto si fissa nell’idea di possedere un’arma da fuoco. Le sue incursioni notturne incrociano gangster e bande giovanili. In una di queste c’è appunto Chisato, una giovane punk drogata, anch’essa ossessionata dalla morte. La pistola alla lunga diventa un oggetto conteso da tutti. Quasi uno status quo. Un segno simbolico potente di cui la violenza è la caratteristica drammaturgica esemplare ma certamente non l’unica. Nell’arma da fuoco si mescolano quasi tre tipi diversi di feticismo: cinefilo, psicologico e fallocentrico. Perché Goda, che lavora con le immagini, è tormentato dal possedere una pistola? Vuole uccidere, vuole comprendere la morte o vuole semplicemente possedere l’oggetto di un preciso immaginario? La sua è l’espressione di una soggettività alienata o la simulazione di una soggettività alienata?

Tra le due dimensioni non c’è più alcuna differenza ed è questa la dolente confessione del film. Siamo tutti figli della pop (o punk) culture, sembra ammettere Tsukamoto, che qui usa il desiderio (della) pistola proprio per materializzare il disorientamento post-capitalista di chiunque sia nato dagli anni 60 in poi. Non è un caso che il protagonista nel suo appartamento spari allo specchio, si tagli il braccio e si eserciti come un (post)moderno Travis Bickle, e nemmeno che la carneficina di Taxi Driver sia quasi una sorta di bozza su cui dipanare, nella sparatoria di Bullet Ballet, frammenti di set, le traiettorie dei corpi e delle pallottole. Ma non sono vere e proprie citazioni. Il cinema di Tsukamoto è troppo radicalmente inventato per ricorrere a esse. Piuttosto tracce. Imprinting biologici di un’umanità che cerca il proprio equilibrio tra gli schermi e il reale.

Anche per questo è un’opera sull’ossessione e sulla dipendenza il quarto titolo realizzato e interpretato da Tsukamoto. E racconta la depressione di una generazione, quella del cineasta e dei personaggi raccontati, composta da tossici/video-dipendenti. Ovviamente non c’è alcuna forma di prospettiva ideologica o moralistica nel film. Come sempre avviene, l’autore di A Snake of June plasma cinematograficamente un’apocalisse dell’essere umano che al tramonto del XX secolo – il film è datato 1998 – è ampiamente assorbita nell’inconscio collettivo ma non in quello estetico. Pazzesco eh.
Eppure ogni film di Tsukamoto nasce e muore nei codici di un terribile e magnifico paradosso: arriva troppo presto per il cinema e troppo tardi per l’uomo. I suoi sono incubi di carne, acciaio e fotogrammi (in bianco e nero) che vanno troppo veloci per il mondo delle immagini e lo superano, scardinano i linguaggi, ma che si rivelano quasi lucidamente inermi e obiettivi di fronte ai destini già consumati dell’essere umano. Tsukamoto produce documentari cyberpunk. E Bullet Ballet lo è più di tutti gli altri. L’unica cosa che resta da fare a questa generazione di figli senza ideali ma bombardati dalle immagini è allora flirtare con la morte. E qui risiede anche il definitivo riscatto del cinema di questo autore, il cui obiettivo non è (mai) la salvezza ma la sopravvivenza attraverso la percezione. Che sia attraverso un colpo di proiettile, il sangue, l’eroina o la fusione in un nuovo corpo tecnologico, il fine ultimo è il sentire. Se sentiamo siamo ancora vivi. E se diventeremo macchine in perpetuo movimento capaci di sentire qualcosa, avremo, comunque, un futuro.

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Shin'ya Tsukamoto Shin'ya Tsukamoto Kirina Mano Hisashi Igawa Kyoka Suzuki Tatsuya Nakamura 87 minuti
Giappone 1998
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Halloween III - Il signore della notte

di Pietro Lafiandra
Halloween III - Il signore del male - recensione film

Non è facile approcciarsi in maniera oggettiva a quelle pellicole che, flop per la critica, acquistano la nomea di film cult nel corso del tempo. È ancora più difficile farlo oggi, quando sembra non esserci via d’uscita dallo schema per cui vintage e qualità andrebbero di pari passo, un’equazione esasperata quando la data di uscita del film è compresa tra la fine degli Anni ’70 e gli ultimi ’80. Questo perché il culto, che sia cinematografico, musicale, letterario, cova nelle nicchie che lo praticano una componente fanatica e idealistica. Nel momento in cui ci si trova di fronte, quindi, a quei film a basso budget che sono stati eletti dalla cinefilia feticista a capolavori splatter incompresi, si ha paura di ripercorrere lo schema Mario Bava (la cui fama odierna si deve non certo alla critica quanto a registi stranieri come Nicolas Winding Refn, Quentin Tarantino, Tim Burton) ed essere per ciò additati come critici “parrucconi” e “reazionari”, incapaci di trovare godimento nel trash o nell’horror di genere.

Halloween III - Il signore della notte (1982), secondo sequel dell’Halloween di John Carpenter, è uno di quei prodotti. Non perché il film diretto da Tommy Lee Wallace sia privo di un’idea estetica o del fascino dark che contraddistingue gran parte degli horror del periodo (lo si vede già dalla grafica dei bellissimi titoli di testa), tutt’altro, proprio perché quest’idea estetica sembra un patchwork del cinema di Carpenter (il suo sound design, le sue colonne sonore, i suoi colori al neon) tradotta, però, in un film non di Carpenter, qui nelle semplici vesti di produttore.

E’ ben chiara la provenienza delle fobie, delle idiosincrasie, dei temi tratti dal film, perché sono le stesse e gli stessi che segnano l’intera opera del regista di Carthage: il rapporto tra consumismo e media (Essi vivono), le paure della provincia statunitense (The Fog, Il villaggio dei dannati), la potenziale violenza del macchinico (Christine - La macchina infernale). Ciò che non è chiaro è come queste convergano nella trama principale, facendo sì che si appiccichino alla pellicola le definizioni di sequel, slasher, film di fantascienza, senza che Wallace riesca né ad abbracciarne una né a riunirle e condurle tutte in una direzione ben precisa.

Dal momento quindi che Halloween III è un film Carpenter-non Carpenter, il suo statuto resta, anche a distanza di anni, ambiguo. Da un lato fallisce nell’incapacità di ibridarsi, di trovare una forma in grado di unire la visione del suo padre putativo e il tentativo di rinnovare lo schema proposto nei due capitoli precedenti, eliminando Michael Myers dalla trama. Dall’altro, ma questo può essere detto solo attraverso gli occhi di chi guarda con nostalgia alle dinamiche e alle atmosfere dell’opera di Carpenter, mantiene sempre l’indiscutibile fascino del gioco orrifico ideato e costruito su un’estetica, questa sì, ben delineata.

La sensazione di dejavù è però troppo forte per giudicare il film come monolite, cosa a cui la sua struttura inviterebbe dal momento che Halloween III, come si diceva, è l’unico film della saga a non avere una trama inerente o anche solo vicina alla storia di Michael Myers (il che, tra l’altro, suscitò polemiche attorno al suo inserimento come terzo capitolo).

E’ più interessante piuttosto spiegare il film— e spiegarselo — come prodotto (auto)citazionista (lo stesso Halloween viene trasmesso come trailer su un televisore) che ha l’incredibile merito di provare ad espandere un universo narrativo, inserendovi nuove trame e subplot, prima ancora che i sequel diventassero prassi del mercato cinematografico statunitense. Una considerazione che può però essere fatta solo retrospettivamente, il che scagiona una critica che, negli anni Ottanta, accolse polemicamente il film di Wallace, regalandogli così la possibilità di una rivalutazione postuma.

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Tommy Lee Wallace Dan O'Herlihy Tom Atkins Stacey Nelkin 96 minuti
USA 1983
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Tokyo Fist

di Leonardo Gregorio
Tokyo Fist - recensione film Tsukamoto

È il suo quarto lungometraggio. Ancora a scalfire le false sicurezze del reale, a rovesciarne i sensi, le sue ottuse proprietà, per far così emergere nuovi spazi identitari, un visibile assurdamente ribaltato, e quasi, qui – in un parassitario eppure stringente paradosso – comicizzato. Anche se non fa ridere, anche se innestato in un dispiegamento parahorror. Perché tra le premesse, più teoriche che drammaturgiche, alla base di Tokyo Fist di Shin'ya Tsukamoto c’è ancora un’ossessione, come sempre nel cinema dell’autore giapponese, persona notoriamente pacata e gentile e artista di violento furore immaginativo.

L’ossessione, qui, dei fratelli Tsukamoto,  Shin'ya e  Kôji, per una madre che sullo schermo perde però connotazioni autobiografiche e rispecchiamenti immediati e si trasforma in qualcos’altro: il regista, così, è l’interprete di Tsuda, assicuratore dalla vita piatta e priva di gioia, elementi che caratterizzano anche la relazione e la convivenza con la conciliante Hizuru (Kaori Fujii). La loro storia, che è il loro stare al mondo, viene stravolta da Kojima (Kôji Tsukamoto), ex compagno di scuola di Tsuda e boxeur semiprofessionista. I due uomini si incontrano casualmente dopo molti anni, dopo una promessa di gioventù che il primo non ha poi mantenuto mentre l’altro sì. Il motivo, all’epoca, era una donna e si rinnova oggi, anzi si ibrida, nella figura di Hizuru.

Questo Tokyo Fist non è lontano dal mostruoso di Tetsuo; ne è, se vogliamo, la maschera, la superficie ridicola, lo stato primario, un’ontologia e un’antologia drammaticamente dileggiate. È novecentesca l’alienazione di Tsuda, non potrebbe essere mai la stessa nel 2018; è prossima, piuttosto, al comico muto, quello contro l’ordine costituito e precostituito, ma non può essere giocosa, attiva, marionettistica, non può essere azione, performance, silenzio ed effetto, caos di un fantastico e di un irreale che si fanno beffa delle gerarchie e – anche magari solo temporaneamente – le sovvertono; non può essere improbabile, “sovrumana”, invincibile, non può essere immortale. Per questo, la violenza sul corpo, inflitta e autoinflitta,  l’apparente gratuità, l’insensatezza di ogni gesto dei personaggi (dai tatuaggi ai piercing coi quali Hizuru, dopo il primo incontro amoroso con Kojima, comincia a plasmare una nuova sé, una nuova soggettività, agli allenamenti e ai combattimenti del nuovo Tsuda e di Kojima, i volti gonfi e sanguinanti), per questo, dicevamo, tutto ciò è sempre, in realtà, un dislocamento di senso, è una riscrittura del senso comune, un suo riversamento allucinato, una riscrittura politica delle forme concrete e del simbolico, del potere e dei ruoli (dell’Uomo e della Donna). Tsuda e Kojima sono in fondo diversissimi ma speculari, limitati, anzi delimitati, mentre la dinamo del desiderio, dell’effrazione, del capovolgimento sensoriale, sessuale, sociale, ideologico, appartiene tutta alla figura della donna, a Hizuru (progressivamente più bella e autonoma, imprendibile e incomprensibile nel suo sconvolgimento fisico).

È un saggio su un Paese, una cultura, un mondo, sul Giappone? Sì, come lo sono oggi, da tutt’altra prospettiva e autorialità, ad esempio, Un affare di famiglia di Kore'eda o, agli antipodi, la fantasia pop dell’Isola dei cani dello straniero Wes Anderson. È un film di un autore sul (suo) cinema? Sì, come sarebbe stato, anni dopo, mettiamo, il Cut del Naderi “giapponese” (bisogna cercare nello spazio tra il volto tumefatto del protagonista – nella finzione, un filmmaker – del regista iraniano e quello quasi ridotto alle sembianze di pupazzo idiota di Tsuda/Shin’ya Tsukamoto dopo la “lotta” – ma è forse l’unico amplesso che possono ancora possedere, che può ancora possederli – con Hizuru). È una messa in scena ripetitiva, espressionistica, “viziata”, che elimina il tragico, addizionando incompiutezze, sbandamenti stilistici, un’anarchica ma consapevolmente chiara riproducibilità di significanti e significanti, sangue che fiotta e solitudini violente. Il cineasta azzera i punti-limite, scrive, produce, realizza, monta, interpreta, allestisce il reale che opprime lo Tsukamoto uomo e “droga” l’artista. Tokyo Fist è sguardo politico, meccanismo comico, un documentario horror, un film che sa essere incredibilmente feroce e umanista, e dove, accanto a Cronenberg, potremmo perfino immaginare un remix tossico, folle, tra Tex Avery e Rocky Balboa.

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Shin'ya Tsukamoto Shin'ya Tsukamoto Kaori Fujii Kôji Tsukamoto 87 minuti
Giappone 1995
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Process

di Giovanni Bottiglieri
Process - recensione film Sergei Loznitsa

Il gelo moscovita dei primi fotogrammi di Process, il film di Sergei Loznitsa visto Fuori Concorso a Venezia 75, racchiude un’interessante chiave interpretativa. Il tratto principale di questo film, costituito esclusivamente di materiale d’archivio, è la sua rielaborazione autoriale, un’espressione registica che non avviene attraverso il montaggio o aggiunte sceniche (escluso il commento del regista alla fine del film), bensì grazie alla scelta di impiegare, appunto, soltanto materiale preesistente. Questa scelta assume un valore particolarmente significativo se si considera il contesto nel quale tale visione viene poi collocata: non solo la Mostra, ma la cultura diffusa nel suo insieme, dove l’archivio ricopre un ruolo sempre più centrale nella costruzione degli immaginari storici contemporanei.

La panoramica sull’Unione Sovietica della metà degli anni Trenta, attraverso questo particolare processo, chiarifica il punto di vista di Loznitsa sulla questione della rappresentazione del regime comunista. Le autentiche immagini di un autentico falso hanno per oggetto il primo grande processo contro i nemici (immaginari) del regime sovietico. Joseph Stalin utilizzò la strategia preventivo-punitiva per scoraggiare qualunque sovversione del potere, e architettò un processo a un gruppo di economisti e ingegneri accusati, senza il sostegno di reali prove, di cospirare nei confronti dell’U.R.S.S. con la complicità dell’allora Primo Ministro francese Raymond Poincaré. Al capitalismo si attribuiva la causa ideologica, che si traduceva nella pena capitale inflitta agli imputati.

Recepito ad oggi, Process, in quanto messa in scena sia politica che storica, coinvolge i regimi di verità e menzogna. La registrazione filmata del processo infatti fu concepita dal governo sovietico come uno strumento di gestione politica del discorso pubblico. Loznitsa, di contro, fa emergere oggi la spiccata qualità cinematografica di questo documento filmato, che assume i caratteri di una finzione narrativa in grado di mostrare il gelo della burocrazia di regime e il perseguimento di obiettivi politici sovrumani. La propaganda è ancora una volta una chiave di lettura utilissima al fine di interpretare i passati accadimenti e, insieme, leggere il complesso sistema di informazioni che provengono dal mondo contemporaneo. Di conseguenza le immagini di Process godono di una potenza connessa all’intellegibilità di una necessaria coscienza critica. Sembra proprio in questo risiedere la proposta teorica di Loznitsa, che agisce prima di tutto come intellettuale operando materialmente sul recupero filologico della testimonianza audiovisiva. Si tratta pur sempre di un atto simbolico, ma capace di generare quel pensiero critico che, negli esiti, coniugherebbe gli accadimenti storici con uno specifico modo di interpretare il presente e il futuro.

Articolo edito in collaborazione con la rivista scientifica Cinema e Storia

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Sergei Loznitsa 125 minuti
Paesi Bassi 2018
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Fahrenheit 451

di Leonardo Strano
Fahrenheit-451 recensione film hbo

Fare cinema significa spesso impaginare, visualizzare un’idea di mondo. Nel perimetro espressivo di un certo cinema di genere (e in particolare di un certo tipo di fantascienza distopica), tuttavia, fare cinema significa anche e soprattutto immaginare un’idea di mondo: formulare geometrie  (politiche, sociali ed economiche) dotate di carica finzionale di sussistente credibilità, fare world building narrativo all’interno del piano regolatore della sospensione dell’incredulità e quindi pensare architetture narrative coordinate per formare grandi e “completi” complessi architettonici. Non è un caso che molte delle produzioni di genere fantascientifico abbiano disatteso ambizioni contenutistiche proprio per colpa di basilari difetti strutturali. Quest’ultimo adattamento cinematografico di Fahrenheit 451 prodotto da HBO Films non è che l’ultima prova di ciò che succede a una narrativa cinematografica di fantascienza quando tutte le forze creative sono tese alla costruzione di un impianto d’ambientazione dettagliato e questo impianto non si dimostra abbastanza solido per reggere il peso di una minima crepa di senso, capace di allargarsi divorando l’edificio intero.

Nel caso del film diretto Ramin Bahrani (che firma la sceneggiatura assieme ad Amir Naderi, come già fatto per il più riuscito 99 Homes) il problema risiede nell’assenza di credibilità insita in due scelte di base: raccontare e ricreare nei dettagli il mondo immaginato nel 1953 da Ray Bradbury, trasportandolo però in un futuro prossimo rispetto ai nostri giorni, e allo stesso tempo ignorare le modifiche apportate dalla contemporaneità ai media protagonisti della narrazione originale. Il film soffre sia perché non riesce a comprimere in un minutaggio contenuto un immaginario dal respiro molto ampio, sia perché aggiorna cronologicamente questo immaginario senza tenere conto delle evoluzioni del presente: la tecnologia ha da molto superato l’immaginazione contenuta in un certo tipo di fantascienza, la realtà ha doppiato la finzione con l’agilità e l’inventiva di un’innovazione tecnologica che, invece di portare all’eliminazione fisica dei libri in favore dei mass media, ha trasformato il fuoco distruttore in elettricità eco-friendly, l’incendio delle salamandre in cortocircuito su schermo, il divampare spigoloso delle tirannie in un contatto digitale liquido, morbido e apparentemente innocuo.

Troncato da un format incongruente con la complessità “cosmologica” desiderata, e distorto dal ridimensionamento della lungimiranza profetica della fantascienza ad opera del cambio dei supporti (da cartacei a digitali) e della loro fruizione, Fahrenheit 451 impiega così molte delle sue cartucce (e metà del suo minutaggio) per presentarci una realtà che smette di essere interessante fin dai primi minuti. Il palco di una Cleveland fatta di grattacieli con proiezioni interattive dominata da un inedito social dal controllo totale (chiamato The Nine) non è che un fondale derivativo, un arredamento di maniera; l’azione narrativa gira invece a vuoto, lungo un arco esplorativo che trova nei grandangoli a 360° e nella descrizione dei device distopici i canali per ottenere la tridimensionalità del quadro generale ma non delle individualità caratteriali dei personaggi: la somma delle due cose è un risultato dannoso e qualitativamente insufficiente che punta tutto su atmosfere ormai normalizzate (dalla realtà, oltre che da racconti precedenti e più brillanti) e niente sul vero nucleo tematico: l’importanza della parola, della scelta, del libero pensiero, di quella attività intellettuale eterogenea che è fuoco che combatte fuoco.

La debolezza contenutistica di un mondo inventato che nell’allineamento con la contemporaneità perde fascino e forza espressiva, acquistando un paradossale anacronismo è la ecisiva per il crollo di un sistema strutturale immaginato con pietre angolari deformi. Crollo dopo cui non rimane niente: nessuna valida psicologia dei personaggi, nessun percorso narrativo forte, nessuna tematica importante. Imprigionati in un mondo senza storia e appiattiti su un racconto poco chiaro nelle svolte e nei messaggi, i protagonisti – a cui neanche gli attori (Michael B. Jordan, Michael Shannon, Sofia Boutella) riescono a dare peso – si dimostrano automi che agiscono secondo intenzioni monodimensionali e non alfieri di una rivoluzione contro il potere dei mass media e dell’ignoranza controllata, non il perno di una narrazione umanistica e ribelle.

Mangiato da ambizioni fuori misura e reso piccolo come la fiamma di un fiammifero, Fahrenheit 451 risulta così annullato da sé stesso, svuotato dalle sue intenzioni costruttive fino al punto da perdere anche qualsiasi carica emotiva o patrimonio concettuale che poteva ereditare dal capolavoro da cui è tratto. Alla fine niente di più che un prodotto dimenticabile in cui non si salva nulla, se non la voglia di recuperare in fretta la sua versione letteraria originale.

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Ramin Bahrani Michael B. Jordan Michael Shannon Sofia Boutella 101 minuti
USA 2018
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Castle Rock

di Mattia Caruso
castler rock - recensione serie tv

In principio è stato il prodotto non kinghiano più kinghiano di tutti, Stranger Things, con le sue atmosfere e il suo sapiente citazionismo, ad aprire le porte a un nuovo modo di concepire e portare sullo schermo (anche) l'opera del Re del Brivido. Poi ci hanno pensato prodotti apparentemente innocui come Il gioco di Gerald e, in minor misura, 1922 (ancora una volta produzioni Netflix) a confermare definitivamente che quella tendenza poteva diventare anche esplicita, dettando un nuovo corso per gli adattamenti cinematografici e televisivi a venire.

È tra queste due esperienze – l'omaggio evocativo e la trasposizione fedele – che si colloca un prodotto rivoluzionario (almeno negli intenti iniziali) come Castle Rock, serie prodotta da J.J. Abrams e dallo stesso Stephen King e ambientata proprio nell'iconico universo narrativo di quest'ultimo. Perché, nel nuovo titolo di punta della piattaforma statunitense di streaming Hulu, c'è proprio quel mondo fatto di luoghi, atmosfere e orrori familiari tipico dell'autore del Maine, declinato, però, in una storia originale popolata da nuovi volti, nuove situazioni, nuovi misteri.

È così che, a luoghi e personaggi entrati oramai a pieno titolo nell'immaginario collettivo (la stessa fittizia cittadina di Castle Rock e tutti i rimandi, letterari e cinematografici, che si porta appresso), si affianca una vicenda inedita fatta di ragazzini scomparsi, detenuti misteriosi e altre dimensioni.  Non è certo un caso, d'altronde, che, nei suoi deliri temporali mano a mano sempre più ingombranti, la serie cominci proprio in quel 1991 in cui era ambientato Cose preziose, il romanzo che doveva essere, almeno fino ad ora, “l'ultima storia di Castle Rock”.

È proprio da qui, infatti, che il mondo di King (ri)prende vita sullo schermo, un ritorno a casa assicurato soprattutto dallo sguardo che la serie si porta dietro e dalle infinite possibilità che il suo universo fantastico parrebbe garantirle. Sì perché il condizionale è d'obbligo in una storia che, ben presto – vuoi per i suoi misteri sempre più ambigui e intricati, vuoi per l'apporto di un produttore che proprio sui misteri, la suspense e il rompicapo labirintico e, in definitiva, confusionario ha costruito, da Lost in poi, la sua carriera – accanto ai suoi innegabili pregi, comincia, episodio dopo episodio, a mostrare i suoi difetti, tra dubbi, cali di tensione e confusionarie teorie multidimensionali. E se, da una parte, questo non basta a negare a Castle Rock l'indubbio fascino di un'operazione filologica capace di omaggi e strizzate d'occhio a un intero mondo di appassionati (dai riferimenti diretti a opere precedenti all'uso di attori “kinghiani” come Sissy Spacek e Bill Skasgard), dall'altra porta con sé il sentore dell'occasione mancata, del tentativo, almeno in parte fallito, di fare della serie un vero e proprio nuovo tassello nell'immenso corpus dell'autore di Carrie e It.

Tra Lost e Twin Peaks, tra riferimenti  a Cujo, La zona morta e Shining, Castle Rock resta un oggetto strano, che non attrae né respinge, capace di costruire momenti di grande intensità e lirismo (l'episodio The Queen, dove il disvelamento del passato passa attraverso il caos percettivo dell'Alzheimer) ma anche di incappare in cadute di stile tutt'altro che felici (il ritmo altalenante e lo sviluppo incerto e poco approfondito di alcuni episodi di raccordo). Il risultato complessivo è un passo falso, certo, ma comunque significativo e necessario per il futuro di un filone comunque mai così attento (e rispettoso) nei confronti dell'universo letterario da cui è scaturito.

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Tetsuo II: Body Hammer

di Alessandro Gaudiano
Tetsuo II - body hammer recensione film tsukamoto

Dopo la parentesi di Hiruko The Goblin, opera vivacemente iconoclasta pensata per un pubblico più generalista, Shin'ya Tsukamoto ritorna alla figura di Tetsuo con l'urgenza di un poeta dai cui occhi sgorgano nuove, torbide visioni di un presente in mostruosa trasformazione verso un futuro disumano, o sovrumano. La pura visionarietà autoriale e i limiti di budget del capolavoro del 1989 si innestano in un nuovo corpo, produttivamente più ingombrante, in dialogo più serrato con le logiche ed estetiche del cinema di genere: Tetsuo II – Body Hammer, più che un sequel, è una variazione sul tema, una visione allargata.

Protagonista di Body Hammer è un impiegato, Tomoo Taniguchi (Tomorowo Taguchi), vittima di un esperimento per creare degli ibridi tra umano e arma. Il figlio di Tomoo viene rapito per accendere la rabbia del padre, necessaria alla trasformazione, ma la sua furia si scopre incontrollabile e con origini ben lontane e radicate.
Su questo spartito, tutto sommato semplice e convenzionale, Tsukamoto proietta i suoi fantasmi e costruisce un'opera indisciplinata e sospesa tra mille generi ed estetiche, non meno difficile da classificare del primo Tetsuo.

Per comprendere Tetsuo II è il caso di allontanarsi da Tomoo e dalla storia inscritta sulla superficie del film, per addentrarsi nel suo paesaggio. La vera protagonista è Tokyo, città-formicaio dove l'uomo si muove come un insetto, produce e accumula rovine ai suoi piedi. A svettare e dominare le inquadrature di Body Hammer sono i grattacieli, spesso inquadrati di sbieco e incombenti sugli uomini. Un altro vocabolo di questa grammatica urbana è la fabbrica, il capannone, il ventre di metallo che non sembra partorire altro che pezzi di ferro e protesi per un'umanità ormai perduta. Abbiamo poi le mura domestiche, qui meno predominanti rispetto al primo capitolo, ma sempre decisive: è qui che si svela il dramma di una coppia, ed è qui che le colpe dei padri ricadono sui figli. Infine, abbiamo i luoghi del consumo: la crisi che dà origine alla ribellione del corpo di Tomoo ha luogo in un centro commerciale (gli zombie di Romero sono tornati al lavoro), dove il figlio viene rapito e il suo corpo infettato, almeno in apparenza, con un agente mutageno. L'agente si rivelerà del tutto superfluo: la ribellione era già presente nel corpo, e la trasformazione di un impiegato senza qualità in una rabbiosa fusione di carne e metallo era solo questione di tempo e stimoli adeguati.

Tokyo, la città, l'acciaio che dimentica l'uomo: l'intera trilogia  di Tetsuo è una cacofonia della città, dove alla voce univoca della poesia si sostituisce il ruggito delle macchine e lo stridìo di motori e ingranaggi. Non a caso, la capitale sembra assai povera di parchi e di natura, di curve naturali, persino di nuvole. Body Hammer è il luogo dove questa poetica urbana trova l'espressione più esplicita e palpabile. La città non si "risveglia", non si apre in accurato moto di ingranaggi: piuttosto, pare che la metropoli sia istupidita, abbacinata, alveare senza ape regina. L'uomo, assediato, è costretto a una dolorosa trasformazione per adattarsi al suo nuovo, indecifrabile ambiente. L’attenzione quasi ossessiva per l'estetica dei corpi maschili e la coreografia dei loro movimenti sembra una risposta a questa minaccia: il corpo deve essere una macchina in forma perfetta, un fisico d’acciaio figurato intorno a cui la macchina da presa può danzare.

Dall’acciaio figurato alla vera mutazione, in ogni caso, vi è un abisso difficile da superare: quello tra uomo e post-umano. Un salto traumatico verso l’ignoto. Anche questa volta, come nel primo Tetsuo, l'esplosione del corpo in estrusioni metalliche e bocche da fuoco è un atto rivoluzionario che richiede uno sguardo disumano, rapidissimo quanto analitico, che dispiega tutti i mezzi e le tecnologie del cinema: animazione a passo uno, montaggio sincopato, commento sonoro ai limiti del caos. Ad emergere è una nuova carne e un nuovo modo di metterla in scena; entrambi gli aspetti hanno delle conseguenze sul piano politico e su quello estetico.
Politico, perché il primo bersaglio di Body Hammer è il Giappone contemporaneo e l'uomo che ha prodotto. Gli atti di ribellione sono le uniche vie di fuga, apparentemente: fughe disperate, sotto forma di sette che complottano per distruggere il mondo e  culti del corpo e del vigore che fanno da controcanto alla incontrollabile sessualità che era la cifra del primo film. Sembra di vedere il fantasma di Marco Ferreri dietro a questa apocalisse dell’umano e dietro alla disperante sequenza finale di Body Hammer, con una importante differenza: se nel Seme dell'Uomo l'umanità giungeva ad una fine insensata e inappellabile, la violenza de/rigeneratrice di Tetsuo sembra ciclica e inevitabile.
Per quanto riguarda l'estetica, l'incubo di Tsukamoto è un groviglio di Oriente e Occidente, modernità e orrore mitico. Il mostro di metallo non è, dopotutto, così diverso dai demoni e dalle creature della mitologia di ogni luogo, con l'importante differenza che la maledizione è qui causata dall'uomo e non dal divino. L'uomo cambia in modo incomprensibile, si maledice: siamo vicini ad Akira e a David Cronenberg, ma la maledizione dell'essere una creatura a metà tra l'umano e il "divino laico" dell'acciaio fa pensare, in questo secondo capitolo, anche alla tragedia di Robocop. O meglio, alle premesse e alle conseguenze di un mondo dove Robocop è possibile: la babele sociale, la perdita di controllo, la violenza liberatoria come unica risposta al mondo oltre la soglia di casa.

In una delle sequenze più visionarie di Body Hammer, Tomoo sembra impazzire mentre l'immagine si sovrappone a una palla di fuoco; in un'altra occasione, è lo stesso fotogramma ad incendiarsi e accartocciarsi. Nonostante una certa "normalizzazione" dello sviluppo narrativo a cui si è accennato, Tsukamoto non esita a sciogliere la leggibilità dello sguardo in un ribollire di immagini materiche e cellulari, che lo avvicinano, di nuovo, ai territori dell'arte astratta e del videoclip. La scelta del colore in luogo del bianco e nero, in questo senso, non fa che esaltare la natura febbrile, visionaria, di questo cinema: nei suoi blu e rossi saturi possono vivere solo fantasmi, rivelazioni, incubi.

Ed è in questa furiosa bellezza, in questo lungo grido in forma di immagini e sonorità stridenti, che Tsukamoto si rivela essere una delle voci più moderne del nostro tempo. Dietro alle maschere cyberpunk e all'orrore, l'umano palpita con una sincerità toccante e il suo dolore ci viene trasmesso con un’intimità quasi insopportabile. Tetsuo non è mai stata la storia di una “semplice” apocalisse, né quella di una utopica rinascita: è la cronaca dettagliata di una trasformazione dolorosa, il balletto meccanico di un occhio che ha perso l'innocenza e cerca nuovi sguardi o, quantomeno, nuovi schermi. L'Uomo di Ferro è un automa con la macchina da presa che danza sulle rovine e ci osserva, con un misto di pietà e sadica, infantile curiosità.

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Shin'ya Tsukamoto Tomoro Taguchi Nobu Kanaoka Renji Ishibashi 85 minuti
Giappone 1991
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My Home, in Libya

di Marco Marrapese
Locarno Documentario Melilli

Martina è come un'italiana di seconda generazione, eppure tutta la sua famiglia è italiana da sempre. È una condizione particolare quella della ragazza e della sua famiglia, ma non dissimile da quella di tanti altri italiani emigrati all'estero e poi rientrati in patria. Il padre ed il nonno di Martina, infatti, sono nati in Libia e lì hanno vissuto fino al crollo della monarchia, poi con l'ascesa al potere del colonnello Gheddafi sono tornati a vivere in Italia. Martina in Libia non c'è mai stata, ne ha sentito parlare solo attraverso i discorsi dei nonni, ex commercianti a Tripoli, e la storia della sua famiglia non l'ha mai conosciuta davvero in maniera approfondita. Aprendo il baule dei ricordi insieme ai nonni Antonio e Narcisa, Martina Melilli, per il suo primo lungometraggio presentato fuori concorso all'ultima edizione del Festival di Locarno, prova a mettere insieme i pezzi della storia sua e dei suoi famigliari, attraverso ricordi e immagini di una vita ormai lontanissima. Il film dunque, sin dal suo incipit, sembra proiettarsi verso il mero esercizio di ricostruzione di una memoria privata, che poi, inevitabilmente, si riflette nella storia di una nazione e di tutto il mediterraneo.

Fortunatamente il documentario della Melilli si svincola da un legame con il passato troppo asfissiante, costruendo la sua narrazione anche su un secondo livello, quello del presente. La protagonista, infatti, si mette in contatto via chat con un giovane studente universitario libico, Mahmud, che la aiuta nella sua impresa, girando per lei alcuni video per le strade di Tripoli. Dall'incontro tra i due viene fuori un moderno epistolario via chat, che rappresenta l'aspetto migliore dell'opera, la sua parte più vitale. Il lungo messaggiare tra i due ragazzi fa confluire nel film inaspettate esternazioni private, riflessioni sulla cultura dei due Paesi, aspettative e desideri che legano persone della stessa generazione sulle sponde opposte del mediterraneo.

Grazie anche all'utilizzo dei messaggi di testo, My Home in Libya riesce a trovare una sua peculiarità estetica, che strizza l'occhio alla videoarte e alla multimedialità. La Melilli, tuttavia, a tratti si perde nella lunghezza e nell'ostentata ripetizione di alcune inquadrature, per di più insignificanti per l'economia generale del racconto (si veda l'inquadratura del pappagallo). Il film scivola, peraltro, quando cerca di affrontare la vicenda libica e delle migrazioni da un punto di vista strettamente politico. La regista sovrappone le immagini di alcuni corpi inermi all'audio di un comizio elettorale. Una trovata sensazionalistica, per certi versi gratuita, discutibile da un punto di vista etico e quantomeno superficiale nell'approccio alla questione. Il documentario, infatti, non tiene per niente conto della storia recente e passata dei rapporti tra Italia e Libia, del ruolo libico nello scacchiere del mediterraneo e della complessità del fenomeno migratorio. D'altronde affrontare un tema così caldo vuol dire correre un rischio altissimo di maneggiarlo incautamente.

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Martina Melilli 66 minuti
Italia, 2018
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Hiruko the Goblin

di Fiaba Di Martino
Hiruko the Goblin di Shin’ya Tsukamoto

È un film su commissione, questo Hiruko The Goblin, realizzato da Shin’ya Tsukamoto –  alla sua prima volta con una major – per conto della Shochiku. Film alimentare potremmo dire, non si trattasse di uno come lui, in grado di far crescere una personalità imponente e soverchiante pure su un terreno di committenza, accettata soprattutto per poter far fruttare successivamente e in piena libertà l’exploit di Tetsuo

In Hiruko The Goblin non v’è traccia di un modus operandi da timbratura del cartellino, di un freno a mano nell’espressione stilistica e nell’estetica schizofrenica che caratterizza, a volume più o meno alto, il corpus del Nostro, sebbene abbia certo un appeal da pubblico, detto volgarmente, “di massa”, questa storia di un mostro pseudo-leggendario, a cui un archeologo dal cuore spezzato e il fegato di ferro dà la caccia da tempo, e che si ritrova ad affrontare una volta per tutte all’interno di una scuola, spalleggiato da un pavido ma volenteroso studente al quale è peraltro imparentato. E tuttavia Tsukamoto ci spalma sopra fin dalle prime battute una glassa autoironica e irrequieta. Incontriamo il protagonista, l’archeologo Hieda, mentre scava con solerzia un cumulo, con tanto di spirit detector; un Indiana Jones nipponico che ispira ben poca epos. Subito dopo, lo squarcio bucolico incornicia una fanciulla cortese, Reiko, unico elemento di purezza del film, che difatti si trasmuta immediatamente in una visione perturbante e grottesca, quando lei e il suo professore risvegliano il maligno. Ma il regista rimanda il più possibile l’evidenza dell’orrore, preferendo il piacere tensivo dell’implicito e, soprattutto, la creazione di un contesto di negazione erotica: quando il giovane Masao, il co-protagonista, intercetta un avvicinamento compromettente fra Reiko (suo oggetto d’amore) e appunto il prof (suo padre!), ad avanzare è il turbamento ormonale, che scompagina comicamente il pericolo del momento e fraintende la condizione emotiva: è come se fosse quel bacio a creare il mostro, come una specie di sberleffo favolistico, che viene subito celato e si risolve in uno spruzzo di sangue che innaffia il vetro, come una sorta di flash mestruale o il teaser di una possibile culminazione orgasmica. 

Ed è anche in queste impennate febbrilmente cartoonesche, negli scarti slabbrati – come la soggettiva in convulso affanno della bestia – che si delinea chiaramente un’incarnazione brutale e nevrotica dell’impulso sessuale forzosamente negato: quello, solo potenziale e accennato, della studentessa per il prof, quello ribollente del compagno di classe per lei, quello dell’archeologo per una donna morta. Un fil rouge che trapassa l’intero film e lo rende ripetuta esposizione spettrale di immagini di turbamento, prima di tutto sessuale, appunto negato; nella prima metà il Goblin è principalmente una scarica elettrica incontrollata e inconsulta come un brivido erotico – non a caso il sovrannaturale arriva dal sottosuolo, da percezione invisibile a forza demoniaca inconosciuta fino al momento fatidico, poi la possessione e la consumazione dell’omicidio è rapida, un battito impercettibile difficile da cogliere, un male endogeno che l’uomo adulto combatte da un lungo periodo (casto, giacché privato dell’amata) e che trova invece il ragazzo inerme. E quando l’immagine del mostro nella seconda parte diventa esplicita – testa di fanciulla e fisico aracnide – si esplicita anche la sua tattica omicida, la penetrazione dell’inconscio – con allucinazioni oniriche – e della carne tramite protuberanze che, lui sì, utilizza a profusione. Il racconto del mostro come entità onnipresente e ubiqua, onnisciente e sfarinata (visi che compaiono improvvisamente su un groviglio di rami o sotto una pentola o nel buio di una parete o dentro i sogni o dentro la testa) è insomma una messa in esistere – immediata, semplice ma efficacissima – di pulsioni erotiche e di morte e viceversa che, pur estroflettendosi dalla propria realtà – il corpo, di Hieda e di Masao –, sono comunque sempre addosso ai due protagonisti, e sempre fuori dal loro controllo, mai sfogate fattualmente ma solamente visualizzate come dannazione da estirpare. Tutto parte da ciò che hanno visto e che ha acceso l’impulso, e per questo la loro pulsione scopica viene continuamente frustrata e punita, mentre l’orrore è in azione su un proscenio istituzionale, quello scolastico, un rigido impero formale dell’ordine e delle regole, inesorabilmente fatto a pezzi. Perché nell’opera di Tsukamoto non ci sono confini all’iconoclastia e alla dissacrazione delle catene sociali, di quelle mentali, di quelle che ci autoinfliggiamo.

Su tutto, comunque, spicca predominante il semplice gioco del cinema, delle sue irradiazioni (quella specie di Necronomicon, quella covata finale, quelle crepe violente e mutanti che sono figlie ritornanti della Cosa carpenteriana), il semplice godimento del gesto cinematografico, che in Tsukamoto è sempre un atto d’indipendenza da qualunque restrizione di forma, narrativa o di genere che dir si voglia. Per cui il cinema è fucina di mutazioni, prima che metaforiche, di libertà: l’intemperanza magica, l’incantamento delle carni sanguinolente può venire da un arazzo di tatuaggi funerari come da una visione rubata, ma è sempre una questione di immagine tattile, sensoriale, sia essa sovraesposta o sconfessata, senza via di mezzo alcuna, come nel suo abissale capolavoro Kotoko, dove era la permanenza dell’immagine rifratta, decomposta, il riesumarsi malato e reiterato di shock post e pre traumatici, di inquadrature interiori ridotte a brandelli, a istituire il profilo di un corpo mostruoso per la sua natura o il suo passato. 

Hiruko The Goblin si muove certo su un piano molto meno complesso, corteggiante il piacere del B movie (il finale, poi, è uno sbeffeggio di classico quasi inaudito, con il sole/la luce per sconfiggere il Male, l’elmo e la formula da recitare per far battere in ritirata le forze oscure; e la gravitas del duo che osserva le anime in volo è comunque irrisa dalle sembianze ridicole delle anime), l’ambizione apparentemente bassa, condotta su una superficie visiva e narrativa basica, una succitata essenzialità che ne fa un divertissement isterico e bambino; ma il bello di Tsukamoto è che si permette sempre di tutto, anche in un film etichettabile come minore come questo Hiruko – e che dire allora di Killing, che pare fatto con due lire in un weekend eppure che potenza, che statura tragica –, innestando in una storiella mainstream di genere una profonda consapevolezza del mezzo e del suo uso, una contaminazione di umori cinematografici (horror, commedia, demenziale e melodramma naif – per entrambi i protagonisti c’è un lutto vecchio o nuovo ed è su quello che lavora l’orrore –) e una continuità poetica: Hiruko è una ghost story romance, dopotutto, ancora una volta, dove alla radice della maledizione c’è una frattura pulsionale-amorosa, e dove i fantasmi si scoprono dolorosamente di carne. 

Categoria
Shin'ya Tsukamoto Kenji Sawada Masaki Kudou Hideo Murota Naoto Takenaka Megumi Ueno 90 minuti
Giappone, 1991
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