Forever

di Irene De Togni
Forever - recensione serie Amazon Prime

All’interno della vastissima offerta televisiva degli ultimi anni, si sta via via diffondendo l’idea che sia la comedy, e non più il drama, il genere che più si sta cimentando in un lavoro di innovazione, di sperimentazione, di (auto)riflessione, mostrandosi in generale più attento al mezzo televisivo con cui opera. Eccezion fatta per alcuni prodotti dal notevole impianto sperimentale come Twin Peaks, The Affair, Better Call Saul o The Leftovers, il genere drammatico, ed in particolar modo i prodotti che rientrano sotto la denominazione di Prestige TV, danno prova di una comune difficoltà (reticenza?) ad allontanarsi da un tipo di linguaggio e/o di formato più cinematografico, o da temi  e toni largamente consolidati, e risultano per questo più statici dal punto di vista dell’innovazione del mezzo televisivo. L’universo delle comedy si sta rivelando, al contrario, un brulicante incubatore di generi (Vulture ha dedicato più di un articolo a quella che viene ormai definita la Post Comedy) e di narrazioni innovative, molto più consapevole e interessato al mezzo espressivo di cui fa uso e molto più connesso con l’attualità e interconnesso con gli altri attori operanti nello stesso ambiente. Forever, la serie distribuita su Amazon Prime Video questo settembre, ne è un esempio perfetto.

Collage di riferimenti al panorama televisivo contemporaneo, la scrittura di Matt Hubbard e Alan Yang (ricco di tutta l’esperienza fatta con Master of None e Parks and Recreation) non ha nessuna paura di citare le sue fonti di ispirazione e, anzi, sembra trattare The Good Place quasi come se fosse un genere già formato.
Con la stessa spensieratezza e libertà narrative della serie di Michael Schur, Forever si diverte a disseminare in ogni episodio colpi di scena che sembrano far crollare completamente le fondamenta del racconto – non a caso ci sono state molte precauzioni intorno alla divulgazione della trama, e un generale atteggiamento di segretezza che è stato bene o male giustificato dal momento che i colpi di scena sono davvero tanti e tutti godibili. Insieme al cliffhanger, Forever dimostra una dimestichezza e una consapevolezza tali della struttura episodica da sfruttarne astutamente i momenti di transizione per cambiare genere praticamente ad ogni episodio: abbiamo allora una rom-com che potrebbe quasi dirsi un proseguo di Love nel primo episodio, dove veniamo introdotti ai problemi di una coppia consolidata; nel secondo siamo nel terreno della cosiddetta traumedy, con una protagonista alle prese con l’elaborazione del lutto e con la ricostruzione di un’identità propria e personale dopo aver condiviso per così tanto tempo la vita con il consorte; il terzo episodio svela la natura esistenziale dello show, che assume la forma della fiction speculativa per portare i protagonisti in uno spazio post mortem laico e tragicomico. Da qui la serie torna quindi a mescolare i toni romantici e quelli esistenzialisti finendo per proporre un’interessante riflessione combinata fra significato della vita e significato dell’amore andando ad indagare l’amore dell’“happily ever after”, della promessa di continuità che è in fondo quella del matrimonio, l’amore del per sempre, appunto.

Attento alla tendenza della comedy contemporanea a decostruirsi e a mettere in scena una minuziosa decomposizione del proprio funzionamento e dei propri concetti madre, Forever esplora, da un lato, il calore della dipendenza, la gratificazione dell’abitudine data dalla salita sisifea che è la conoscenza profonda del proprio partner, e, dall’altro, ci (di)mostra come la stabilità di coppia debba essere perseguita in modo dinamico ed evolutivo e come basti un niente per trovarsi ad imboccare sentieri diversi o a far crescere il divario anche nella più profonda intimità. C’è poi la piccola grande gemma dell’episodio standalone, André and Sarah, (espediente narrativo molto caro, peraltro, anche a Master of None), che funge perfettamente da contrapposto alla storia raccontata mostrando non più pro e contro della stabilità ma l’intermittenza con le sue gioie e i suoi dolori.

La forza della scrittura di Yang e Hubbard risiede probabilmente nel rifiutare di inserirsi in un tracciato definito che adatti il contenuto alla forma, ponendosi invece come un racconto che tratta la forma come se fosse contenuto e alterna diversi generi narrativi a seconda del momento dell’evoluzione della coppia che vuole raccontare.

Forever è, effettivamente, una storia piuttosto noiosa raccontata nel modo più avvincente. Al netto di tutto questo verrebbe forse da chiedersi, però, se la serie abbia effettivamente intenzione di spingersi oltre al gioco formale e metanarrativo che fanno sì che parlare di Forever diventi quasi automaticamente un parlare dell’evoluzione di un genere televisivo. Non essendo corretto, oggi, sostenere che la comedy non sia in grado di trattare con profondità e rigore temi importanti come il lutto, la morte o l’esistenza, sembra, a tratti, che alcuni dei momenti salienti della storia di June e Oscar (si parla soprattutto dei passaggi iniziali) non siano affrontati con la vera intenzione di darne una trattazione soddisfacente ma che vengano leggermente subordinati allo schema di cliffhanger e cambio di situazione, per amor di dinamicità in un genere in cui dinamicità (The Good Place docet) non è per forza sinonimo di fretta o superficialità.

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Maya Rudolph Fred Armisen Catherine Keener Peter Weller Obba Babatundé 1 stagione da 8 episodi
USA 2018
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Halloween - La resurrezione

di Gian Giacomo Petrone
Halloween - La resurrezione - recensione film Rosenthal

Con l’affacciarsi del nuovo millennio, la saga di Michael Myers continua a non conoscere ostacoli e nel 2002 vede la luce Halloween – La resurrezione, settimo tassello dell’intero complesso e quarto di quella sorta di sotto-filone narrativo costituito dai primi due episodi e da Halloween H20 – 20 anni dopo, escludendo ovviamente dal computo globale Halloween III – Il signore della notte, totalmente avulso sul versante della continuità del racconto, soprattutto in quanto privo di riferimenti alla figura di Myers.

Rick Rosenthal torna ad occuparsi di “The Shape” dopo aver già diretto l’interessante secondo capitolo più di vent’anni prima, e assieme ai suoi sodali, gli sceneggiatori  Larry Brand e Sean Hood, tenta di rivitalizzare le gesta dell’immortale killer strizzando l’occhio alle nuove tecnologie (Internet) e agli emergenti format multimediali (Grande Fratello), con l’incombere ulteriore dell’influenza del fondamentale The Blair Witch Project, uscito appena tre anni prima. Le vittime designate, sei ragazzi e un giovane operatore, dovranno stavolta immergersi nell’avita magione dei Myers alla ricerca di indizi sull’invulnerabile assassino, venendo dotati di micro-videocamere personali, mentre altri dispositivi visuali, opportunamente installati in punti strategici dell’abitazione, seguiranno gli eventi in modalità “nobody’s shot”. Il tutto potrà essere seguito in diretta sul Web, intanto che, simultaneamente, dietro le quinte agiranno i due ideatori del programma (Busta Rhymes e Tyra Banks), che escogiteranno vari stratagemmi per spettacolarizzare l’evolversi degli eventi.

L’idea di un reality show mortale, con protagonista indiscusso il babau creato da John Carpenter e Debra Hill, non sarebbe stata in fondo così peregrina e nondimeno il lavoro di Rosenthal, tutt’altro che disprezzabile dal punto di vista strettamente tecnico e visuale, stenta a trovare la giusta calibratura narrativa, disperde tutto il potenziale di elaborazione linguistica e meta-testuale, finendo col risultare senz’anima e discontinuo. A eccezione di una prima parte promettente, che ripropone l’ennesimo e fratricida duello fra Laurie Strode (ancora una volta Jamie Lee Curtis, mai doma e sempre convincente) e The Shape all’interno di un ospedale psichiatrico, con una messa in scena sostanzialmente tradizionale ed efficace nella sua semplicità, il film tenta, con risultati perlopiù sconfortanti, la strada del crossover fra cinema, nuove tecnologie e linguaggi multimediali.
Ciò che avrebbe potuto configurarsi come motivo di articolazione tecnica, espressiva e, perché no, teorico-riflessiva finisce invece con l’appiattirsi su un approccio esclusivamente esteriore al nuovo, ripiegando poi banalmente sulla consueta mattanza di vittime malcapitate e ottusamente poco reattive, e riproponendo i più consunti cliché dello slasher senza alcuna capacità di trascenderli. L’esatto contrario di ciò che è stato in grado di fare Wes Craven con Nightmare – Nuovo incubo e con l’intera saga di Scream. Infatti, un conto è lavorare sul principio che fonda l’uso di una tecnologia e del linguaggio che le è connesso, un altro è fossilizzarsi sugli aspetti accidentali che accompagnano i fini e le modalità di tale uso, specie se confinati in un presente circoscritto e, pertanto, facilmente superabile da un progresso tecnico sempre più rapido e votato alla repentina obsolescenza dei dispositivi creati. Nel primo caso potranno emergere la dimensione universale e quella politico-filosofica del rapporto uomo-mondo mediato dalla tecnica, nel secondo affioreranno esclusivamente gli elementi residuali e sovrastrutturali di tale rapporto e di tale mediazione, in una cristallizzazione irredimibile sull’hic et nunc, prodromo inevitabile all’invecchiamento precoce di qualsivoglia discorso, filmico e non.
                                                           

D’altro canto, se Halloween – La resurrezione risulta assai povero dal punto di vista meramente teorico, esso non riesce a raggiungere risultati soddisfacenti neppure sul versante più prettamente ludico: i personaggi sono perlopiù privi di spessore e quando rivelano delle sfaccettature vagamente più articolate – come nel caso dell’istrionico ideatore del programma, interpretato con efficace (auto)ironia dal rapper Busta Rhymes, che sembra però appena uscito da un film dei fratelli Wayans (i primi due Scary Movie vengono realizzati una manciata di mesi prima del film di Rosenthal) – tendono comunque alla macchietta, alla farsa, all’alleggerimento fuori luogo e fuori ritmo di un film che dovrebbe (anche) fare paura. Mike Myers, dal canto suo, è divenuto ormai la caricatura – si potrebbe dire l’ombra – di se stesso, quasi che la propria indistruttibilità ne facesse lo zimbello delle sue stesse vittime, che paiono irriderlo della sua ottusa meccanicità. L’insieme appare, in definitiva, goffamente concepito e amalgamato, sovente fuori asse e disarmonico, oltre che troppo oscillante fra il serio, il parodico e, talvolta, il ridicolo involontario. Ci vorrà un ripensamento della saga dalle fondamenta, come quello messo in atto da Rob Zombie, perché The Shape possa riappropriarsi, come merita, della forza originaria del Mito.

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Rick Rosenthal Jamie Lee Curtis Busta Rhymes Tyra Banks 86 minuti
USA 2002
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Nightmare Detective

di Matteo Berardini
Nightmare Detective - Recensione film tsukamoto

Giocando con le parole di Enrico Ghezzi, potremmo definire Nightmare Detective come una videocosa che uccide. Del resto il nono film di Shin'ya Tsukamoto nasce da uno sguardo che non appartiene al qui e ora del dato materiale e si svela da subito come una manifestazione dell’oltre, dell’abisso interiore, un’incarnazione di odio assoluto che vive nel dolore trasformandolo in furia cieca e nichilista.
Spesso nel cinema di Tsukamoto una determinata inquadratura diventa la cartina tornasole di una precisa visione del mondo, e questo vale soprattutto per certe soluzioni in soggettiva, improvvisi movimenti di macchina che restituiscono lo sguardo di un corpo squassato dall’infezione tecnologica, lanciato in una corsa frenetica. Non stupisce che Nightmare Detective sia quindi un progetto pensato da Tsukamoto alle origini del suo cinema, già ai tempi di Tetsuo, quando sono ancora freschissimi i fotogrammi elettrici del corpo mutato de Le avventure del ragazzo del palo elettrico, quelle soggettive sfrenate che divorano lo spazio sotto di loro e che diverranno uno dei marchi di fabbrica del regista giapponese.

Nightmare Detective, nel racconto della sua dimensione onirica e degli aspiranti suicidi che la popolano, costruisce il suo impianto visivo attorno alle soggettive ricorrenti di un impulso di morte, una videocosa appunto che (in un sublime lavoro di fuoricampo) assume forma confusa e cancerosa, sanguigna e metallica, come una metastasi impazzita e affilata che schizza nei corridoi dell’inconscio in cerca del filo ultimo da tagliare.
Quella incarnata da Zero, il killer della mente che fa da doppio al detective del titolo, è una volontà di morte che infetta e distrugge, una coscienza scissa dal suo corpo e segnata da un trauma infantile. Si opporrà a lui Kagenuma, un giovane depresso in grado di entrare negli incubi delle persone per scioglierne i nodi traumatici, anch’egli ferito da esperienze passate vissute nei primi anni di vita. È nel rapporto tra i due, gemellari e opposti come sempre sono le dualità alla base di questo cinema, che si finalizza il film più narrativo di Tsukamoto, un thriller/horror che prende di petto uno dei temi critici della società giapponese (il suicidio) declinandolo verso quella decostruzione del j-horror già ampiamente sondata da Kiyoshi Kurosawa.

In un’intervista allegata all’edizione italiana del dvd, Tsukamoto definisce Nightmare Detective come un’opera di passaggio, l’inizio di una serie investigativa dalle atmosfere oniriche nata sulla scia di Twin Peaks e pensata per fare da ponte tra due diversi momenti del suo percorso cinematografico. In particolare doveva essere il film che chiudeva con il rapporto tra l’uomo e la metropoli, prospettiva dalla quale Tsukamoto è sempre partito per mettere in scena l’alienazione dell’essere umano e il suo legame mortifero con la tecnologia. E in effetti quest’ossessione sembra raggiungere il suo apice proprio nel momento rappresentato da Nightmare Detective e da Haze (il mediometraggio che precede il film e che per molti versi ne prepara il terreno), un dittico in cui la riflessione sulla vita umana metropolitana e tardocapitalista esplode nel nuovo orizzonte di un’interiorità metafisica – la stessa che già dominava il precedente Vital, virato però nel melodramma dall’importanza dell’amore e dell’elaborazione del lutto. Qui l’immersione nell’inconscio cambia di segno, non siamo più negli spazi della memoria ma nel labirinto del trauma, vittime sotto attacco del nostro stesso senso di inadeguatezza e della nostra sofferenza. Interpretato non a caso dal regista stesso, Zero è una forza primordiale tra le più potenti messe in scena da Tsukamoto, un’emersione del sommerso a cui non potrà che seguire il cuore a cielo aperto di Kotoko e il suo oceano di dolore, trasceso soltanto da una danza catartica. Oltre queste sponde Tsukamoto, sempre mutante, sempre irrequieto, tornerà alla via del film di costume ma in direzioni ben lontane da Gemini, portando la lezione digitale appresa in Haze e Nightmare Detective a contatto diretto con il cinema di genere, bellico e chambara, nuova escursione nella violenza ma lontana, per ora, dall’orizzonte urbano. La città, sembra, è rimasta ancorata nell’incubo del Nightmare Detective.

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Shin'ya Tsukamoto Ryuhei Matsuda Masanobu Ando Shin'ya Tsukamoto 106 minuti
Giappone
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L'uomo che uccise Don Chisciotte

di Matteo Berardini
L'uomo che uccise Don Chisciotte - recensione film Gilliam

Traballanti, goffi, letteralmente gargantueschi. Tra i pochi frammenti esistenti dell’originale L’uomo che uccise Don Chisciotte ci sono proprio loro, i celebri giganti, raccontati in Lost in Mancha come tracce di ciò che sarebbe stato il film di Terry Gilliam nella sua versione del 2000. E di quei giganti, nel documentario di Keith Fulton e Louis Pepe, resta soprattutto l’entusiasmo di Gilliam, l’emozione infantile e ancora, nonostante tutto, innocente del fare il cinema come si fa una casa dei giochi. Fa un certo effetto quindi iniziare questo Don Chisciotte e scoprire nelle sue prime immagini che quegli stessi giganti, riadattati ma visivamente identici, sono diventati oggi gli elementi di un set pubblicitario, gli ingranaggi di un progetto commerciale (mal) diretto dal regista in crisi Toby Grisoni (Adam Driver). Lo stesso Don Chisciotte è ora un soggetto da spot, una figurina appiattita in un mondo dello spettacolo che appare presto soffocante e privo di umanità.

Fin dalle sue prime battute, L’uomo che uccise Don Chisciotte svela una tristezza nello sguardo difficile da ignorare, come un film che in qualche modo non può che parlare di sé stesso e dei suoi lunghi fallimenti, della sua storia di tentativi e sconfitte che si chiudono oggi, quasi a trent’anni di distanza, con un lieto fine che porta comunque su di sé i segni di una vita travagliata. Questo Don Chisciotte è di certo un film di Gilliam – e la parte centrale del racconto, così caotica e splendida nel mescolare adattamento, finzione, illusione, lo grida a piena voce – ma è anche un film amareggiato, ferito, che abbandona la dimensione più giocosa e anarchica dell’adattamento a là Gilliam, per raccontare soprattutto il sogno del cinema e i danni che quest’infatuazione può infliggere a chi il cinema lo fa e se ne innamora lasciandosi irretire, per poi dover comunque tornare a confrontarsi, brutalmente, con il dato reale. Questa malinconia (che data la storia del film forse mal nasconde un senso di colpa autobiografico dello stesso Gilliam) traspare dall’evoluzione del personaggio di Toby, non più novello “americano alla corte di Don Chisciotte” come doveva essere nella sua prima versione (ispirata appunto al romanzo di Mark Twain), ma saccente ed egocentrico pubblicitario che ha iniziato il suo percorso con un film dedicato proprio alla creatura di Cervantes, in un tempo in cui il cinema era ancora un gesto magico intriso di innocenza e illusioni.

Con un gioco tra passato e presente, Gilliam ci riporta ai giorni di quell’esordio, recuperati come un’età dell’oro la cui controparte di oggi è però un incubo di disillusione, abitato da una giovane comparsa che ha fallito nel divenire una stella e si è trovata ad essere una escort, e il protagonista invecchiato nella pazzia e convinto di essere, a tutti gli effetti, il Don Chisciotte de la Mancha. E di queste vite distorte il colpevole è proprio Toby, il cui fare cinema diventa un gesto condiviso con amici e sconosciuti ma poi sottratto a fine riprese, con un’incuranza totale per gli effetti che quell’esperienza ha avuto nei percorsi delle persone che si sono lasciate coinvolgere dalla sua passione. Così l’equilibrio cercato da Cervantes tra incoscienza e senso del reale si deforma sotto una lente che svela i lati oscuri dell’ossessione, le conseguenze più nascoste che non danneggiano il sognatore ma chi gli sta intorno.

Per questi motivi L’uomo che uccise Don Chisciotte ci appare molto importante nella carriera di Terry Gilliam, abituato da sempre a trattare temi come la sanità mentale e la tensione opprimente nel rapporto tra individuo e società, ma qui alle prese anzitutto con sé stesso, le sue scelte personali e l’impatto che queste hanno sulle persone che lo circondano. Una riflessione che si intreccia al classico tema di Cervantes sul legame necessario tra sogno e senso del reale, in un dialogo originale, complesso e probabilmente doloroso con la materia prima offerta da quel romanzo straordinario.

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Terry Gilliam Adam Driver Jonathan Pryce Stellan Skarsgård Olga Kurylenko 132 minuti
Gran Bretagna, Spagna 2018
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Sorry For Your Loss

di Eugenia Fattori
Sorry For Your Loss - recensione serie tv facebook

L'immagine promozionale di Sorry For Your Loss, un primissimo piano di Elizabeth Olsen che guarda dritta nell'obiettivo, è una duplice dichiarazione d’intenti per la prima serie televisiva sviluppata da Facebook e trasmessa sulla nuova piattaforma Facebook Watch.

In primo luogo dichiara la centralità della propria protagonista, la giovane vedova Leigh, all'interno della narrazione: nonostante il racconto ampli con il tempo il proprio punto di vista a tutti i membri della famiglia, è il percorso di Leigh a fare da perno all'evoluzione della storia. Gli stadi dell'elaborazione del suo lutto sono il motore narrativo principale della serie ideata da Kit Steinkellner, che accompagna la sua protagonista dalla negazione attraverso l'elaborazione fino all'accettazione della morte del marito Matt, raccontandone nel frattempo anche un cambiamento molto più individuale; la volontà di indagare un punto di vista così peculiare sul lutto impone infatti alla serie la necessità di approfondire Leigh anche al di fuori del vincolo e dei sentimenti matrimoniali, caricandola di nuance e sfaccettature che vanno ben oltre il dolore e lo spaesamento che pur dominano la sua condizione.
Non a caso la conosciamo a lutto già avvenuto, mentre cerca faticosamente di evitare di ridurre la propria esistenza a quell'evento traumatico di tre mesi prima – e da quel momento la serie e lo spettatore seguono passo dopo passo il doloroso confrontarsi di Leigh con l'obbligo di affrontare la realtà (decidendosi a tornare nella casa che divideva con Matt) e con l'impossibilità di categorizzare un'esperienza così enorme come la perdita di una persona cara (nei momenti in cui si confronta con il lutto altrui attraverso una giovane vedova che cerca la sua amicizia). Soprattutto però Leigh deve confrontarsi con la situazione di solitudine connaturata alla vedovanza: per quanto affetto si possa ricevere da famiglia e amici, ci sarà sempre un momento in cui la loro vita ricomincerà ad andare avanti, lasciando chi ha subito la perdita alla necessità di affrontare da soli il proprio futuro, prigionieri di un dolore impossibile da condividere con chiunque.

La seconda presa di posizione di Sorry For Your Loss è legata al viso di Elizabeth Olsen e in particolare a una precisa una scelta stilistica, che non soltanto si concentra sulla ricerca di una naturalezza che si rifà allo stile del cinema indie (con una splendida fotografia in toni di grigio che vela il sole di Los Angeles di una perenne foschia emotiva), ma che fa del corpo della protagonista un veicolo espressivo primario delle emozioni proprie e altrui.
Attraverso il suo volto,l'attrice offre una prova eccellente e ricchissima di sfumature, ma è attraverso il proprio corpo, e in particolare l'abbigliamento, che riesce a raccontare ancora di più: i vestiti di Leigh segnano le fasi differenti del suo lutto, partendo dalla scelta di indossare costantemente abiti “lavorativi” (in questo caso sportivi, dato che insegna nella palestra della madre) fino ad arrivare all'abito assurdamente inadeguato della propria festa di compleanno, indossato come una maschera di felicità che carica l'imbarazzo del momento di un ulteriore disagio. In ultimo c'è la scelta di partire per una vacanza a Palm Springs – prenotata con Matt e mai disdetta – senza costume da bagno e soltanto con maglietta e pantaloni neri, sostituiti da un vestito lungo che è ancora un'altra maschera, indossata insieme a una biografia inventata che le permette di uscire da sé per una notte, riprendendosi la propria sessualità in senso sia fisico che emotivo.
Agli occhi di sé stessa e degli altri, la fisicità di Leigh diventa così uno specchio (a volte fedele, a volte ingannevole) di un'interiorità che la donna nasconde dietro un velo di cocciutaggine nel vivere il proprio lutto senza rifarsi a nessun modello o luogo comune, spesso dimenticandosi delle conseguenze che il suo dolore e la sua rabbia, in assenza di filtri, hanno sulle persone che la circondano.
L'assenza di pudore nella sofferenza la porta quindi a scontrarsi col fratello e la madre di Matt, con la propria madre, con la sorella e con il suo migliore amico, spesso colpevoli di nulla se non di volere (e poter) vivere le proprie vite e portare avanti il proprio lutto privato attraverso modalità che mettono Leigh di fronte alla propria, inevitabile inadeguatezza al cospetto di un evento del genere.

A Sorry For Your Loss non interessa soltanto l'elaborazione del lutto o il percorso personale di Leigh, ma anche raccontare i fragili equilibri dei sentimenti di coppia e l'impossibilità di conoscere davvero le ragioni e l'interiorità dell'altro. Per farlo la serie inserisce il punto di vista di Matt all'interno della narrazione con un episodio interamente dedicato alla storia della sua depressione, che offre una rilettura a contrasto e al tempo stesso a completamento dei ricordi di Leigh. La condizione del non sapere, che tormenta la donna dal momento della morte di Matt ma che lo spettatore arriva a conoscere solo gradualmente, finisce per offrire ulteriori dettagli al suo percorso, che diventa così non soltanto un superamento del trauma ma una ricerca di completezza e verità che si riveleranno impossibili da ottenere fino in fondo. Leigh si troverà di fronte al fatto innegabile che esiste una versione di suo marito differente per ogni persona che l'ha conosciuto e amato, e di fronte all'obbligo di accettare di aver conosciuto soltanto una di queste versioni. Inaspettatamente però sarà anche la necessità di accettare la propria non assoluta centralità nella vita del marito a darle la capacità di mettere in discussione la centralità del proprio stesso dolore e a gettare le basi per la nascita di una diversa versione di sé.

Accompagnata ad ogni passo dall'interpretazione intensa di Olsen, episodio dopo episodio Leigh si rivela protagonista costantemente imperfetta e inadeguata come chiunque può essere di fronte a un trauma di queste proporzioni, offrendo un ritratto sincero e originale del dolore: della sua inevitabilità, della necessità di affrontarlo ma anche di cedere ad esso senza pudore.

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Elizabeth Olsen Kelly Marie Tran Jovan Adepo 1 stagione da 10 episodi
USA 2018
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Halloween H20 – 20 anni dopo

di Jacopo Bonanni
Halloween H20 - recensione film

Haddonfield, 1963.
Durante la notte di Halloween, l’antico capodanno celtico di Samhain, un bambino imperscrutabile di nome Michael Myers uccide a sangue freddo sua sorella maggiore, prima di essere rinchiuso in stato catatonico nell’ospedale psichiatrico di Smith Groove. Qui è tenuto sotto stretta sorveglianza dal suo psicologo: il Dott. Samuel Loomis. Dopo quindici anni di quiescenza, il 31 ottobre del 1978, il giovane psicotico si rianima allo scoccare della mezzanotte, evade dalla sua gabbia e torna nella sua città natale, sfregiando per sempre l’esistenza dell’ignara sorella minore, Laurie Strode. Da quella fatidica notte nessuno ha avuto più sue notizie perché nel frattempo la ragazza ha cambiato identità trasferendosi in un’altra città, lontana da ciò che Haddonfield rappresenta per lei. Il suo nome adesso è Keri Tate ed è la preside di un prestigioso college in California, dove finge di condurre un’esistenza normale insieme al figlio adolescente John (Josh Hartnett) e alla sua fidanzata (Michelle Williams). Nel 1998 tutti credono che Laurie Strode sia morta e che riposi in pace – ed in un certo senso è così – tranne il suo antico persecutore, riemerso anch’esso dalle ombre del passato per concludere quello aveva lasciato in sospeso. Ma Laurie stavolta è pronta ad accoglierlo.

Vent’anni dopo La notte delle streghe, fallito l’ennesimo tentativo di coinvolgere John Carpenter nel ruolo di regista/produttore, ironia vuole che spetti al veterano del cinema horror Steve Miner (il “padre” del Jason Voorhes di Venerdì 13) riprendere in mano le redini della saga, fiaccata da quattro lustri di oblio cinematografico e controversie legali. Per farlo decide di ripartire dalle origini, cancellando ipso facto le storie dei sequel successivi, con tutte o quasi le loro incongruenze logico-narrative. Con la scomparsa improvvisa di Donald Pleasance, l’idea dei produttori della Dimension/Miramax Films (che avevano acquisito i diritti del franchise nel 1995) è quella di celebrare l’anniversario del primo iconico episodio in grande stile, recuperando le influenze culturali e le suggestioni stilistiche degli esordi per raccontare il finale catartico che tutti i fan stavano aspettando: la resa dei conti tra Laurie e Michael, reclutando l’unica protagonista possibile per la parte: Jamie Lee Curtis.

Il ritorno dell’attrice nel ruolo che l’aveva resa celebre è sicuramente l’aspetto più convincente ed originale dietro l’operazione celebrativa di Halloween H20 – 20 anni dopo, tanto da rivelarsi profetico alla luce del suo nuovo ingaggio nel film diretto da David Gordon Green uscito nel 2018. Questo perché il personaggio della Curtis – anche a distanza di tempo – resta una costante imprescindibile della saga di Halloween, una garanzia di credibilità, soprattutto da quando non è più l’ingenua ed insicura adolescente sotto shock che avevamo conosciuto nel 1981 ma una donna adulta ed emancipata, sopravvissuta ai demoni dell’alcolismo e ai fantasmi dell’inconscio. Oltretutto, in questa sua terza apparizione nel franchise la ritroviamo nelle vesti di madre iperprotettiva, pronta tanto a empatizzare quanto a imbracciare un’ascia – a seconda della necessità – per difendere la sua famiglia e liberarsi della sua metà oscura.

Finalmente Laurie Strode-Jamie Lee Curtis scagiona la saga da ogni accusa di misoginia, sovvertendo uno degli stereotipi più radicati del cinema slasher (quello che relega sempre la donna a vittima designata, compagna remissiva o fanciulla da salvare) e guadagnandosi un posto di rilievo sul podio delle eroine dell’action contemporaneo, accanto a figure del calibro di Ripley-Sigurney Weaver e Sarah Connor-Linda Hamilton.

Da questo punto di vista Miner è il primo a riflettere e a mostrare sullo schermo le ripercussioni psicologiche che quella notte del 1978 ha avuto sui uno dei suoi protagonisti principali, e di conseguenza a restituire attendibilità alla minaccia rappresentata da Michael Myers, qui in veste di spettro di un’ansia condivisa, persistente e intergenerazionale. Il punto debole del film si presenta quando la storia – per esigenze commerciali – vira sulle disavventure drammatico/adolescenziali del figlio di Laurie e del suo gruppo di amici, volti noti al pubblico dei teenager di fine anni novanta (Michelle Williams, Joseph Gordon-Levit) alle prese qui con il golem dello slasher. Così la tensione old fashioned dello scontro tra i due protagonisti principali, puntellato di brillanti allusioni al film di Carpenter, rischia di passare pericolosamente in secondo piano in favore di un ammiccante teen-horror nato sulla scia del successo planetario della saga ultra pop di Scream (complice il coinvolgimento produttivo dello sceneggiatore più in voga di quel tempo momento Kevin Williamson). Tuttavia, nonostante numerosi difetti, ciò che rende affascinante Halloween H20 è la volontà e capacità di racchiudere in unico film – in parte sequel, in parte reboot – l’estetica pluriventennale del cinema slasher che ha reso la saga di Halloween nel bene e nel male il cult che tutti conosciamo: a cominciare dall’influenza di classici come Psyco (emblematico il cameo di Janet Leigh) passando per il boom degli anni ‘80 (la competizione tra Halloween e Venerdì 13) fino al puro divertissement metacinematografico mutuato dalla saga di Wes Craven. Come una lettera d’amore, sgrammatica ma sincera, scritta dal fan Steve Miner al suo idolo di sempre: Michael Myers.

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Steve Miner Jamie Lee Curtis Josh Hartnett Michelle Williams Joseph Gordon-Levitt 85 minuti
USA 1998
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Stop the pounding heart

di Alessandro Gaudiano
Roberto Minervini, Trilogia Texana, Stop the Pounding Heart

Capitolo terzo della trilogia texana. Stop the pounding heart ci invita all’immersione nella vita di una comunità profondamente religiosa nel cuore dell'America sudista: a fugare ogni dubbio, un bambino di nome Dixie, uno degli undici fratelli della protagonista. Lei è Sara, una giovane ragazza non ancora maggiorenne. La vediamo mungere le capre, pregare, frequentare il catechismo e le lezioni in casa (come gli altri membri della comunità, lei non è stata educata a scuola), insegnare i medesimi precetti a fratelli e sorelle. Fedele ai dogmi di una religione che ai nostri occhi appare arcaica e lontana, eppure piena di incertezze e dubbi, come impone la giovinezza. Le viene insegnato che la donna deve sottomettersi all'uomo e che la Bibbia è un libro di scienza e verità universali, una severa maestra con cui deve negoziare un eventuale percorso di dubbio ed emancipazione.

Minervini costruisce assieme ai personaggi – sospesi tra finzione e autorappresentazione – una storia corale che si sedimenta attorno a Sara e alla silenziosa attrazione per un giovane torero. A lato, genitori, famiglia, poligoni di tiro e riti sociali della provincia americana della Bible Belt, la “pancia” di una nazione che partorisce le più profonde contraddizioni d’America. Si può definire in una parola il cinema di Roberto Minervini? Pasoliniano, come quello del suo autore preferito? Neorealista (con i prefissi del caso), per lo sguardo consapevole e l'ideologia del vero che lo attraversa? Lirico, poetico, etnografico? Il fascino dell'opera di Minervini sta innanzitutto nella difficoltà di situarlo. Prismatico ed enigmatico, il suo cinema si colloca su uno spettro amplissimo di possibilità e suggestioni cinematografiche. Abbattuti gli steccati ed eluse le categorie, le immagini scorrono libere e rivelano fulminee verità psicologiche, etnografiche e sociali.

Il cuore che batte dietro le immagini di Stop the pounding heart è la ricerca del vero, a cui le immagini tendono, e che qui esplode in scenari dalla bellezza pittorica, intrisi di erba e ruggine. Un cinema di immersione, appunto: accompagnati da Sara, scaviamo a fondo nella storia di un luogo e di un popolo attraverso un cinema il cui metodo, rigorosissimo, sta nel rifiuto dei confini tra verità e finzione. Un cinema di autonarrazione, come lo ha definito Minervini stesso. O almeno, narrazione collettiva, costruzione di un rapporto il cui esito è un documento audiovisivo che qui trova un equilibrio ideale tra bellezza e autenticità.

Il regista, come nelle sue opere precedenti, gioca su territori neutri, tra finzione e documentario. In questo caso, come nel precedente Low Tide, non c'è un vero e proprio amalgama tra attori professionisti e uomini presi dalla strada, ma una comunità di persone vive e reali e che il regista ha coinvolto in un processo creativo collettivo. Un cinema di finzione che germina dal documentario performativo: autore e protagonisti ci guidano verso un viaggio il cui senso profondo, più che in molto altro cinema, è negoziale e richiede immensa fiducia nello sguardo dello spettatore, nella sua capacità di capire ciò che Minervini cerca di fare e nella disponibilità ad abbandonarsi alla performance.

La macchina da presa pedina i personaggi, zavattinianamente, ma li sa abbandonare quando è necessario, per aprirsi a un quadro più ampio e di respiro etnografico. Sara è dominata dall'ambiente ma, nel film come nella vita reale, esso è troppo angusto per contenerne la curiosità e la sete di vita. Queste incertezze si manifestano come sguardi, esitazioni, silenziosi conflitti; anche le immagini sono ruvide, catturate in luce naturale, tremolanti; forse è per questo che sono così struggenti ed ipnotiche. Talvolta, sembra di vedere lampi del cinema di un altro grande maestro della reticenza: Terence Davies.

Il regista coglie ambiguità e tentennamenti, senza forzare la mano, con lo spirito del documentario leggero (troupe ridotta al minimo e metodologia che ricorda da vicino Frederick Wiseman). La collaborazione con la montatrice dei fratelli Dardenne, chiaramente, è una scelta di stile e un manifesto di intenti. Alla base del film c'è un profondo umanesimo, una fiducia nella vitalità di questi uomini alla periferia del visibile. Un umanesimo opaco e ambiguo, che rifiuta la facile leggibilità della fiction in favore del canovaccio e delle piccole rivelazioni.

Autoriale e testimoniale, descrittivo e lirico al tempo stesso, Stop the pounding heart sorprende per la sua densità poetica e costituisce una delle più vitali elegie di un popolo del cinema recente.

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Roberto Minervini Sara Carlson LeeAnne Carlson Tim Carlson Katarina Carlson Colby Trichell 98 minuti
Italia, 2013
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Haze

di Matteo Berardini
Haze - recensione film tsukamoto

Privo di memoria e identità, un uomo si sveglia in un mondo da incubo, una trappola di geometrie impazzite in cui lo spazio soffoca, comprime, punge, lacera. Una tubatura di ferro incastrata tra i denti, i piedi tormentati dal filo spinato, le ossa e i muscoli schiacciati dai muri di un luogo claustrofobico, che obbliga a movimenti minimali e pose innaturali mentre il dolore e il panico pompano in ogni angolo del corpo. L’oscurità è pressoché totale, fanno eccezione soltanto pochi punti luce che però rilanciano l’orrore piuttosto che schiarire le tenebre. Quel che vediamo oltre la frattura di un muro è una schiera di dannati, uomini nudi colpiti da un tormento che li attraversa come una scarica elettrica; in un altro momento lo spazio si allarga ma lo fa per contenere, letteralmente, un bagno di sangue, un fiume carontesco in cui galleggiano brani seviziati di corpi senza volto. L’incubo sembra essere senza senso, ciclico, meccanico. L’unica alterazione in questo meccanismo sarà l’incontro con una donna, anche lei priva di identità per quanto aggrappata ancora a qualche vaghissimo ricordo. In due forse troveranno una via d’uscita, ma è presto evidente che non può esserci soluzione razionale in questo labirinto di sofferenza.

Radicale, asfissiante, aggressivo. Di tanti film si parla in termini fisici, di impatto su corpo, occhi e nervi dello spettatore, e in quest’ottica Haze è un passaggio obbligato, un film che in soli 49 minuti è in grado di erigere una cattedrale da incubo attorno al corpo umano e poi farla collassare, andando ad opprimere e lacerare ogni resistenza. Tuttavia Haze è tutto fuorché un mero esercizio di stile, una casa degli orrori uscita dal peggiore dei luna park.

Realizzato nel 2005 come parte del “Digital Short Films by Three Filmmakers” (progetto di sperimentazione digitale promosso annualmente dal Jeonju International Film Festival, che nel 2005 vedeva presenti anche il coreano Song Il-gon e il thailandese Apichatpong Weerasethakul), Haze rappresenta un tassello cruciale del percorso registico di Shin'ya Tsukamoto, un mediometraggio che ritorna prepotentemente all’aggressività (cyber)punk degli esordi, a quel Le avventure del ragazzo dal palo elettrico di cui qui si respirano non tanto le ossessioni cyber quanto il rapporto strettissimo tra energia della visione e tecnologia messa in campo, non più pellicola a 16mm ma sguardo digitale ai suoi primi passi. Del digitale Tsukamoto sottolinea tutte le imperfezioni, facendo dell’immagine digitale una pasta tattile che si nutre senza soluzione di continuità del corpo e dell’oscurità dello spazio, dato che i confini della carne sembrano sfaldarsi nel vuoto prima ancora che nel contatto con le infinite asperità che costellano il non-luogo del mediometraggio. Ma soprattutto, in questo legame tra passato e futuro che rilancia la violenza e il pessimismo radicale delle opere giovanili, Haze rappresenta una sintesi straordinaria dei due macrotemi da sempre basilari nel cinema di Tsukamoto, ovvero l’alienazione urbana frutto del feticismo capitalistico e le aberrazioni che questa genera all’interno della relazione uomo-donna. Ad un certo livello infatti il mondo di Haze è il correlativo oggettivo di una crisi di coppia, la manifestazione onirica di un disagio profondissimo che porta un marito e una moglie ad uno scontro quasi mortale (ma i due  troveranno da questa crisi una via d’uscita, come dimostra il flashforward nel finale e soprattutto l’ultimissima scena, che trova i coniugi uniti ad osservare la luce oltre l’inferno). Andando più a fondo però entriamo a contatto con una rappresentazione diretta delle forze che generano tale crisi, ovvero quelle leggi socio-economiche che portano alla mercificazione dell’individuo e dei rapporti, alla frammentazione del tessuto sociale, alla schizofrenia dell’identità. I corpi macellati mostrati da Tsukamoto sono evidentemente quel che resta dell’individuo soggetto alla legge del mercato, una meccanizzazione che scarnifica e opprime nutrendosi del corpo isolato e ridotto a merce. È solo nel ritorno alla coppia allora, nella riscoperta dei sentimenti umani oltre una selva oscura assemblata di meccanismi bestiali e orizzonti di morte, che è possibile ripristinare la condizione umana e sopravvivere alle sue aberrazioni.

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Shin'ya Tsukamoto Shin'ya Tsukamoto Kaori Fujii 49 minuti
Giappone 2005
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Il mistero della casa del tempo

di Matteo Marescalco
Il mistero della casa del tempo - Eli Roth Jack Black recensione film

Ancora una volta si avvicina quel periodo dell’anno in cui le generazioni degli anni ’80 e ’90 si dedicano alle nuove visioni dei vari Jumanji, Gremlins, I Goonies, Hocus Pocus ed Explorers, avventure fino all’ultimo respiro e metafore di un percorso di formazione da intraprendere e di traumi da affrontare. Negli ultimi anni, in piena epoca di quella che è stata già definita tecnostalgia, è tornato di moda un preciso approccio al materiale filmico, del quale in particolare si è reso protagonista lo stile Amblin (semplificando, quel catalogo di storie in cui eventi straordinari ed orrorifici cambiano la vita di persone quanto mai ordinarie ma ancora in grado di sognare). Di qui il moltiplicarsi sul grande schermo di titoli come Super 8, Piccoli brividi, il prossimo Monster House, ritorni in grande stile del desueto e del fuori tempo massimo di cui Il mistero della casa del tempo è evidentemente figlio (del resto è prodotto dalla stessa Amblin Entertainment).

Ciò che coglie di sorpresa in un progetto come questo è il fatto che in cabina di regia ci sia Eli Roth, enfant prodige del torture porn nonché protegee di Quentin Tarantino. Quindi, non esattamente il primo nome che verrebbe in mente qualora si pensasse ad una commedia dai toni oscuri pensata per adolescenti. Dalla totale autarchia creativa di Cabin Fever, capostipite dei wrong-turn movies, all’invasione domestica di Knock Knock fino, ancora, al passaggio alla Metro-Goldwyn-Mayer per la realizzazione del remake de Il giustiziere della notte. Che le dinamiche degli studios abbiano messo la museruola al cane sciolto dell’anti-Hollywood? Non proprio.

In un certo senso anche la casa che dà il titolo a questo film, che riunisce per la prima volta Cate Blanchett e Jack Black, è un ostello delle perversioni che viene invaso da un giovane innocente. Il racconto stesso si lega alla storia sanguigna d’Europa, ai fantasmi dei conflitti mondiali e dei traumi dei sopravvissuti (anche i clienti di Hostel, in fin dei conti, erano semplici fantasmi privi di identità persi ). In questo caso il giovane uomo in questione è Lewis, che dopo l’improvvisa morte dei genitori viene affidato in custodia allo strambo zio. Il ragazzo si reca, dunque, a vivere a New Zebedee, in una magione misteriosa i cui muri sono tappezzati di orologi di ogni tipo. Nella casa c’è molto altro di strano: Miss Florence Zimmerman (una vicina di casa sempre presente), mosaici che si animano ed un magazzino con centinaia di bambole e di marionette dallo sguardo vacuo. Ma soprattutto, la magione cela un’oscura verità relativa all’identità dello zio e allo snervante ticchettio che invade ogni stanza.

L’iconoclastia spietata e le baraonde divertite di The Green Inferno sono necessariamente ridimensionate. Il principale dono portato in dote da questo Il mistero della casa del tempo è un nuovo Eli Roth, meno scatenato ma più attento alla coerenza ed alla compattezza del prodotto filmico. Allo stesso modo anche il tradizionale personaggio interpretato da Jack Black subisce un trattamento; da School of Rock in poi (con l’apice raggiunto ne I fantastici viaggi di Gulliver), il personaggio di Black è sempre stato un gigante intrappolato in situazioni soffocanti che tarpavano ogni sua aspirazione sottomettendola alle logiche della ragione. Qui invece anche la carica anarchica dell’attore americano ne esce ben controllata ed al servizio del racconto.

Oltre che svelare un approccio classico e consapevole, Roth dimostra di sapersi destreggiare bene con l’immaginario di genere, e di aver fatto tesoro degli effetti speciali “meccanici” dei suoi precedenti film. Qui infatti convivono effetti visivi e trucchi magici ben più tradizionali, che contribuiscono ad alimentare la sensazione di anticaglia. Il gusto retro è restituito dalle scenografie del film ma anche da un alone di mistero (come non restare terrorizzati dal racconto sulla guerra in Europa e dall’apparizione di un demone tra i boschi teutonici?) che bilancia la componente narrativa volta direttamente ai più piccoli.

Nella sua classicità di fondo, non stentiamo a credere che Il mistero della casa del tempo possa imporsi con prepotenza nell’immaginario collettivo dei più giovani e fungere da fiaba oscura che scuota le coscienze intorpidite da film-replicanti. In fin dei conti, gli ingredienti che hanno donato le fiabe al tempo del mito ci sono tutti: un bimbo in fuga e il suo percorso di crescita, una magione piena di segreti in cui cercare di risolvere l’enigma, il cattivo di turno che si è perso nella foresta nera della propria mente e due buoni amici che rendono più dolce convivere con il dolore. Probabilmente, la nostra è una semplice utopia. Ciò che è certo è che Eli Roth è più vivo che mai.

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Eli Roth Jack Black Cate Blanchett Kyle MacLachlan 105 minuti
USA 2018
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BLACKkKLANSMAN

di Matteo Berardini
BlacKkKlansman - recensione film spike lee

Da «Dis joint is based on some fo' real, fo' real sh*t» a «Rest in Power». Così Spike Lee apre e chiude il suo BlacKkKlansman, con la grammatica alterata e i motti storici di una lingua comunitaria, rilanciata costantemente dall’emblematico «all da power to all da people». Queste espressioni sono tra le tracce più potenti di un passato fatto di contestazioni e lotte identitarie, e del resto Lee lo sa bene, l’ha sempre saputo e raccontato, che l’azione politica è anzitutto azione di linguaggio. Che il cinema politico è anzitutto una forma di contro-narrazione che conserva precisi scopi e nemici. Che l’identità politica passa anzitutto per gli strumenti culturali attraverso i quali interagiamo con il mondo. Questo perché linguaggio, immagine, racconto sono gli elementi con i quali costruire un proprio immaginario di riferimento, tasselli di uno stesso percorso identitario, specie in un paese iconografico e massmediale come gli Stati Uniti dove il fronte culturale della lotta politica è incentrato sul confronto tra racconti e punti di vista, spazi di narrazione e affermazione di corpi, volti, sguardi. Come quelli, splendidi, che intessono una delle scene più potenti di BlacKkKlansman, quando i partecipanti della riunione al Sindacato Studenti vengono disposti come apparizioni su uno sfondo nero, un mosaico di primi piani in cui galleggiano gli sguardi ipnotizzati dei ragazzi che seguono il comizio di Kwame Ture, le cui parole sono proprio volte ad una riappropriazione del proprio orizzonte culturale.

Gran Premio della Giuria al Festival di Cannes, BlacKkKlansman quindi non può che essere un film di immaginari a confronto, e in questo senso si colloca a perfezione tanto nella poetica generale di Spike Lee quanto nel percorso intrapreso da lui in tempi recenti, un impegno costante a ragionare e ripensare le forme del racconto identitario attraverso il cinema. C’è stato il ritorno al cult culturale (Il sangue di Gesù), le possibilità della narrazione seriale (She’s Gotta Have It), la reinvenzione della classicità applicata alla violenza del reale (Chi-Raq). E adesso BlacKkKlansman, che appare come la summa di questo percorso per come riesce a trasportare le varie istanze coinvolte in un film feroce ma assieme leggiadro, apparentemente satirico ma di fatto estremamente doloroso e arrabbiato, talmente vicino al contemporaneo da assorbire, nel finale, le immagini documentaristiche della tragedia di Charlottesville, dove la violenza e l’odio tornano a mostrarsi in tutta la loro pervicacia e infiltrazione politica.

Con una potenza retorica cristallina, degna di quel grande cinema popolare dagli intenti palesi e dichiarati, Lee non si limita a chiudere con l’immagine di un paese in lutto, con la bandiera ribaltata e virata in bianco e nero, ma accosta lungo tutto il film racconti e miti delle forze politiche in gioco, opponendo ad esempio il ricordo black del linciaggio di Jesse Washington del 1916 alla visione rituale di Nascita di una nazione celebrata dagli uomini del Klan. BlacKkKlansman del resto è tutto un film duale, che non si accontenta di accostare i punti di vista coinvolti ma arriva a sdoppiare il suo protagonista in due entità, la voce nera di Ron Stallworth (John David Washington) e il  corpo bianco di Flip Zimmerman (Adam Driver), doppelgänger del primo poliziotto nero di Colorado Springs, controfigura il cui compito sarà infiltrarsi fisicamente nel Klan dove il suo collega Ron non può, evidentemente, arrivare.

Queste due entità, simboli di una diversità scomoda, negata, creano un cortocircuito che oggi ci appare preziosissimo, un gioco di maschere e riconoscimenti tra l’identità afroamericana di Ron, mutuata dall'immaginario della blaxploitation anni Settanta ma costantemente negata e ricondizionata dal contesto, e le origini ebraiche di Flip, pressoché ignorate dall’uomo fino a che questi non si troverà a contatto con l’ignoranza negazionista e violenta del Klan. Grazie a quest’accostamento, attraverso le corde istrioniche della commedia, BlacKkKlansman chiama in campo concetti complessi relazionandosi direttamente con la sua contemporaneità, di cui denuncia certe aberrazioni senza però rinunciare a restituire il ritratto di una scena, di una lotta, di una comunità. Per questo Lee dedica tanto spazio al rapporto irrisolto tra il bisogno di accettazione e la necessità di conservare una propria identità, tra memoria, rito e individualità, nei cui punti di equilibrio prende posto un orizzonte di lotta che non rinuncia mai alla propria umanità.

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Spike Lee John David Washington Adam Driver Laura Harrier Topher Grace Alec Baldwin 135 minuti
USA 2018
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