Se c’è una My Generation nella filmografia di Shin'ya Tsukamoto quella è Bullet Ballet. È il primo titolo in cui l’alienazione postmoderna del cineasta giapponese si espande a una dimensione condivisa, collettiva. La rivolta è un grido strozzato, ma anche una corsa automatizzata inarrestabile – quella finale dell’uomo o della donna è emblematica – che sancisce l’unica possibilità di una fuga/liberazione. La solitudine del singolo diventa una pluralità di solitudini e bastano poche sequenze per capire che qui la storia di Goda si allinea con quella di Chisato, Goto e dei vari membri della gang di tossici con cui il personaggio principale entra in contatto. Il fatto che quest’ultimo sia un videomaker, autore di spot televisivi, aumenta poi la portata autobiografica dell’operazione.
Bullet Ballet inizia come elaborazione di un lutto. Quello di Goda, la cui compagna si suicida con un colpo di pistola che non vediamo. Il giovane presto si fissa nell’idea di possedere un’arma da fuoco. Le sue incursioni notturne incrociano gangster e bande giovanili. In una di queste c’è appunto Chisato, una giovane punk drogata, anch’essa ossessionata dalla morte. La pistola alla lunga diventa un oggetto conteso da tutti. Quasi uno status quo. Un segno simbolico potente di cui la violenza è la caratteristica drammaturgica esemplare ma certamente non l’unica. Nell’arma da fuoco si mescolano quasi tre tipi diversi di feticismo: cinefilo, psicologico e fallocentrico. Perché Goda, che lavora con le immagini, è tormentato dal possedere una pistola? Vuole uccidere, vuole comprendere la morte o vuole semplicemente possedere l’oggetto di un preciso immaginario? La sua è l’espressione di una soggettività alienata o la simulazione di una soggettività alienata?
Tra le due dimensioni non c’è più alcuna differenza ed è questa la dolente confessione del film. Siamo tutti figli della pop (o punk) culture, sembra ammettere Tsukamoto, che qui usa il desiderio (della) pistola proprio per materializzare il disorientamento post-capitalista di chiunque sia nato dagli anni 60 in poi. Non è un caso che il protagonista nel suo appartamento spari allo specchio, si tagli il braccio e si eserciti come un (post)moderno Travis Bickle, e nemmeno che la carneficina di Taxi Driver sia quasi una sorta di bozza su cui dipanare, nella sparatoria di Bullet Ballet, frammenti di set, le traiettorie dei corpi e delle pallottole. Ma non sono vere e proprie citazioni. Il cinema di Tsukamoto è troppo radicalmente inventato per ricorrere a esse. Piuttosto tracce. Imprinting biologici di un’umanità che cerca il proprio equilibrio tra gli schermi e il reale.
Anche per questo è un’opera sull’ossessione e sulla dipendenza il quarto titolo realizzato e interpretato da Tsukamoto. E racconta la depressione di una generazione, quella del cineasta e dei personaggi raccontati, composta da tossici/video-dipendenti. Ovviamente non c’è alcuna forma di prospettiva ideologica o moralistica nel film. Come sempre avviene, l’autore di A Snake of June plasma cinematograficamente un’apocalisse dell’essere umano che al tramonto del XX secolo – il film è datato 1998 – è ampiamente assorbita nell’inconscio collettivo ma non in quello estetico. Pazzesco eh.
Eppure ogni film di Tsukamoto nasce e muore nei codici di un terribile e magnifico paradosso: arriva troppo presto per il cinema e troppo tardi per l’uomo. I suoi sono incubi di carne, acciaio e fotogrammi (in bianco e nero) che vanno troppo veloci per il mondo delle immagini e lo superano, scardinano i linguaggi, ma che si rivelano quasi lucidamente inermi e obiettivi di fronte ai destini già consumati dell’essere umano. Tsukamoto produce documentari cyberpunk. E Bullet Ballet lo è più di tutti gli altri. L’unica cosa che resta da fare a questa generazione di figli senza ideali ma bombardati dalle immagini è allora flirtare con la morte. E qui risiede anche il definitivo riscatto del cinema di questo autore, il cui obiettivo non è (mai) la salvezza ma la sopravvivenza attraverso la percezione. Che sia attraverso un colpo di proiettile, il sangue, l’eroina o la fusione in un nuovo corpo tecnologico, il fine ultimo è il sentire. Se sentiamo siamo ancora vivi. E se diventeremo macchine in perpetuo movimento capaci di sentire qualcosa, avremo, comunque, un futuro.