Halloween H20 – 20 anni dopo

di Jacopo Bonanni
Halloween H20 - recensione film

Haddonfield, 1963.
Durante la notte di Halloween, l’antico capodanno celtico di Samhain, un bambino imperscrutabile di nome Michael Myers uccide a sangue freddo sua sorella maggiore, prima di essere rinchiuso in stato catatonico nell’ospedale psichiatrico di Smith Groove. Qui è tenuto sotto stretta sorveglianza dal suo psicologo: il Dott. Samuel Loomis. Dopo quindici anni di quiescenza, il 31 ottobre del 1978, il giovane psicotico si rianima allo scoccare della mezzanotte, evade dalla sua gabbia e torna nella sua città natale, sfregiando per sempre l’esistenza dell’ignara sorella minore, Laurie Strode. Da quella fatidica notte nessuno ha avuto più sue notizie perché nel frattempo la ragazza ha cambiato identità trasferendosi in un’altra città, lontana da ciò che Haddonfield rappresenta per lei. Il suo nome adesso è Keri Tate ed è la preside di un prestigioso college in California, dove finge di condurre un’esistenza normale insieme al figlio adolescente John (Josh Hartnett) e alla sua fidanzata (Michelle Williams). Nel 1998 tutti credono che Laurie Strode sia morta e che riposi in pace – ed in un certo senso è così – tranne il suo antico persecutore, riemerso anch’esso dalle ombre del passato per concludere quello aveva lasciato in sospeso. Ma Laurie stavolta è pronta ad accoglierlo.

Vent’anni dopo La notte delle streghe, fallito l’ennesimo tentativo di coinvolgere John Carpenter nel ruolo di regista/produttore, ironia vuole che spetti al veterano del cinema horror Steve Miner (il “padre” del Jason Voorhes di Venerdì 13) riprendere in mano le redini della saga, fiaccata da quattro lustri di oblio cinematografico e controversie legali. Per farlo decide di ripartire dalle origini, cancellando ipso facto le storie dei sequel successivi, con tutte o quasi le loro incongruenze logico-narrative. Con la scomparsa improvvisa di Donald Pleasance, l’idea dei produttori della Dimension/Miramax Films (che avevano acquisito i diritti del franchise nel 1995) è quella di celebrare l’anniversario del primo iconico episodio in grande stile, recuperando le influenze culturali e le suggestioni stilistiche degli esordi per raccontare il finale catartico che tutti i fan stavano aspettando: la resa dei conti tra Laurie e Michael, reclutando l’unica protagonista possibile per la parte: Jamie Lee Curtis.

Il ritorno dell’attrice nel ruolo che l’aveva resa celebre è sicuramente l’aspetto più convincente ed originale dietro l’operazione celebrativa di Halloween H20 – 20 anni dopo, tanto da rivelarsi profetico alla luce del suo nuovo ingaggio nel film diretto da David Gordon Green uscito nel 2018. Questo perché il personaggio della Curtis – anche a distanza di tempo – resta una costante imprescindibile della saga di Halloween, una garanzia di credibilità, soprattutto da quando non è più l’ingenua ed insicura adolescente sotto shock che avevamo conosciuto nel 1981 ma una donna adulta ed emancipata, sopravvissuta ai demoni dell’alcolismo e ai fantasmi dell’inconscio. Oltretutto, in questa sua terza apparizione nel franchise la ritroviamo nelle vesti di madre iperprotettiva, pronta tanto a empatizzare quanto a imbracciare un’ascia – a seconda della necessità – per difendere la sua famiglia e liberarsi della sua metà oscura.

Finalmente Laurie Strode-Jamie Lee Curtis scagiona la saga da ogni accusa di misoginia, sovvertendo uno degli stereotipi più radicati del cinema slasher (quello che relega sempre la donna a vittima designata, compagna remissiva o fanciulla da salvare) e guadagnandosi un posto di rilievo sul podio delle eroine dell’action contemporaneo, accanto a figure del calibro di Ripley-Sigurney Weaver e Sarah Connor-Linda Hamilton.

Da questo punto di vista Miner è il primo a riflettere e a mostrare sullo schermo le ripercussioni psicologiche che quella notte del 1978 ha avuto sui uno dei suoi protagonisti principali, e di conseguenza a restituire attendibilità alla minaccia rappresentata da Michael Myers, qui in veste di spettro di un’ansia condivisa, persistente e intergenerazionale. Il punto debole del film si presenta quando la storia – per esigenze commerciali – vira sulle disavventure drammatico/adolescenziali del figlio di Laurie e del suo gruppo di amici, volti noti al pubblico dei teenager di fine anni novanta (Michelle Williams, Joseph Gordon-Levit) alle prese qui con il golem dello slasher. Così la tensione old fashioned dello scontro tra i due protagonisti principali, puntellato di brillanti allusioni al film di Carpenter, rischia di passare pericolosamente in secondo piano in favore di un ammiccante teen-horror nato sulla scia del successo planetario della saga ultra pop di Scream (complice il coinvolgimento produttivo dello sceneggiatore più in voga di quel tempo momento Kevin Williamson). Tuttavia, nonostante numerosi difetti, ciò che rende affascinante Halloween H20 è la volontà e capacità di racchiudere in unico film – in parte sequel, in parte reboot – l’estetica pluriventennale del cinema slasher che ha reso la saga di Halloween nel bene e nel male il cult che tutti conosciamo: a cominciare dall’influenza di classici come Psyco (emblematico il cameo di Janet Leigh) passando per il boom degli anni ‘80 (la competizione tra Halloween e Venerdì 13) fino al puro divertissement metacinematografico mutuato dalla saga di Wes Craven. Come una lettera d’amore, sgrammatica ma sincera, scritta dal fan Steve Miner al suo idolo di sempre: Michael Myers.

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Steve Miner Jamie Lee Curtis Josh Hartnett Michelle Williams Joseph Gordon-Levitt 85 minuti
USA 1998
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Stop the pounding heart

di Alessandro Gaudiano
Roberto Minervini, Trilogia Texana, Stop the Pounding Heart

Capitolo terzo della trilogia texana. Stop the pounding heart ci invita all’immersione nella vita di una comunità profondamente religiosa nel cuore dell'America sudista: a fugare ogni dubbio, un bambino di nome Dixie, uno degli undici fratelli della protagonista. Lei è Sara, una giovane ragazza non ancora maggiorenne. La vediamo mungere le capre, pregare, frequentare il catechismo e le lezioni in casa (come gli altri membri della comunità, lei non è stata educata a scuola), insegnare i medesimi precetti a fratelli e sorelle. Fedele ai dogmi di una religione che ai nostri occhi appare arcaica e lontana, eppure piena di incertezze e dubbi, come impone la giovinezza. Le viene insegnato che la donna deve sottomettersi all'uomo e che la Bibbia è un libro di scienza e verità universali, una severa maestra con cui deve negoziare un eventuale percorso di dubbio ed emancipazione.

Minervini costruisce assieme ai personaggi – sospesi tra finzione e autorappresentazione – una storia corale che si sedimenta attorno a Sara e alla silenziosa attrazione per un giovane torero. A lato, genitori, famiglia, poligoni di tiro e riti sociali della provincia americana della Bible Belt, la “pancia” di una nazione che partorisce le più profonde contraddizioni d’America. Si può definire in una parola il cinema di Roberto Minervini? Pasoliniano, come quello del suo autore preferito? Neorealista (con i prefissi del caso), per lo sguardo consapevole e l'ideologia del vero che lo attraversa? Lirico, poetico, etnografico? Il fascino dell'opera di Minervini sta innanzitutto nella difficoltà di situarlo. Prismatico ed enigmatico, il suo cinema si colloca su uno spettro amplissimo di possibilità e suggestioni cinematografiche. Abbattuti gli steccati ed eluse le categorie, le immagini scorrono libere e rivelano fulminee verità psicologiche, etnografiche e sociali.

Il cuore che batte dietro le immagini di Stop the pounding heart è la ricerca del vero, a cui le immagini tendono, e che qui esplode in scenari dalla bellezza pittorica, intrisi di erba e ruggine. Un cinema di immersione, appunto: accompagnati da Sara, scaviamo a fondo nella storia di un luogo e di un popolo attraverso un cinema il cui metodo, rigorosissimo, sta nel rifiuto dei confini tra verità e finzione. Un cinema di autonarrazione, come lo ha definito Minervini stesso. O almeno, narrazione collettiva, costruzione di un rapporto il cui esito è un documento audiovisivo che qui trova un equilibrio ideale tra bellezza e autenticità.

Il regista, come nelle sue opere precedenti, gioca su territori neutri, tra finzione e documentario. In questo caso, come nel precedente Low Tide, non c'è un vero e proprio amalgama tra attori professionisti e uomini presi dalla strada, ma una comunità di persone vive e reali e che il regista ha coinvolto in un processo creativo collettivo. Un cinema di finzione che germina dal documentario performativo: autore e protagonisti ci guidano verso un viaggio il cui senso profondo, più che in molto altro cinema, è negoziale e richiede immensa fiducia nello sguardo dello spettatore, nella sua capacità di capire ciò che Minervini cerca di fare e nella disponibilità ad abbandonarsi alla performance.

La macchina da presa pedina i personaggi, zavattinianamente, ma li sa abbandonare quando è necessario, per aprirsi a un quadro più ampio e di respiro etnografico. Sara è dominata dall'ambiente ma, nel film come nella vita reale, esso è troppo angusto per contenerne la curiosità e la sete di vita. Queste incertezze si manifestano come sguardi, esitazioni, silenziosi conflitti; anche le immagini sono ruvide, catturate in luce naturale, tremolanti; forse è per questo che sono così struggenti ed ipnotiche. Talvolta, sembra di vedere lampi del cinema di un altro grande maestro della reticenza: Terence Davies.

Il regista coglie ambiguità e tentennamenti, senza forzare la mano, con lo spirito del documentario leggero (troupe ridotta al minimo e metodologia che ricorda da vicino Frederick Wiseman). La collaborazione con la montatrice dei fratelli Dardenne, chiaramente, è una scelta di stile e un manifesto di intenti. Alla base del film c'è un profondo umanesimo, una fiducia nella vitalità di questi uomini alla periferia del visibile. Un umanesimo opaco e ambiguo, che rifiuta la facile leggibilità della fiction in favore del canovaccio e delle piccole rivelazioni.

Autoriale e testimoniale, descrittivo e lirico al tempo stesso, Stop the pounding heart sorprende per la sua densità poetica e costituisce una delle più vitali elegie di un popolo del cinema recente.

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Roberto Minervini Sara Carlson LeeAnne Carlson Tim Carlson Katarina Carlson Colby Trichell 98 minuti
Italia, 2013
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Haze

di Matteo Berardini
Haze - recensione film tsukamoto

Privo di memoria e identità, un uomo si sveglia in un mondo da incubo, una trappola di geometrie impazzite in cui lo spazio soffoca, comprime, punge, lacera. Una tubatura di ferro incastrata tra i denti, i piedi tormentati dal filo spinato, le ossa e i muscoli schiacciati dai muri di un luogo claustrofobico, che obbliga a movimenti minimali e pose innaturali mentre il dolore e il panico pompano in ogni angolo del corpo. L’oscurità è pressoché totale, fanno eccezione soltanto pochi punti luce che però rilanciano l’orrore piuttosto che schiarire le tenebre. Quel che vediamo oltre la frattura di un muro è una schiera di dannati, uomini nudi colpiti da un tormento che li attraversa come una scarica elettrica; in un altro momento lo spazio si allarga ma lo fa per contenere, letteralmente, un bagno di sangue, un fiume carontesco in cui galleggiano brani seviziati di corpi senza volto. L’incubo sembra essere senza senso, ciclico, meccanico. L’unica alterazione in questo meccanismo sarà l’incontro con una donna, anche lei priva di identità per quanto aggrappata ancora a qualche vaghissimo ricordo. In due forse troveranno una via d’uscita, ma è presto evidente che non può esserci soluzione razionale in questo labirinto di sofferenza.

Radicale, asfissiante, aggressivo. Di tanti film si parla in termini fisici, di impatto su corpo, occhi e nervi dello spettatore, e in quest’ottica Haze è un passaggio obbligato, un film che in soli 49 minuti è in grado di erigere una cattedrale da incubo attorno al corpo umano e poi farla collassare, andando ad opprimere e lacerare ogni resistenza. Tuttavia Haze è tutto fuorché un mero esercizio di stile, una casa degli orrori uscita dal peggiore dei luna park.

Realizzato nel 2005 come parte del “Digital Short Films by Three Filmmakers” (progetto di sperimentazione digitale promosso annualmente dal Jeonju International Film Festival, che nel 2005 vedeva presenti anche il coreano Song Il-gon e il thailandese Apichatpong Weerasethakul), Haze rappresenta un tassello cruciale del percorso registico di Shin'ya Tsukamoto, un mediometraggio che ritorna prepotentemente all’aggressività (cyber)punk degli esordi, a quel Le avventure del ragazzo dal palo elettrico di cui qui si respirano non tanto le ossessioni cyber quanto il rapporto strettissimo tra energia della visione e tecnologia messa in campo, non più pellicola a 16mm ma sguardo digitale ai suoi primi passi. Del digitale Tsukamoto sottolinea tutte le imperfezioni, facendo dell’immagine digitale una pasta tattile che si nutre senza soluzione di continuità del corpo e dell’oscurità dello spazio, dato che i confini della carne sembrano sfaldarsi nel vuoto prima ancora che nel contatto con le infinite asperità che costellano il non-luogo del mediometraggio. Ma soprattutto, in questo legame tra passato e futuro che rilancia la violenza e il pessimismo radicale delle opere giovanili, Haze rappresenta una sintesi straordinaria dei due macrotemi da sempre basilari nel cinema di Tsukamoto, ovvero l’alienazione urbana frutto del feticismo capitalistico e le aberrazioni che questa genera all’interno della relazione uomo-donna. Ad un certo livello infatti il mondo di Haze è il correlativo oggettivo di una crisi di coppia, la manifestazione onirica di un disagio profondissimo che porta un marito e una moglie ad uno scontro quasi mortale (ma i due  troveranno da questa crisi una via d’uscita, come dimostra il flashforward nel finale e soprattutto l’ultimissima scena, che trova i coniugi uniti ad osservare la luce oltre l’inferno). Andando più a fondo però entriamo a contatto con una rappresentazione diretta delle forze che generano tale crisi, ovvero quelle leggi socio-economiche che portano alla mercificazione dell’individuo e dei rapporti, alla frammentazione del tessuto sociale, alla schizofrenia dell’identità. I corpi macellati mostrati da Tsukamoto sono evidentemente quel che resta dell’individuo soggetto alla legge del mercato, una meccanizzazione che scarnifica e opprime nutrendosi del corpo isolato e ridotto a merce. È solo nel ritorno alla coppia allora, nella riscoperta dei sentimenti umani oltre una selva oscura assemblata di meccanismi bestiali e orizzonti di morte, che è possibile ripristinare la condizione umana e sopravvivere alle sue aberrazioni.

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Shin'ya Tsukamoto Shin'ya Tsukamoto Kaori Fujii 49 minuti
Giappone 2005
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Il mistero della casa del tempo

di Matteo Marescalco
Il mistero della casa del tempo - Eli Roth Jack Black recensione film

Ancora una volta si avvicina quel periodo dell’anno in cui le generazioni degli anni ’80 e ’90 si dedicano alle nuove visioni dei vari Jumanji, Gremlins, I Goonies, Hocus Pocus ed Explorers, avventure fino all’ultimo respiro e metafore di un percorso di formazione da intraprendere e di traumi da affrontare. Negli ultimi anni, in piena epoca di quella che è stata già definita tecnostalgia, è tornato di moda un preciso approccio al materiale filmico, del quale in particolare si è reso protagonista lo stile Amblin (semplificando, quel catalogo di storie in cui eventi straordinari ed orrorifici cambiano la vita di persone quanto mai ordinarie ma ancora in grado di sognare). Di qui il moltiplicarsi sul grande schermo di titoli come Super 8, Piccoli brividi, il prossimo Monster House, ritorni in grande stile del desueto e del fuori tempo massimo di cui Il mistero della casa del tempo è evidentemente figlio (del resto è prodotto dalla stessa Amblin Entertainment).

Ciò che coglie di sorpresa in un progetto come questo è il fatto che in cabina di regia ci sia Eli Roth, enfant prodige del torture porn nonché protegee di Quentin Tarantino. Quindi, non esattamente il primo nome che verrebbe in mente qualora si pensasse ad una commedia dai toni oscuri pensata per adolescenti. Dalla totale autarchia creativa di Cabin Fever, capostipite dei wrong-turn movies, all’invasione domestica di Knock Knock fino, ancora, al passaggio alla Metro-Goldwyn-Mayer per la realizzazione del remake de Il giustiziere della notte. Che le dinamiche degli studios abbiano messo la museruola al cane sciolto dell’anti-Hollywood? Non proprio.

In un certo senso anche la casa che dà il titolo a questo film, che riunisce per la prima volta Cate Blanchett e Jack Black, è un ostello delle perversioni che viene invaso da un giovane innocente. Il racconto stesso si lega alla storia sanguigna d’Europa, ai fantasmi dei conflitti mondiali e dei traumi dei sopravvissuti (anche i clienti di Hostel, in fin dei conti, erano semplici fantasmi privi di identità persi ). In questo caso il giovane uomo in questione è Lewis, che dopo l’improvvisa morte dei genitori viene affidato in custodia allo strambo zio. Il ragazzo si reca, dunque, a vivere a New Zebedee, in una magione misteriosa i cui muri sono tappezzati di orologi di ogni tipo. Nella casa c’è molto altro di strano: Miss Florence Zimmerman (una vicina di casa sempre presente), mosaici che si animano ed un magazzino con centinaia di bambole e di marionette dallo sguardo vacuo. Ma soprattutto, la magione cela un’oscura verità relativa all’identità dello zio e allo snervante ticchettio che invade ogni stanza.

L’iconoclastia spietata e le baraonde divertite di The Green Inferno sono necessariamente ridimensionate. Il principale dono portato in dote da questo Il mistero della casa del tempo è un nuovo Eli Roth, meno scatenato ma più attento alla coerenza ed alla compattezza del prodotto filmico. Allo stesso modo anche il tradizionale personaggio interpretato da Jack Black subisce un trattamento; da School of Rock in poi (con l’apice raggiunto ne I fantastici viaggi di Gulliver), il personaggio di Black è sempre stato un gigante intrappolato in situazioni soffocanti che tarpavano ogni sua aspirazione sottomettendola alle logiche della ragione. Qui invece anche la carica anarchica dell’attore americano ne esce ben controllata ed al servizio del racconto.

Oltre che svelare un approccio classico e consapevole, Roth dimostra di sapersi destreggiare bene con l’immaginario di genere, e di aver fatto tesoro degli effetti speciali “meccanici” dei suoi precedenti film. Qui infatti convivono effetti visivi e trucchi magici ben più tradizionali, che contribuiscono ad alimentare la sensazione di anticaglia. Il gusto retro è restituito dalle scenografie del film ma anche da un alone di mistero (come non restare terrorizzati dal racconto sulla guerra in Europa e dall’apparizione di un demone tra i boschi teutonici?) che bilancia la componente narrativa volta direttamente ai più piccoli.

Nella sua classicità di fondo, non stentiamo a credere che Il mistero della casa del tempo possa imporsi con prepotenza nell’immaginario collettivo dei più giovani e fungere da fiaba oscura che scuota le coscienze intorpidite da film-replicanti. In fin dei conti, gli ingredienti che hanno donato le fiabe al tempo del mito ci sono tutti: un bimbo in fuga e il suo percorso di crescita, una magione piena di segreti in cui cercare di risolvere l’enigma, il cattivo di turno che si è perso nella foresta nera della propria mente e due buoni amici che rendono più dolce convivere con il dolore. Probabilmente, la nostra è una semplice utopia. Ciò che è certo è che Eli Roth è più vivo che mai.

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Eli Roth Jack Black Cate Blanchett Kyle MacLachlan 105 minuti
USA 2018
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BLACKkKLANSMAN

di Matteo Berardini
BlacKkKlansman - recensione film spike lee

Da «Dis joint is based on some fo' real, fo' real sh*t» a «Rest in Power». Così Spike Lee apre e chiude il suo BlacKkKlansman, con la grammatica alterata e i motti storici di una lingua comunitaria, rilanciata costantemente dall’emblematico «all da power to all da people». Queste espressioni sono tra le tracce più potenti di un passato fatto di contestazioni e lotte identitarie, e del resto Lee lo sa bene, l’ha sempre saputo e raccontato, che l’azione politica è anzitutto azione di linguaggio. Che il cinema politico è anzitutto una forma di contro-narrazione che conserva precisi scopi e nemici. Che l’identità politica passa anzitutto per gli strumenti culturali attraverso i quali interagiamo con il mondo. Questo perché linguaggio, immagine, racconto sono gli elementi con i quali costruire un proprio immaginario di riferimento, tasselli di uno stesso percorso identitario, specie in un paese iconografico e massmediale come gli Stati Uniti dove il fronte culturale della lotta politica è incentrato sul confronto tra racconti e punti di vista, spazi di narrazione e affermazione di corpi, volti, sguardi. Come quelli, splendidi, che intessono una delle scene più potenti di BlacKkKlansman, quando i partecipanti della riunione al Sindacato Studenti vengono disposti come apparizioni su uno sfondo nero, un mosaico di primi piani in cui galleggiano gli sguardi ipnotizzati dei ragazzi che seguono il comizio di Kwame Ture, le cui parole sono proprio volte ad una riappropriazione del proprio orizzonte culturale.

Gran Premio della Giuria al Festival di Cannes, BlacKkKlansman quindi non può che essere un film di immaginari a confronto, e in questo senso si colloca a perfezione tanto nella poetica generale di Spike Lee quanto nel percorso intrapreso da lui in tempi recenti, un impegno costante a ragionare e ripensare le forme del racconto identitario attraverso il cinema. C’è stato il ritorno al cult culturale (Il sangue di Gesù), le possibilità della narrazione seriale (She’s Gotta Have It), la reinvenzione della classicità applicata alla violenza del reale (Chi-Raq). E adesso BlacKkKlansman, che appare come la summa di questo percorso per come riesce a trasportare le varie istanze coinvolte in un film feroce ma assieme leggiadro, apparentemente satirico ma di fatto estremamente doloroso e arrabbiato, talmente vicino al contemporaneo da assorbire, nel finale, le immagini documentaristiche della tragedia di Charlottesville, dove la violenza e l’odio tornano a mostrarsi in tutta la loro pervicacia e infiltrazione politica.

Con una potenza retorica cristallina, degna di quel grande cinema popolare dagli intenti palesi e dichiarati, Lee non si limita a chiudere con l’immagine di un paese in lutto, con la bandiera ribaltata e virata in bianco e nero, ma accosta lungo tutto il film racconti e miti delle forze politiche in gioco, opponendo ad esempio il ricordo black del linciaggio di Jesse Washington del 1916 alla visione rituale di Nascita di una nazione celebrata dagli uomini del Klan. BlacKkKlansman del resto è tutto un film duale, che non si accontenta di accostare i punti di vista coinvolti ma arriva a sdoppiare il suo protagonista in due entità, la voce nera di Ron Stallworth (John David Washington) e il  corpo bianco di Flip Zimmerman (Adam Driver), doppelgänger del primo poliziotto nero di Colorado Springs, controfigura il cui compito sarà infiltrarsi fisicamente nel Klan dove il suo collega Ron non può, evidentemente, arrivare.

Queste due entità, simboli di una diversità scomoda, negata, creano un cortocircuito che oggi ci appare preziosissimo, un gioco di maschere e riconoscimenti tra l’identità afroamericana di Ron, mutuata dall'immaginario della blaxploitation anni Settanta ma costantemente negata e ricondizionata dal contesto, e le origini ebraiche di Flip, pressoché ignorate dall’uomo fino a che questi non si troverà a contatto con l’ignoranza negazionista e violenta del Klan. Grazie a quest’accostamento, attraverso le corde istrioniche della commedia, BlacKkKlansman chiama in campo concetti complessi relazionandosi direttamente con la sua contemporaneità, di cui denuncia certe aberrazioni senza però rinunciare a restituire il ritratto di una scena, di una lotta, di una comunità. Per questo Lee dedica tanto spazio al rapporto irrisolto tra il bisogno di accettazione e la necessità di conservare una propria identità, tra memoria, rito e individualità, nei cui punti di equilibrio prende posto un orizzonte di lotta che non rinuncia mai alla propria umanità.

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Spike Lee John David Washington Adam Driver Laura Harrier Topher Grace Alec Baldwin 135 minuti
USA 2018
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7 sconosciuti a El Royale

di Emanuele Di Nicola
7 sconosciuti a El Royale - recensione film

Un hotel negli anni Sessanta, al confine tra California e Nevada. Un colpo nel passato e una refurtiva nascosta sotto il pavimento. Sette personaggi in arrivo. Un meta-noir che riflette apertamente sul genere. Con Drew Goddard bisogna farci i conti: il regista, sceneggiatore e produttore classe 1975 è ormai un nome importante nel cinema americano, astro nascente (e ora nato) con una serie di script (Cloverfield di Matt Reeves, The Martian di Ridley Scott) e soprattutto con il primo film da lui girato, Quella casa nel bosco che nel 2012 ha agitato le acque dell’horror, tra consapevolezza del ruolo del demiurgo, ironia/autoironia e splatter leggibile al primo e altri gradi. Un’opera a cui, rivista oggi, si riconosce tranquillamente l’idea, la struttura e la profonda personalità: è stato per molti un cult, per quanto abbia senso nell’epoca della relatività e dell’etichetta a tavolino. Certo è che la scrittura era il nucleo di quel film d’esordio, con quell’osservazione clinica dall’alto che accendeva la riflessione meta, così come è centrale in tutta l’opera di Goddard: ovvio allora che lo sia in 7 sconosciuti a El Royale (titolo italiano di Bad Times at The El Royale), che ancora prima dell’uscita si porta dietro un’aura mitica e imperdibile.

La storia è archetipica: un manipolo di personaggi si riunisce in un luogo chiuso. C’è padre Daniel Flynn (Jeff Bridges), criminale travestito da prete che arriva all’hotel con un obiettivo; l’aspirante cantante Darlene Sweet (Cynthia Erivo); Laramie Sullivan (John Hamm), rappresentante di commercio con parlantina e in realtà agente federale; il concierge Miles Miller (Lewis Pullman, figlio di Bill Pullman) diviso tra formalità, dipendenza e voyeurismo; Emily (Dakota Johnson) che arriva con una ragazza in ostaggio (Cailee Spaeny) e in fuga da qualcosa. Il macguffin, come detto, è quel vecchio bottino da ritrovare.

Non è rilevante soffermarsi oltre sugli eventi e le relazioni tra i personaggi perché, di fatto, lo svelamento graduale è il senso del racconto e il suo diletto. Ben più importante è sbucciare l’operazione che Goddard pensa, scrive e dirige: il punto di riferimento è inconfondibile, Quentin Tarantino e in particolare The Hateful Eight, che la traduzione italiana si cura di citare proponendo un numero nel titolo (ma si pensa anche a 7 psicopatici di Martin McDonagh). La sostanza invece si fa più complessa: innanzitutto c’è la premessa liminare, con i protagonisti che si muovono continuamente al confine tra i due Stati (una striscia rossa lo segnala all’interno dell’hotel), da una parte si può bere e dall’altra no, in un correlativo oggettivo della doppiezza insita in ognuno dei caratteri. Tutti hanno qualcosa da nascondere, ogni persona sono due.

Il regista moltiplica la cabina di regia del film precedente, nella trovata delle stanze a doppio specchio del motel, tutte, in cui i clienti vengono costantemente osservati per conto di un’entità superiore non specificata (come i tecnici di Quella casa nel bosco, la mente non ha nome) al fine di probabili ricatti. Il gestore dell’hotel guardone, dai tempi di Psyco, osserva e qui riprende all’uopo con una cinepresa, gira su pellicola proprio come Goddard; e una bobina misteriosa fa anche parte della refurtiva, un video che incastra un uomo importante ormai scomparso e che non ci verrà mai mostrato. Basti questo per sondare la profondità metalinguistica del film, l’ambizione della sua messa in abisso, a cui contribuisce l’ambientazione Sixtiees: il pezzo grosso nella bobina è forse perfino Kennedy? E l’irruzione di Billy Lee (Chris Hemsworth), guru violento e carismatico, non ricorda Charles Manson arrestato nel 1969? La rete dei rimandi è potenzialmente infinita. Volendo cercare, si può trovare davvero di tutto dentro il dispositivo: da David Lynch a Sergio Leone («Mi sono ispirato al modo in cui allarga il quadro»), dagli hotel movies (la scansione in capitoli-stanze) al musical nero con la vera cantante Cynthia Erivo in esibizione perenne. Bridges è citazione vivente dei Coen. John Hamm di Mad Men. Nel nome Laramie risuona L'uomo di Laramie di Anthony Mann del 1955 (e il “buono” fa la stessa fine di James Stewart). E così via.

La gestione narrativa si conferma efficace: tra agnizioni e colpi di scena, Goddard gioca sulla moltiplicazione della prospettiva, girando le stesse scene da più angolazioni, celando o mostrando particolari a sua totale discrezione, e così costringendo alla continua rivalutazione di ciò che stiamo guardando. Pure troppo. Pieno di tic, vezzi e ritornelli, 7 sconosciuti a El Royale è anche un film freddo e accademico, nettamente calcolato, dimostrazione di bravura che non si nega ma diviene eccessiva nella sua costante ostentazione: dinanzi all’ennesimo delinquente vestito da prete si spinge il pedale del grottesco, si disegna la situazione weird, si rimesta nel topos usurato e nella messa in discussione del genere. Alcune sequenze di Goddard chiamano l’applauso, certo: sicuramente l’azione congiunta di padre Flynn che recupera il bottino con l’aiuto di Darlene la quale, sapendosi osservata, canta e batte le mani per coprire ogni colpo di martello, realizzando un inganno visivo-auditivo semplicemente magistrale. Alla lunga, però, il congegno suona prolisso (144 minuti): appesantito da flashback e divagazioni non sempre risolte, pericolosamente vicino allo scherzo futile come nel cameo di Xavier Dolan, avido impresario musicale che in due minuti sembra parodiare il presunto “snobismo” del suo cinema. Un po’ esagerato.

Insomma, il Goddard di 7 sconosciuti a El Royale è impegnato a confermare il suo statuto di cult, lo vuole a tutti i costi e proprio per questo non lo ottiene. A cavallo tra vari stati (non solo Nevada e California), la sua programmaticità lo mantiene nella zona dell’esercizio di stile e lontano da Tarantino. Possibile reazione: divertimento, applicazione al discorso metafilmico, perdita graduale di interesse, un filo di noia. Goddard non lo cita, ma a proposito di formule viene in mente David Mamet: autore di titoli come Il colpo, sommo teorico e cineasta che intreccia regole del genere, riflessione sul meccanismo e grande divertimento, semplice “piacere della visione”, in un impasto da manuale. Qui resta il manuale.

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Drew Goddard Jeff Bridges Cynthia Erivo John Hamm Lewis Pullman Dakota Johnson Chris Hemsworth 141minuti
USA 2018
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Low Tide

di Carmen Albergo
Low Tide di Roberto Minervini

Trilogia texana, capitolo secondo. Bassa marea.

"... questo doloroso e confuso girovagare dove il tempo non è più quello dell’orologio, ma quello che concede la vita." Così scrive Arianna Pagliara su The Passage, il film d'esordio del regista Roberto Minervini, e così (con)segue anche l'opera seconda, Low Tide – Bassa marea: un moto errante, nel doppio senso di perdersi e  fallire, nel voler ingannare il tempo e la sua condanna. Minervini esaspera ancor di più la questione esistenziale dell'essere tempo e avere tempo, già affrontati in modo speculare con i personaggi dell'opera prima (una donna in fin di vita ha ed è il tempo che le resta e nessuna alternativa, mentre un uomo appena uscito di galera è tutto il tempo che ora di nuovo ha e nessuno scopo, per sapere che farci) ma qui si fa più minuzioso e lirico. L'essere di passaggio in questa vita, parvenze fugaci e precarie, marca anche Tony, ragazzino dalle fattezze angeliche ma dall'aura spettrale, che trascorre in solitudine le proprie giornate fuori casa e in casa silenzioso s'aggira ancor più ignorato, invisibile sotto gli occhi apparentemente estranei, quasi ostili  della madre. Di questa giovane donna nulla è dato sapere, inserviente in una casa di riposo, spurga i giorni decrepiti in notti di sesso e alcol.

Ancora una volta la macchina da presa accompagna il calvario dell'assenza e del bisogno di contatto umano, epidermico, un pedinamento che è quasi il vero (ri)prendersi cura dell'altro, questa volta insostenibile nella fragilità dell'infanzia, al punto da fare di ogni gesto spontaneo e impulsivo metafore estreme d'apatia e elemosina d'affetto: un gattino fa le fusa serrato dietro la finestra, serpenti e rane da accarezzare e da cui lasciarsi accarezzare, l'uccisione di un vitello a distanza ravvicinata, un pesce appena pescato e pugnalato. Proprio nel gioco sottaciuto con gli animaletti con cui entra in contatto si simula, consuma e sublima la sua tragedia, perchè questa è l' unica vita che sfiora. Tony è la cavalletta fuoriuscita da un barattolo che si dimena contro i vetri e forse muore fuori campo nel pugno della mano. Tony è la boccia con poca acqua dei pesciolini rossi, che vuol riempire di pioggia, magari per annegare in quella infinità di lacrime che non versa o al contrario riversarla in una piscinetta di plastica e immergendosi con i pesci lasciarsi  cullare. Tony deve ingannare il tempo che minaccia costantemente di ridurlo a cosa, ad operazione meccanica, reiterazione di azioni quotidiane, insulse eppure foriere di morte a volerla disperatamente cercare, come raccattare lenzuola e fare il bucato. Nell'indifferenza che lo attanaglia stana il calore che resta del corpo materno, prima che evapori (di nascosto condivide il cibo in scatola appena aperto; si accoccola in un letto appena rifatto). Lì a due passi è sempre il colpo (di scena, se si considera l'apparizione di una pistola) fatale, che può essere l'unico boato, sopra le grida al vento nella notte, a far finalmente deflagrare il suono sordo della parola "mamma", sempre fuori luogo, a sproposito, colpa semplice d'essere vivo, venuto al mondo plausibilmente indesiderato. In questa partitura drammaturgica essenziale, che segue il tempo del farsi da sé, dell'accadere e dell'incedere non studiati,  transitori, come per The passage liberatorio è l 'attimo cruciale, l'irrimediabile è l'ultima occasione, letteralmente l'ultima spiaggia, che non è più deriva, ma porto sicuro. Abbraccio, ancora in un imperante silenzio, che era ed è amore sotto la cenere.         

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Roberto Minervini
Belgio, Italia, USA, 2012
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Soldado

di Matteo Berardini
Soldado - recensione film Sollima Sheridan

Ultime luci del tramonto, al confine tra gli Stati Uniti e il Messico. Alcuni uomini delle forze speciali americane camminano nel deserto fino a che non raggiungono un tunnel che porta dritto a Sud, oltre la frontiera. Mentre scendono, i loro corpi si dissolvono al livello del terreno, le silhouette spiccano sul cielo in fiamme e tremano per il calore residuo prima di essere assorbite dalla linea dell’orizzonte. È la frontiera contemporanea secondo Denis Villeneuve e Roger Deakins, un terreno di lupi privo di regole e morale figlio della militarizzazione del confine. È la guerra alle porte di casa, il caos esercitato come arma per disgregare, sovvertire, conquistare. Dividi et impera.

Nel 2015 Sicario metteva in scena in modo magistrale il venir meno di ogni regola nella lotta degli Stati Uniti al narcotraffico, una crisi valoriale che trovava nella frontiera dello sceneggiatore Taylor Sheridan il cardine della sua rappresentazione. Principale artefice di quello che potremmo definire come un momento neo-western, Sheridan inaugurava con Sicario una riscrittura del mito del confine, trasformato però da terreno di scontro tra wilderness e civilitazion a liquido punto di contatto in cui la violenza si diffonde per osmosi tra mondi non più così antitetici. La corruzione interiore dell’Ethan Edwards di Sentieri selvaggi elevata a meccanica di sistema. Al centro del discorso filmico imbastito da Villeneuve-Sheridan c’era però un cortocircuito di base, la presenza dell’agente Macer interpretata da Emily Blunt, un polo femmineo esterno a quell’orizzonte di sangue che generava nella sua distanza critica una triangolazione di sguardi tra i killer messicani, i militari e lei, che di quell’orrore era testimone inconsapevole e rifugio introspettivo per lo spettatore. Sicario – Day of The Soldado riparte dalla stessa frontiera ma radicalizza l’orizzonte della lotta, eliminando l’elemento esterno, virginale, dall’equazione e lasciando lo spettatore in balia di un mondo senza regole.

Il sicario Alejandro (Benicio del Toro) e l’agente speciale Matt Graver (Josh Brolin) sono i protagonisti assoluti della pellicola, una coppia virile di uomini al limite che arrivano allo spettatore senza intermediazioni che ne facilitino la ricezione. Sono essenze di quella violenza e di quel sangue, uomini che hanno barattato la loro umanità all’insegna del conflitto e dell’obiettivo da raggiungere. Ma l’elemento femminile, in questo film così asciutto e assieme testosteronico, spesso teso all’inverosimile come una trappola sul punto di scattare, ritorna nelle vesti della bambina messicana il cui rapimento genera tutta la vicenda. La ragazza si lega ad Alejandro come uno spettro del passato, la sua presenza è una frattura nella diga di odio costruita dall’uomo per arginare la sua umanità, e in quanto tale metterà in crisi anche il rapporto tra Matt e Alejandro, uomini soli al confine con l’amicizia che rischiano per questo di pagare il prezzo del nuovo mondo che stanno contribuendo a costruire.

Seppur conclusa la sua trilogia della frontiera (Sicario, Hell or High Water, Wind River), Taylor Sheridan non si allontana dai temi e luoghi del western, il più classico dei generi che dopo anni di vita sottotraccia sta tornando ad imporre le sue logiche nel cinema di genere americano (di recente ne ha parlato Leonardo Strano per The Equalizer 2). Ma se la serie tv Yellowstone è apparsa come un proseguimento forte e coerente di questo processo di riscrittura, Soldado è un secondo capitolo dalla sceneggiatura meno solida, che dopo aver messo in campo una premessa dal potenziale esplosivo (il traffico di essere umani al confine tra Stati Uniti e Messico come breccia per il dilagare del terrorismo) rinuncia a seguirne gli sviluppi per incentrarsi sui due protagonisti. L’ampia prospettiva geopolitica passa in secondo piano rispetto ai conflitti interni di Alejandro e Matt, contraddizioni traumatiche che con un violento zoom si impongono come nodi centrali del discorso, chiavi di lettura dell’intera situazione. Con la focalizzazione del racconto però Soldado perde respiro, minato da qualche escamotage di troppo e da una generale forzatura degli eventi, pensati evidentemente per fare da base ad un terzo capitolo del nuovo franchise.  

Nonostante una scrittura meno ispirata, probabilmente dovuta ad un’espansione narrativa non pensata ai tempi del Sicario originale, Soldado resta un film di genere estremamente solido, sorretto dallo sguardo muscolare del nostro Stefano Sollima che si svela capace di lavorare sulla tradizione western come e più di molti registi americani. Straniero in terra straniera, ma a conti fatti regista completo e maturo, Sollima dimostra di trovarsi perfettamente a suo agio nel calarsi dentro gli incubi criminali del terzo millennio, mettendo in campo uno sguardo così pienamente americano da risultare anacronistico al giorno d’oggi, in tempi in cui il genere ad ampio budget sembra appannaggio esclusivo di cinecomics e mega-produzioni.

Reduce dal successo seriale di Gomorra e dalla magniloquenza (a tratti eccessiva) di Suburra, Sollima evita di ripercorre le stesse strade e si getta anima e corpo in un cinema d’azione calibrato al millimetro, teso come la traiettoria di un proiettile per come riesce a costruire scene ad alto tasso di adrenalina sempre controllate, sempre contenute all’interno di rigide geometrie di sguardi e corpi in lento movimento. La lezione è quella del miglior cinema bellico applicato al western (o viceversa che dir si voglia) incarnato dall’ultima Bigelow e dal Villeneuve, ovviamente, di Sicario, riferimenti tensivi che Sollima fa propri senza cercare innovazioni a tutti a costi, favorendo piuttosto il ricorso solido e muscolare alla tradizione. Il risultato è un film fiacco sul fronte della scrittura ma dal respiro sicuro e appassionante per quanto riguarda non solo le scelte di regia, ma il modo in cui tramite esse si interviene sui corpi dei due protagonisti, sui tempi e spazi del racconto, di fatto scrivendo e plasmando il film più in profondità che con la scrittura stessa.

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Stefano Sollima Benicio del Toro Josh Brolin Isabela Moner Jeffrey Donovan Catherine Keener Matthew Modine 122 minuti
Usa 2018
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Lodge 49

di Attilio Palmieri
Lodge 49 - recensione serie tv amc amazon prime

Lodge 49 è uno show AMC arrivato in Italia questa estate grazie al servizio streaming di Amazon Prima Video. In un anno pieno di serie di grande interesse, ma anche di delusioni spesso inaspettate, questo show si distingue come una delle più originali tra le novità del 2018, capace di non imitare modelli già ben definiti (come ha fatto ad esempio Sharp Objects) ma di proporre un racconto brillante che fosse anche originale.

Lodge 49 offre agli spettatori un nuovo modo di guardare ai drama televisivi, raccontando con leggerezza la malinconia e la depressione di personaggi i quali, se raccontati con la consueta cupezza, sarebbero l'ennesima variazione sul tema di cliché ormai usurati. La serie ha quindi il coraggio e la sfrontatezza di dire addio ai toni dark di tanti show di qualità che hanno dominato il recente passato del panorama televisivo americano cable, utilizzando l'ironia per sottolineare le difficoltà più o meno impreviste della vita (in modo simile a quanto fatto l'anno scorso da Patriot).

Gli stessi protagonisti sono il veicolo principale di questa nuova modalità di racconto: in questo caso non parliamo né di eroi né di antieroi, non abbiamo di fronte né Jamie Fraser né Don Draper,  bensì uomini e donne che non sono minimamente in grado di prendere in mano la propria vita e che molto spesso ne vengono sopraffatti. Per certi versi si tratta di personaggi molto simili al Jimmy McGill di Better Call Saul, ovvero degli esseri umani deboli, incerti, ancora meno capaci di autodeterminarsi, e che gli autori non hanno paura di rappresentare in tutte le loro indecisioni, in tutta la loro umanità.

La serie racconta della Loggia 49, una comunità di perdenti di Long Beach che guarda in maniera nostalgica a un passato ricco di successi e meraviglie (non si sa bene fino a che punto inventati) ma che vive un presente tutt'altro che roseo, fatto di difficoltà economiche e solitudine. I personaggi sono losers che non troverebbero spazio in altre serie tv, e che invece qui vengono dipinti con precisione e attenzione alle sfumatura da un racconto che fa emergere tutta la loro dignità. Tra questi protagonisti in totale paralisi emerge Dud (interpretato da Wayatt Russell, figlio di Kurt Russell e Goldie Hawn), ex surfista ferito in maniera irrimediabile dal morso di un serpente e costretto a rinunciare alla sua grande passione. La serie di sciagure capitategli non termina però con quest'incidente perché lui e sua sorella Liz si ritrovano improvvisamente sovrastati dai debiti lasciatigli dal padre defunto. Tuttavia il destino per loro non ha in servo solo crudeltà, perché in maniera quasi casuale li fa unire a una comunità di disadattati (la Loggia) nella quale troveranno una sorta di nuova dimora, soprattutto dal punto di vista affettivo.

Il mondo ritratto da Lodge 49 è profondamente in crisi, non solo dal punto di vista valoriale, ma prima di tutto da quello economico. Questa costante tematica si riverbera anche sul livello stilistico perché lo stesso ritmo della serie si allinea con quelli dei personaggi, i quali hanno da tempo lasciato andare ogni velleità di scalata sociale, di rincorsa del profitto e competizione professionale, scegliendo una vita vissuta a giri molto più bassi, per certi versi senza particolari ambizioni ma fatta di autoconservazione e solidarietà reciproca. Nel corso di tutti gli episodi è forte la sensazione che la Loggia del titolo, oggi, non sia altro che uno scudo, un modo per costruire una bolla dentro la quale difendersi dal mondo esterno e continuare a vivere all'interno del proprio universo, con le proprie regole, ignorando tutti ciò che c'è all'esterno. Nel suo nichilismo esasperato questa la visione del mondo che ne emerge è estremamente contemporanea, perché capace di parlare a un pubblico che probabilmente vive la stessa insoddisfazione verso la vita dei protagonisti, la stessa disillusione in un futuro miglore e magari riconosce nella soluzione “solidale” da loro adottata una simile via di fuga.

Lodge 49 è quindi soprattutto una serie di personaggi, di individui ormai abituati al peggio e quasi anestetizzati da una vita così orrorifica rispetto alla quale sono i primi a mettersi ai margini. Sono uomini e donne che hanno bisogno di sentire qualcosa, che stanno con difficoltà cercando di imparare nuovamente a provare emozioni, a riconoscersi a vicenda. Per loro non è neanche necessario fare cose “importanti” (importanti per chi poi?) come fare carriera, diventare ricchi oppure avere delle proprietà, basta anche solo certificare a se stessi e agli altri la propria esistenza, il proprio esistere in un mondo che stritola i singoli individui, eccetto i (pochi) vincenti.

Tra i tanti meriti di Lodge 49 c'è quello di ritrarre una generazione uccisa dalla nostalgia, senza più carattere e coraggio (o forse semplicemente senza la voglia di averli perché definitivamente senza speranza), perennemente in difesa, che anche quando prova ad andare verso l'orizzonte finisce in un attimo la benzina e quando spicca il volo perché finalmente ne ha beccata una giusta viene tirata giù da un cecchino. Tutto questo potrebbe avere il volto di un racconto deprimente che mette a dura prova anche lo spettatore più preparato, invece ne esce esattamente il contrario, una serie brillante, dall'ironia sarcastica e amara, che si vorrebbe non finisse mai.


«Always go looking for unicorns when we’ve got rhinos. A rhinoceros is a fascinating animal. All this fascinating stuff right here in front of us. Screw unicorns, man».

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Wyatt Russell Linda Emond Brent Jennings 1 stagione da 10 episodi
USA 2018
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La terra dell'abbastanza

di Riccardo Bellini
La terra dell'abbastanza - recensione film

Nello squallore della Roma suburbana La terra dell’abbastanza ci mostra alcune casette colorate. Sono apparizioni fiabesche, note di un realismo magico atipiche per un film ambientato nell’hinterland malavitoso. Eppure quelle pennellate di colore, volute e cercate dai registi Fabio e Damiano D’Innocenzo, sono gli unici bagliori di speranza a fare da sfondo alle chiacchiere di Mirko e Manolo, amici fraterni desiderosi di trovare la propria strada, insieme, magari come barman o aspiranti cuochi. Basta però un viaggio in auto al calar della notte per piombare tra le tenebre più livide: l’assassinio accidentale di un pedone, la fuga, la scoperta dell’identità dell’uomo, la «svorta» con l’ingresso nel mondo del crimine e la rapida discesa all’inferno. I ragazzi di vita si ritrovano ben presto con una vita violenta che sfugge loro dalle mani, così come quel futuro tanto desiderato.

La terra dell’abbastanza, presentato nel “Panorama” del Festival internazionale del cinema di Berlino, non ossequia le mode di certo, pur fortunato, cinema crime nostrano. Non è Suburra né tantomeno Romanzo criminale, o i suoi vari ed eventuali derivati. È più vicino per sensibilità pasoliniana al Caligari di Non essere cattivo, ma senza esserne debitore in quanto scritto molto tempo prima della sua uscita. Prediligendo i dilemmi dell’animo alle crudeltà inflitte alla carne, il film pone al suo centro la storia di un’amicizia che scavalca il genere per affondare nella rappresentazione tombale di un’umanità aliena a qualsiasi presupposto etico, immersa nei toni algidi dettati da una violenza sporca, repellente, mai spettacolarizzata.

A pagare le spese più alte di tanto abbruttimento sono ovviamente i giovani protagonisti, interpretati dagli ottimi Andrea Carpenzano e Matteo Olivetti, il cui sguardo ancora bambino passa dall’incanto di fronte all’espositore di una pasticceria allo sconcerto suscitato dalla visione di uno stupro. La terra dell’abbastanza esula infatti dalle mere vicende di periferia, interpellando le nostre responsabilità nei confronti delle generazioni future. Non a caso il film è adombrato dalla presenza di padri biologici alla deriva morale – un Max Tortora sempre più a suo agio in ruoli genitoriali drammatici, vedi Sulla mia pelle – e di padri padroni abominevoli la cui unica legge è quella del più forte – Luca Zingaretti nel ruolo del malavitoso Angelo – tutti colpevoli di aver precluso a Mirko e Manolo, con i loro esempi aberranti e la promessa di “sogni” distorti, la possibilità di un futuro.

In un’Italia sempre più sorda alle più elementari questioni etiche, un’Italia in cui ci si ostina a credere che i problemi stiano sempre fuori dalla porta di casa, affibbiare a film come La terra dell’abbastanza l’etichetta di “storie borderline”, incapaci di rivolgersi a un quadro più ampio che ci riguarda tutti, significa acclimatarsi a quest’indifferenza. Che lo si creda o no, a interrogarci restano comunque i volti dei due protagonisti, i muscoli facciali contratti in ferite dell’animo, il loro dolore trattenuto a stento e perciò tanto più fatale e imprevedibile. Gli esordienti fratelli D’Innocenzo, cinefili onnivori e autodidatti – in programma un western al femminile e una fiaba dark – dimostrano di saper ascoltare quei volti, ponendoli in dialogo con il nostro tempo. Resta da capire se anche noi siamo in grado di fare altrettanto.

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Damiano e Fabio D’Innocenzo Andrea Carpenzano Matteo Olivetti Milena Mancini Max Tortora Luca Zingaretti 95 minuti
Italia 2018
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