Halloween II (2009)

di Matteo Berardini
Halloween-II-2009 - recensione film rob zombie

Tra i protagonisti della scena metal americana di fine anni ’90, Rob Zombie approda al cinema nel 2003, nessuna avvisaglia ad anticipare l’inizio di una carriera da autore horror completo, regista, sceneggiatore e produttore, aperta dal promettente La casa dei mille corpi e confermata da un grande sequel, La casa del diavolo. Da quel dittico, crogiolo di personaggi e ossessioni covato per anni, incontro della sfrenata passione horror con i ricordi di un’infanzia trascorsa nel mondo circense, Zombie fa il salto e tenta l’impresa: accettare il reboot della saga di Halloween, che significa confrontarsi con il mito e cancellare in un sol colpo la deriva di un personaggio avvitato su sé stesso.
Il risultato è Halloween – The Beginning, un film che funziona e convince soprattutto per come riesce a reinventare l’icona di Michael Myers rispettandone al tempo stesso l’essenza. Zombie dona a “The Shape” carne e sangue, una psicologia deviata e una famiglia disfunzionale, senza che questo cancelli però quel pozzo di oscurità insondabile che il personaggio porta da sempre con sé. Michael è adesso un ragazzo con un’adolescenza difficile e una tara genetica corrotta («la combinazione perfetta di elementi esterni e interni» lo definirà il nuovo Dottor Loomis) ma è anche l’incarnazione stessa del male, l’emanazione di un incubo inconoscibile e impermeabile ad ogni forma di empatia e correzione. Nella stessa direzione va questo Halloween II, sequel non pianificato del nuovo corso in cui Zombie rilancia la componente eversiva e si prende rischi altissimi, impossessandosi di fatto di personaggi e situazioni dall’interno del suo filtro autoriale.

Se c’è un elemento che contraddistingue l’approccio di Zombie alla materia di genere, quello è l’empatia. Escluso il brutto incidente di 31, tutti i film del regista sono una traversata di sofferenza ben lontana da ogni intento goliardico o ludico. Il body count, l’enumerazione divertita dei morti ammazzati su uno schermo (ricordate Scream, il momento in cui i protagonisti guardano Halloween e si divertono lanciando popcorn e sbeffeggiando i protagonisti?) diventa con Zombie qualcosa di troppo scomodo da portare avanti; vittime e mostri non sono più pedine ma personaggi a cui il film dona sempre una forma di umanità, un momento di vicinanza che rende la fine troppo dolorosa per alimentare una visione spensierata. Quest’approccio esploderà raggiungerà il suo massimo con Le streghe di Salem, magnifica epica lisergica sulla depressione e la solitudine, ma già in questo Halloween II il lavoro su Loomis, Laurie Strode e Michael ha dell’incredibile.

Il celebre dottore, nemesi della serie classica orfana del volto di Donald Pleasence, rivela rispetto al primo episodio un cambiamento radicale. Da figura paterna che ha fallito il proprio compito e ne paga le conseguenze, Samuel Loomis diventa un’icona pop della società dello spettacolo, un dottorucolo da libri inchiesta editati in paperback e ospitate nei talk show, che cova dentro di sé il ricordo di quel che è stato ma cerca il più possibile di rinnegare quell’esperienza monetizzando vittime e carnefice.
Laurie Strode, sorella superstite di Michael, resta il bersaglio prediletto del fratello, l’ossessione che alimenta la spirale di sangue, ma per lei il passato è un fardello ingombrante che apre le porte alla follia. Laurie semina morte attorno a sé ma soprattutto convive con una tara di pazzia omicida che urla a voce sempre più alta, conquistando il suo spazio nei sogni e nelle fantasie. Il tema dell’ereditarietà del male non è inedito nella saga, già la piccola Jamie Lloyd di Halloween 4 soffriva la stessa condanna, ma qui il discorso riceve un’attenzione psicologica ben più intensa e vibrante, intrisa appunto di quella sofferenza esistenziale che caratterizza lo sguardo di Zombie.
E infine c’è Michael, ovviamente, un personaggio talmente rivisitato da offrire, nella director’s cut del film, una delle scene finali più emozionanti dell’intera saga: tormentato dai fantasmi del passato, ossessionato dall’idea di dover ricreare il suo nucleo famigliare, Michael si scaglia contro il padre putativo Loomis e urla contro il dottore di morire, accoltellandolo più volte. Il tutto a volto scoperto, significativamente nel film che più di tutti si impegna a donare al personaggio una sua fisicità umana, terrigna, carnale. Non a caso nelle interviste a Loomis, Michael viene paragonato a Bundy e altri serial killer americani, gli viene dato un profilo psicologico approfondito, che pur non funzionando a dovere (stona la presenza allucinata della madre con tanto di referente psicanalitico junghiano) porta ad una rappresentazione del Male ricca di sfumature dolorose.

Halloween II intreccia gli esiti di questi tre personaggi, resi tridimensionalmente con uno sguardo ricco di pietà e interesse, vicinanza umana che si traduce in un approccio registico intriso di un realismo sporco, immediato, che serve il Mito da una direzione nuova e inedita ma non per questo meno efficace.

Categoria
Rob Zombie Scout Taylor-Compton Malcolm McDowell Tyler Mane Brad Dourif Danielle Harris Sheri Moon Zombie 119 min. (Director's Cut)
USA 2009
Immagine con larghezza massima
Larghezza massima

Killing

di Samuele Sestieri
Killing

“La via del samurai è quella della morte” dice Shin'ya Tsukamoto in conferenza stampa. Quattro anni dopo Nobi – Fires on the Plain, il grande autore giapponese torna in concorso al festival veneziano con un altro film in costume che non è mai quello che sembra.

Pensare Tsukamoto che si confronta con l’epica del samurai è qualcosa di molto allettante: come avveniva col cinema bellico nel film precedente, l'autore sabota il genere dall’interno, invertendone le prospettive e tornando alla scelta, all’atto battesimale dello svezzamento. Siamo a metà del diciannovesimo secolo, una nuova guerra si sta affacciando in Giappone dopo un periodo di pace. Mokunoshin Tsuzuki, durante la sua permanenza in un villaggio di agricoltori, viene arruolato dal samurai Sawamura per recarsi a Edo e combattere. Ma i due samurai non partiranno, rimanendo imprigionati nella foresta che circonda il villaggio: tutto il film è un falso movimento che parte come un addestramento e si trasforma in una furente caccia all’uomo. La guerra, in fin dei conti, finisce per rivelarsi nient’altro che un macGuffin. Quello che interessa a Tsukamoto è il terremoto emotivo, la crescita individuale, l’acquisizione di una forza interiore. Non a caso Killing è un film che nasce dalla spada e che in essa vede il suo vero protagonista. La spada è la forza che ci possiede e ci abita, ma anche il simbolo del sesso e della virilità. Il film di samurai diviene l’espediente per inscenare un complesso racconto di formazione. Killing, fin dal titolo, è un’opera sull’atto di uccidere. Perché il giovane Tsuzuki è il samurai paradossale che non ha mai ammazzato nessuno. Desidera farlo con tutte le sue forze, ma non riesce: impotente, come in una continua ansia da prestazione. Si allena, si masturba, brandisce la spada. Invidia il maestro Sawamura, interpretato da uno Shin’ya Tsukamoto monumentale e in totale sottrazione: il problema è il gesto, “Come riesci a farlo?” chiede Tsuzuki al maestro. Il ruolo di Tsukamoto diventa quello di un padre tutelare che, in fondo, sembra quasi immolarsi per portare il figlio alla maturità. Serve un sacrificio per rigenerare la carne, il sesso, l’identità del nuovo samurai. Serve morire per ritrovare la spada.

Magnifico, da questo punto di vista, il rapporto fra i due personaggi. Tsuzuki vede in Sawamura il vero uomo, veloce, potente, deciso. La spada per lui non ha segreti. L’identificazione tra l'arma e il fallo, fra l’atto di uccidere e quello di scopare, assurge qui a idea fondativa. Uccidere è il rito di iniziazione, il passaggio all’età adulta, la perdita della verginità e dell’innocenza. Tsuzuki solo in questo modo diventa uomo, emancipandosi dai propri modelli e dai propri fantasmi. Nel momento stesso dell’omicidio l’innocenza è perduta per sempre: la visione si oscura, la foresta si fa sottoesposta ed opaca, fino a dissolversi nell’oscurità. Sentiamo un urlo di terrore: la mutazione è avvenuta, la violenza ha indurito il cuore e avvelenato lo sguardo. Ora più nulla sarà come prima. Siamo entrati in guerra, il paradiso è perduto per sempre.

Il dolore, in Tsukamoto, diviene privazione di luce.

Viene da pensare che dal finale potrebbe nascere Nobi, quasi come se questo Killing fosse un prequel impossibile, una vera e propria genesi del male. E il grido femminile il compendio acustico con cui risentire tutto il cinema di Tsukamoto.

La foresta, fin dall’inizio, torna come regno di spettri, inferno verde di uno shock percettivo-formativo. Come Nobi, Killing è un vero e proprio terremoto dello sguardo anche se, per la prima volta, una sensazione lontana si insinua durante la visione. Tsukamoto è sempre stato un regista sorprendente che, di film in film, rinnovava completamente lo statuto estetico del proprio immaginario. Qui un'impressione di déjà vu, di riproposizione di alcune soluzioni formali, inizia a farsi sentire. Una piccola e trascurabile nota a margine per un'opera che, come poche, inscena la debolezza con implacabile potenza (certo, vorremmo vedere il regista a confronto con le nuove mutazioni architettoniche, sociali, culturali della metropoli: immaginate uno Tsukamoto, oggi, che si confronta col virtuale). L’armamentario visivo c’è tutto: macchina a mano frenetica, incrostata nella sporcizia digitale, montaggio omicida dell'occhio che uccide, sound folle e viscerale. E i riflessi di Oshima, Genet, perfino David Lynch! Certo, se Nobi era un capolavoro esperienziale, va detto che Killing ha una componente umana molto più straziante, tanto da diventare il titolo di Tsukamoto più legato a quella fragilità che ci rende uomini…e alla paura, paura di risvegliarsi e di vedere con altri occhi.

Ancora una volta, trasformarsi, verso nuove sconquassanti soggettive che rifondino il mondo o il suo riflesso distorto.

Categoria
Shin'ya Tsukamoto Sôsuke Ikematsu Yu Aoi Shin'ya Tsukamoto 80 minuti
Giappone, 2018
Immagine con larghezza massima
Larghezza massima

Five Came Back

di Arianna Pagliara
Five Came Back di Laurent Bouzereau

John Ford, John Huston, Frank Capra, William Wyler e George Stevens: cinque cineasti che hanno fatto la storia del cinema americano raccontati attraverso lo sguardo partecipe ed emozionato di altrettanti registi del presente, ovvero Steven Spielberg, Francis Ford Coppola, Guillermo del Toro, Paul Greengrass e Lawrence Kasdan. Il documentario Five Came Back, che Netflix ha prodotto assieme alla Amblin Television di Steven Spielberg per la regia di Laurent Bouzereau, è basato sul testo (quasi) omonimo di Mark Harris, qui anche sceneggiatore.
Miniserie divisa in tre puntate, esplora la relazione complessa e a volte ambivalente tra il cinema hollywoodiano e gli eventi della Seconda Guerra Mondiale, e lo fa analizzando il lavoro – e al contempo le avventurose vicende biografiche - dei cinque registi selezionati rispetto a tre diverse fasi: prima, durante e dopo. La propaganda e la chiamata alle armi, i rischi e le difficoltà sul fronte, il ritorno in patria e i tentativi di lenire le ferite fisiche e psicologiche. Ne viene fuori un discorso estremamente ricco e stratificato, che prende corpo attraverso l’utilizzo di materiali d’archivio preziosi e spesso sorprendenti alternati a sequenze di cinema di fiction.

La mappatura qui tracciata e dispiegata è una ricostruzione della storia attraverso il cinema ma anche, viceversa, una riflessione sul cinema attraverso la storia. Perché le modalità della  rappresentazione (propagandistica, patriottica, conciliatoria), qualunque esse siano, rispecchiano sempre intimamente la realtà socioculturale che le produce, sono il frutto e la conseguenza di un determinato stato di cose ma al contempo ne sono anche la causa. Ecco allora che la raffigurazione caricaturale e denigratoria del popolo giapponese, funzionale in una certa fase a produrre consensi, può rivelarsi dannosa laddove l’intolleranza rischia di mettere in crisi la stabilità sociale: è il caso, ad esempio, di December 7th di Gregg Toland (1943), reputato sconvenientemente razzista e quindi revisionato e tagliato da Ford. Come anche del film di Capra e Joris Ivens Know Your Enemy: Japan (1945), considerato disumanizzante nella sua descrizione del nemico tanto che il generale MacArthur, al fronte, rifiutò di mostrarlo ai soldati dopo il lancio della bomba su Hiroshima, suggerendo perfino di non distribuirlo in patria.

Ma le questioni che la miniserie di Harris e Bouzereau condensa e solleva sono moltissime: il razzismo infatti non è riservato soltanto al nemico ma è anche dolorosamente intestino (The Negro Soldier, di Stuart Heisler, 1944); il rapporto di Hollywood con il Dipartimento della Guerra è serrato, ambiguo, contrastato (Let There Be Light, documentario di Huston su un ospedale per reduci, verrà occultato fino agli anni Ottanta); e gli stessi registi dovranno costantemente confrontarsi, volenti o nolenti, con delle esigenze politiche prima ancora che produttive o artistiche.

Soprattutto però, Five Came Back si addentra nel merito di una riflessione attualissima e particolarmente rilevante, quella del rapporto – non più necessariamente oppositivo o disgiuntivo – fra documentario e fiction, tra realtà e rappresentazione. Un caso emblematico, in questo senso, è il documentario che Huston gira in Italia nel piccolo paesino del casertano San Pietro Infine, per testimoniare l’audacia e il coraggio delle truppe americane che però, ahimè, all’arrivo del regista sono già andate via. Per questo, in The Battle of San Pietro (1945) i caduti sono autentici mentre le sequenze della battaglia sono ricostruite, come verrà svelato soltanto decenni più tardi. Ma se, paradossalmente, il senso ultimo della realtà fosse comunicabile più efficacemente attraverso la sua ricostruzione che non attraverso la sua restituzione nuda e cruda? Secondo lo stesso principio di continuità e non contraddizione tra documentario e finzione, Stevens, nel momento in cui si troverà a filmare la Liberazione di Parigi, chiederà personalmente a De Gaulle di “ripetere una scena” alla luce del sole, nel timore che quanto appena ripreso in penombra potesse poi risultare indistinguibile. Ma Stevens è anche l’autore di alcune tra le prime, insostenibili immagini che hanno svelato al mondo l’esistenza dei lager nazisti, le stesse che vediamo qui a colori, in tutta la loro sconvolgente e terrificante drammaticità. In seguito, le sequenze girate dal regista verranno utilizzate come prove durante il processo di Norimberga, a ribadire l’equazione immagine foto/cinematografica = documento/verità.

Questo, a sottolineare la complessità – e la feconda contraddittorietà, in un certo qual modo – dei molti e diversi spunti di analisi che Five Came Back chiama proficuamente in causa. Una miniserie della quale è sì protagonista il cinema, ma assieme al suo contesto produttivo-distributivo – del quale vengono evidenziate zone grigie e discontinuità – e al suo portato contenutistico che è al contempo politico, socio-culturale e umano.

Etichette
Categoria
Laurent Bouzereau Paul Greengrass Steven Spielberg Guillermo del Toro Lawrence Kasdan Francis Ford Coppola 1 stagione da 3 episodi
Usa, 2017
Immagine con larghezza massima
Larghezza massima

Rimetti a noi i nostri debiti

di Arianna Pagliara
Rimetti a noi i nostri debiti di Antonio Morabito

Quello di Antonio Morabito (Carrara, 1972) è un cinema di argomenti solidi: patriarcato e tensioni familiari (Cecilia, 2001), politica, storia, anarchia (Non sono l’uno per cento – Anarchici a Carrara, 2007), disabilità (Che cos’è un Manrico, 2012), corruzione in ambito sanitario (Il venditore di medicine, 2014). Fino a Rimetti a noi i nostri debiti, favola nera dei nostri tempi che si concede un po’ di spassosa ironia ma alla fine lascia in bocca un sapore amarissimo.

Claudio Santamaria - già protagonista del penultimo lungometraggio di Morabito - è Guido, il personaggio chiave intorno al quale il regista costruisce il nucleo della tensione drammatica che domina il film: da un lato la necessità di salvare se stessi e tenersi a galla sempre e comunque accettando qualunque compromesso, dall’altro l’impossibilità di rinunciare completamente al proprio senso non solo di moralità e giustizia ma, più in generale, di umanità. Il dilemma è tutto qui: se la posta in gioco è davvero alta, quanto si è disposti a perdere della propria integrità?

Guido è un ex tecnico informatico finito, come tanti altri,  sul lastrico dopo il fallimento della ditta per la quale lavorava. Non ha più soldi per le bollette, per l’affitto e neppure per bere un ultimo bicchiere al bar sotto casa prima di affrontare un’altra notte di solitudine. Ma almeno ci sono le occhiate comprensive della cameriera a consolarlo e le chiacchiere del “Professore”, suo unico amico, che lo distrae con le sue teorie politiche - neppure tanto bislacche - snocciolate con appassionata convinzione intorno al tavolo da biliardo. Ad ogni palla corrisponde una nazione e a finire in buca, afferma lui, sono sempre gli stati economicamente più deboli: la Grecia, il Portogallo, l’Italia ovviamente. E questo, certamente, nessuno lo sa meglio di Guido considerato cosa gli sta accadendo.

Le cose cambieranno – in peggio? – quando il protagonista verrà aggredito dai suoi creditori e capirà di non avere altra scelta che lavorare gratuitamente per loro, fino a saldare il debito. Cosa dovrà fare? Semplice, quello che loro hanno appena tentato di fare con lui: riscuotere crediti. A formare Guido, direttamente sul campo, sarà Franco, un Marco Giallini comicamente sopra le righe, sgradevole, volgare, indisponente e a tratti perfino un po’ sadico. C’è tutto un mondo da conoscere: ci sono i poveracci come Guido, ma c’è anche chi invece potrebbe pagare e fa il furbo, o così sembra.  E c’è tutta una tecnica che bisogna padroneggiare: prima di arrivare alle maniere spicciole bisogna tormentare, stalkerare e umiliare, con perseveranza e spietatezza. La necessità di arrivare a fine mese avrà la meglio sull’imbarazzo, sulla vergogna e sul senso di colpa, e il protagonista - con gli occhi pieni di rancore e diffidenza - dovrà seguire fedelmente le orme del suo divertito, spavaldo mentore. Ma fino a quando?

Franco e Guido sono le due facce di questo presente, le due scelte possibili, le alternative che si escludono a vicenda. Tuttavia nessuno dei due rappresenta un assoluto. Il primo ha fatto una scelta netta, ma per blandire i (fin troppo deboli) sensi di colpa ricorre, pateticamente, alla confessione in chiesa e lusinga il suo ego con le auto nuove, il panorama alla finestra e il viso giovane – ben più giovane del suo – della bionda moglie straniera. Il prezzo di tutto questo è la quotidiana consapevolezza della propria banale mostruosità. Ci si può convivere? A Guido piacerebbe poter pensare di sì, ma sa che – come dice il Professore – per stare nel sistema, bisogna avere un po’ di sistema dentro di sé.

Per Franco è facile, perché prova un piacere sottile e inebriante perfino a prendersi gioco di una semplice cameriera, stropicciandole sotto al naso, con gusto, un’allettante banconota. Ma la stessa banconota, in mano a Guido, non fa lo stesso suono: perché lui - che tuttavia non è un santo né un eroe - in fondo (e per fortuna!) non riesce a rinunciare alla propria umanità, e prova soltanto un profondo, nauseante disagio. Eppure tenta e ritenta, lotta contro se stesso, chiude gli occhi per non vedere: se è questo che richiedono i tempi in cui vive, deve dimostrare di essere all’altezza. Oppure no?

La fluida regia di Morabito lascia molto spazio agli attori-personaggi perché si raccontino e raccontino i propri ruoli, ai quali aderiscono forse senza rinnovarsi – Santamaria sempre ombroso, compresso, malinconico e Giallini sempre beffardo, volitivo, pungente – ma tuttavia senza sbavature e indecisioni. Funzionano bene anche i personaggi di contorno, la cameriera Rina - amore perso per un soffio - e il Professore, spirito nobile smarrito tra grettezze e volgarità.

Lucida fotografia di un presente davvero desolante, Rimetti a noi i nostri debiti è un film in grado di parlare a un pubblico ampio mantenendo intatta la sua dose, non indifferente, di causticità e soprattutto il suo valore di critica sociale. Il suo linguaggio è piano, disinvolto, limpido, senza vezzi e l’ironia che lo permea è corrosiva, perché non blandisce, non edulcora e non concilia, come è giusto che sia.

Etichette
Categoria
Antonio Morabito Claudio Santamaria Marco Giallini Agnieszka Zulewska 104 minuti
Italia, 2018
Immagine con larghezza massima
Larghezza massima

Icarus

di Arianna Pagliara
Icarus di Bryan Fogel

Un ciclista amatoriale di fronte a una sfida, una provocazione, una missione più che singolare: dimostrare che è possibile doparsi in barba ai controlli, a patto che si scelgano oculatamente le modalità e le sostanze adatte. Questo il punto di partenza del documentario Icarus, nel quale il regista Bryan Fogel punta l’obiettivo su se stesso utilizzando il proprio corpo come terreno di sperimentazione. Tutto viene dimostrato e monitorato nel corso del tempo, tanto l’assunzione di sostanze (in quali dosi, in che modo, quali sono le reazioni che queste provocano) quanto gli effetti sulle prestazioni sportive.

Per attuare questa avventata operazione a proprio rischio e pericolo Fogel non agisce però in maniera autarchica, ma si rimette ai consigli dello scienziato russo Grigory Rodchenkov, personaggio ambiguo e dal passato burrascoso: nel 2005 diviene direttore del laboratorio nazionale russo antidoping, per essere poi indagato – a distanza di pochi anni - proprio per il traffico di sostanze dopanti. A questo punto lo scienziato tenterà il suicidio e finirà in un ospedale psichiatrico, fino a che le accuse contro di lui verranno (misteriosamente?) cancellate. Ma a quale condizione? Rodchenkov dovrà collaborare a quello che sarà un vero e proprio programma di doping messo in atto su larga scala con la connivenza di diverse autorità statali. Quando questo fatto verrà alla luce, trascinerà il mondo dello sport russo in uno scandalo senza precedenti.

E’ questo, in sintesi, che Icarus finisce per raccontare: non più gli esperimenti di Fogel, ma una pericolosissima partita a scacchi di portata internazionale che culminerà con la fuga di Rodchenkov negli Stati Uniti. Non più il tentativo di un singolo di infrangere le regole insomma, o la dimostrazione della facilità di questa eventuale infrazione, ma un vera e propria rete messa a punto proprio con la connivenza di quelle istituzioni che dovrebbero impedire e/o punire ogni possibile corruzione.

A prescindere dalla notorietà dei fatti raccontati, quello che scandalizza qui è la relativa elementarità delle modalità con cui questa grande macchina del doping è stata organizzata e messa in moto. Basti pensare che i flaconi di urina incriminata venivano fatti sparire dal laboratorio di turno attraverso un buco nel muro: nulla di più rudimentale, e al contempo nulla di più incredibile.

L’approccio di Fogel alla messa in scena è tendenzialmente televisivo ma non nel senso negativo del termine: montaggio rapido, sottofondo sonoro vivido e onnipresente a caricare di tensione e/o drammaticità determinati passaggi, forte senso di immediatezza. Il suo intento è quello di trascinare con forza lo spettatore in medias res, di non fargli mai percepire le cose come eventi che si svolgono oltre uno schermo, oltre un buco della serratura, oltre una certa distanza di sicurezza insomma. Sensazione rafforzata dal lavoro che viene fatto in senso cronologico: l’impressione che Icarus vuole dare è quella di aver fissato in immagini una serie di fatti nel momento del loro svolgersi, non a posteriori. Perché, in principio, l’operazione viene presentata come la testimonianza personale del regista/protagonista, ed è solo a poco a poco che la materia trattata deborda violentemente e le cose iniziano a rivelare le loro spaventose dimensioni. Rodchenkov diviene protagonista, e con lui quel clamoroso scandalo che ha coinvolto, con tutta probabilità, più di un migliaio di atleti nel corso di anni e anni, infangando il mondo dello sport in Russia e costando alla nazione l’esclusione dai giochi olimpici.

Premiato al Sundance Film Festival e al Sundance Film Festival: London nel 2017, Vincitore del premio Oscar come Miglior Documentario nel 2018, Icarus è in sintesi un ottimo esempio di documentario d’inchiesta che ha il merito non solo di approfondire ma anche di chiarificare gli aspetti più oscuri e fumosi e i risvolti più intricati e complessi di una situazione di estrema, sconcertante gravità.

Categoria
Bryan Fogel
Usa, 2017
Immagine con larghezza massima
Larghezza massima

Il sogno di Omero

di Marco Marrapese
Il sogno di Omero di Emiliano Aiello

Nel tempo dello streaming, del satellite e delle mille possibilità di distribuzione e fruizione, gli audiovisivi sono ancora fortemente vincolati a regole e modelli, scritte o no, che devono essere rigidamente rispettate se un film vuole quantomeno sperare di ottenere uno spazio di visibilità e una fetta di mercato.  Da questo punto di vista, quando in questo panorama di formati omologhi si palesa un'opera capace di differenziarsi, riesce quantomeno ad attrarre verso di sé la curiosità del pubblico più attento, che la osserva proprio come si scruta un alieno.

È il caso del documentario Il sogno di Omero, un mediometraggio dall'anomala durata di quarantacinque minuti, sul quale Emiliano Aiello è stato a lavoro per diversi anni. Il regista romano è partito da una ricerca scientifica di Helder Bertolo, un biofisico dell'Università di Lisbona, che ha scoperto che i ciechi sognano esattamente come i vedenti, ovvero con gli stessi contenuti visuali. Aiello ha incontrato Gabriel, Rosa, Domenico, Fabio e Daniela, cinque non vedenti dalla nascita, persone quindi che non dispongono di una memoria visiva a cui far riferimento e che per l'occasione hanno appuntato le loro visioni oniriche in un audiodiario, che poi è diventato il fil rouge del racconto. Naturalmente il film prende le dovute distanze dal voler restituire uno spaccato del quotidiano vissuto dalle persone non vedenti, e non è neanche un test o un esperimento in cui cercare qualche prova scientifica sull'attività onirica di chi soffre di cecità congenita. A suo modo, Il sogno di Omero tenta di esplorare e mettere in scena i sogni degli stessi protagonisti attraverso un viaggio nell'interiorità e con una struttura ispirata all'Odissea di Omero, che è stato il primo grande scrittore cieco a parlare proprio di sogni. Il film, nel rispetto della sintonia con il tema che propone, riesce ad offrirsi nella sua visione abbandonando il primato dell'immagine e costruendo un racconto imperniato sulla parola e sui suoni. Un approccio che pare andare contro i principi alla base della costruzione di un racconto filmico, ma che soprattutto tenta di ridefinire i rapporti di forza tra suono e immagine, sbilanciandosi fortemente a favore del primo. Aiello opera una gerarchizzazione inedita degli elementi che costituiscono il suo racconto, mettendo al primo posto la voce dei protagonisti e i suoni, che dunque non sono più relegati ad un ruolo di accompagnamento delle immagini. Il depotenziamento della visione (ad esempio tramite l'uso di sfocature) è funzionale non solo per provare a simulare il possibile aspetto di una visione onirica, ma anche ad assegnare un plusvalore al suono.

Un film sulle visioni oniriche, in cui le immagini fanno da perimetro a una narrazione orale e di suoni, proprio come quella che tanto piaceva ad Omero.

Categoria
Emiliano Aiello 47 minuti
Italia, 2018
Immagine con larghezza massima
Larghezza massima

La strada dei Samouni

di Arianna Pagliara
La strada dei Samouni di Stefano Savona

Periferia della città di Gaza, 2009. Un quartiere tranquillo, una famiglia di contadini, niente ribelli né soldati. Fino a quando i militari israeliani non danno inizio all’operazione “Piombo fuso”: nella strada dei Samouni arrivano i carri armati a sradicare ulivi centenari e a devastare i campi, mentre un gruppo di civili viene confinato in una casa che viene poi scientemente bombardata. Una vera e propria strage, muoiono in ventinove. Amal, una ragazzina, resta per tre giorni bloccata sotto le macerie, in mezzo ai cadaveri dei propri parenti, fino all’arrivo della croce rossa.

Un anno dopo, il regista Stefano Savona filmerà quel che resta di questo mondo devastato, offrendo ad Amal uno spazio per raccontarsi e raccontare. La bambina prenderà un bastone e traccerà un grande cerchio per terra: “qui c’era il sicomoro...” e così ha inizio la storia.

La strada dei Samouni è un film che sovrappone passato e presente, un prima e un dopo, le case e le macerie, il vuoto lasciato dai grandi alberi dove i bambini si arrampicavano. Adesso c’è un desolante spiazzo sterrato, infinite montagne di rottami (si può recuperare una pentola bruciata, ritrovare qualche mattonella intatta, una porta, una traccia di sangue), una grande tenda che funge da moschea, qualche ulivo stentato sfuggito alla furia cieca dei soldati. C’è perfino la voglia di ricominciare – “più loro sradicano, più io semino” – un’ostinazione potente e dolorosa ma sorprendentemente quasi priva di rancore.

Savona guarda le cose dall’interno, non teorizza, non commenta, non trae conclusioni, forse perché la realtà è così terribile che parla da sé. I morti che nella percezione comune subito diventano martiri – pianti e portati in trionfo con formule di rito - i partiti politici che cercano di strumentalizzare gli eventi, il bambino che da grande vuole unirsi ai ribelli per vendicare il padre, ucciso a bruciapelo sulla porta di casa, disarmato. La religione è un collante e uno scudo per una comunità che se non elaborasse i propri lutti in una dimensione sociale, pubblica e condivisa probabilmente sarebbe già andata alla deriva nella più totale follia. E invece, in un impeto vitalistico inspiegabile e commovente, persistono i tentativi di ricostruzione, e nuovi edifici vengono progettati accanto alle rovine – anche se il cemento scarseggia ed è carissimo – mentre i ragazzini, come fossero già adulti, difendono ostinatamente le terre dei padri che non ci sono più.

Al netto dell’indiscutibile valore intrinseco di un’operazione come questa, nella quale in ultimo i veri protagonisti sono appunto i bambini, l’importante film di Savona contiene in sé anche un piccolo gioiello, ovvero le splendide animazioni in bianco e nero di Simone Massi, visione fascinosa, fiaba che si insinua nel documento per raccontare il prima: il grande sicomoro, le corse nei campi, un pugno di olive scure nella mano, il terrazzo dello zio invaso dai colombi mentre si fanno progetti di futuri matrimoni, ma soprattutto il viso e i racconti del padre ora assente. E non viene in mente ipotesi migliore di questa per dare corpo e peso a quei segmenti cruciali di racconto dei quali, senza l’intervento di Massi, sarebbe rimasto solo l’eco e il ricordo angoscioso. Mentre le vivide immagini animate restituiscono i fatti allo spettatore in tutta la loro tragica concretezza, sfumandone sapientemente i confini nell’incubo (gli elefanti, gli uccelli) e accrescendone in questo modo l’impatto drammatico.

La strada dei Samouni è, in sintesi, esempio perfetto e mirabilmente riuscito delle tante, differenti valenze che il cinema può conciliare e includere in sé: cronaca, documento e testimonianza, indagine antropologica, ma al contempo racconto e affabulazione, riflessione e sperimentazione formale e linguistica e in ultimo necessario, urgente e doveroso atto politico.

 

Categoria
Stefano Savona 128 minuti
Italia, 2008
Immagine con larghezza massima
Larghezza massima

L’île au Trésor

di Domenico Saracino
L'île au Trésor - recensione film 2018

L’Île de loisirs di Cergy-Pointoise è una delle tante “bases régionales de plein air et de loisirs” di Francia, basi ricreative che consistono in specchi d’acqua attrezzati per il divertimento e il tempo libero. Un luogo di relax e di vacanza, situato nell’Île-de-France, a pochi km dalla capitale, che Guillaume Brac conosce bene sin dall’infanzia e da tempo desiderava filmare.

Da questa fascinazione a lungo coltivata il regista francese ha finito per ricavarne un dittico, girandovi prima le scene del film di finzione Contes de juillet, presentato Fuori Concorso a Locarno 2017, e poi, l’estate successiva, il documentario L’île au Trésor, presentato nella sezione del Concorso Ufficiale – Premio Amore & Psiche del MedFilm Festival 2018.

Una storia di moderni pirati e di un’isola, come nel celebre romanzo per ragazzi di Roberto Louis Stevenson da cui questo terzo lungometraggio di Brac trae titolo ed epigrafe. Piccoli filibustieri sono i ragazzini venuti da Argenteuil (altro luogo storico del plein air, meta domenicale di grandi pittori impressionisti), decisi ad intrufolarsi in tutti i modi nella loro isola del tesoro, così affamati di luccicanti meraviglie ludiche e di avventure. Pirati gli adolescenti che esplorano, a bordo dei loro stand up paddles, l’enigmatica piramide affiorante dalle acque dell’etang, navigatori al contempo antichi (come i pagaianti hawaiani che utilizzavano nel Settecento queste imbarcazioni, descritti nelle testimonianze dell’esploratore James Cook) e moderni (come i Beach Boys di Waikiki che ne fecero diffondere l’utilizzo). 
 poi ci sono i ribelli e gli esuli, il guardiano notturno costretto a lasciare la propria terra d’origine per aver osato contrariare un ministro dell’istruzione poco incline ad argute osservazioni, la famiglia afghana sfuggita per puro miracolo alla furia dei mujāhidīn, il professore in pensione, in esilio dalla sua giovinezza.  Tutti in vacanza nello stesso luogo. L’Île de loisirs di Cergy-Pointoise è terra di incontri e mescolanze, di abbattimento delle barriere, di libertà e splendida eterogeneità. Una ricchezza di sguardi, corpi e scenari che Guillaume Brac filma con intelligenza e profonda ammirazione, senza sensazionalismi, intellettualismi o inutili orpelli stilistici, preservandone la meraviglia, tra dinamiche naturali (la luce, le condizioni metereologiche), emotive (l’amore, il pericolo, la nostalgia del ricordo) e sociali (i corteggiamenti, gli appuntamenti, la rigida normalizzazione delle leggi del parco) e dinamismo visivo (campi lunghi e lunghissimi, primi piani e soggettive).

Come in Mektoub my love, dove però l’esplorazione era anche e soprattutto carnale, nei lavori di Rohmer o, soprattutto, nei primi film di Rozier (cineasta cui Brac ha spesso dichiarato di ispirarsi), la vacanza diventa spazio di emancipazione, liberazione del desiderio, incitamento a vivere ludicamente il proprio stare al mondo, diventa “situazione” debordianamente intesa, “ambiente momentaneo di vita, di qualità passionale superiore”. Non è un caso che la direzione del parco divertimenti sia filmata come una sorta di controcanto a questa brulicante entropia, mentre discute della sicurezza, di previsioni meteo, di chiusure settimanali che potrebbero fare male agli affari; oppure che la vigilanza non consenta ai due ragazzi trovati a scavalcare la recinzione di usufruire liberamente di quello spazio, né ai piccoli truffatori che entrano senza biglietto di rimanere. La selvaticità d’un tempo rimane intatta nei ricordi dei più anziani e nelle dolci infrazioni dei pirati.

A questi sprazzi di incontenibile vitalità Brac dedica buona parte del montato, insistendo sui momenti di eversione, di sfida all’autorità: persone che si bagnano in zone non consentite (“solo i piedi” dice l’addetto ai controlli) o che si lanciano in tuffo da punti dove è espressamente vietato, bambini che provano ad evitare il pedaggio e adolescenti che tornano lì di notte per vivere nuovi eccitamenti. È questa febbre, questa ebrezza di vita, il vero tesoro dell’isola.

Categoria
Guillaume Brac 97 minuti
FRANCIA 2018
Immagine con larghezza massima
Larghezza massima

Tutti lo sanno

di Emanuele Di Nicola
Tutti lo sanno - recensione film Farhadi

Sono due gli elementi che avvolgono implicitamente Tutti lo sanno, l’ottavo lungometraggio di Asghar Farhadi e il primo girato in Spagna: il tempo e la voce.

Il primo, il tempo, lo vediamo già contenuto nell’incipit programmatico: c’è un enorme meccanismo, è l’orologio nel campanile di una chiesa, il cui ingranaggio procede ritmicamente per scandire i secondi. Su questo si formano i titoli di testa. Ci dicono che è tutto un dispositivo il cinema di Farhadi, un sistema che nel suo farsi lascia emergere il problema etico e il dubbio morale, il confronto con noi stessi e le decisioni difficili da prendere: cinema che qui assume la forma di una ruota dentata, correlativo oggettivo di un’idea di messinscena, che scatta lentamente, placidamente, e girando segna lo scorrere del tempo insieme alla costruzione dell’impianto narrativo. Nel campanile si ritrovano due personaggi, Irene e il ragazzo del paese, e incidono le loro iniziali sul muro, vicino ad altre iniziali, quelli di due amanti del passato che sono i veri genitori di Irene. L’ambiente è marchiato da un grande orologio di vetro ormai incrinato, con un buco da cui passano gli uccelli. «Qui c’è una vista bellissima», rileva Irene, sbirciando tra le lancette rotte: ecco che il passato tracima nel presente e con esso dialoga in filigrana, da ora e per tutto il film, fino ad emergere in evidenza.

Il secondo elemento si trova nella voce, nel senso più classico del termine, ovvero quello mitologico: la Fama, il mostro con molteplici occhi, orecchie e bocche per vedere, sentire e spargere la voce. È questa che intitola il film: Tutti lo sanno: storia di un matrimonio che viene interrotto da un rapimento. Laura (Penélope Cruz) torna da Buenos Aires alla Spagna per partecipare alle nozze della sorella, nel proprio paese natale nella municipalità di Madrid, un piccolo centro segnato da un vasto vigneto: si porta dietro i suoi figli, tra cui la sedicenne Irene (Carla Campra), e qui reincontra Paco (Javier Bardem), amore di gioventù oggi proprietario di una vigna che proprio Laura gli ha venduto. In un’ampia galleria di personaggi si consuma la festa, che è turbata da un tragico evento: Irene viene rapita dalla sua stanza, nel sonno, da misteriosi sequestratori che scrivono alla madre per il riscatto. Se chiameranno la polizia la ragazza verrà uccisa. Alla luce di un rapimento analogo, concluso con la morte della bambina, i parenti e amici scelgono di non avvertire l’autorità e risolvere la questione in famiglia: per riavere la ragazza bisogna trovare trecentomila euro nel più breve tempo possibile. L’arrivo del marito di Laura, Alejandro (Ricardo Darín), non sblocca la situazione e anzi la ingarbuglia ulteriormente. «Tutti lo sanno», dice il giovane a Irene nel campanile: nel paese è noto che Laura e Paco stavano insieme. «Tutti lo sanno», è la risposta che ottiene Alejandro sulle voci che corrono: tutti sanno che Irene in realtà è figlia di Paco. Ecco perché Paco/Bardem si impegna in particolare per liberare la giovane, fino all’ipotesi estrema di vendere la terra.

Cosa è vero e cosa presunto? Il nodo della relatività del reale, della vera conoscenza che si intreccia alla semplice ipotesi resta centrale e lampante nel cinema di Farhadi. E dunque la costruzione del dilemma etico-morale si sviluppa ancora una volta, dinanzi a un giallo che è tale solo in teoria: basti vedere come l’autore fornisce la soluzione, l’indicazione del colpevole che arriva ben prima del finale e non intacca il tessuto, perché non è quello il nocciolo della questione ma - come sempre - i rovelli interiori dei suoi personaggi.
Perché Laura rivela proprio adesso a Paco che Irene è sua figlia? Oscillazione spontanea dell’animo o tentativo di estorsione sentimentale per ottenere i soldi necessari? Perché Paco sceglie davvero di cedere la vigna, concretizzando una mera possibilità? Avrebbe aiutato un’altra bambina che non fosse sua figlia? E la moglie di Paco, Lea (Barbara Lennie), con il categorico rifiuto della solidarietà assume una posizione cinica o esercita una legittima gelosia? Sono esempi di domande che percorrono il racconto, frammenti di dubbi che si potrebbero applicare anche ad altre figure e scenari (uno su tutti: il primo sospetto sui braccianti, eventuali rapitori, come traccia di lotta di classe). La rilevanza, al solito in Farhadi, abita proprio nella domanda, nel punto interrogativo, nella difficoltà di decidere che tormenta i personaggi e la nostra posizione nel giudicarli. Non è semplice stabilire la legittimità dei loro moti, dove si trova l’autentico e dove l’attentamente costruito: da cosa vengono determinati, amore e sentimento o calcolo e interesse? In tal senso, idealmente separato dal confine tra Iran e Turchia, il suo cinema dialoga a distanza con quello di Nuri Bilge Ceylan: gemmazione di interrogativi, dubbi su dubbi, problemi etici inestricabili talmente tentacolari che mettono in scacco.

Se l’autore turco ha appena firmato un colosso come L’albero dei frutti selvatici, però, l’iraniano nella seconda trasferta della sua filmografia finisce parzialmente incartato. Dopo l’incursione francese de Il passato, l’applicazione spagnola del suo teorema soffre di limiti simili, anche tecnici: Farhadi non parla la lingua degli attori che dirige, e ne risente soprattutto una Penélope Cruz in overacting della sofferenza, così come alcuni malintesi sembravano riguardare Bérénice Bejo nel film precedente. D’altronde il cineasta ha sviluppato la storia partendo da un suo viaggio, ovvero posizionandosi chiaramente nella prospettiva di osservatore esterno: «Sono stato nel Sud della Spagna. In una città ho visto diverse foto di un bambino affisse ai muri. Quando ho chiesto chi fosse, ho saputo che era scomparso e che la sua famiglia lo stava cercando: lì è nata la prima idea del film (...). Ad attrarmi sono state soprattutto il paesaggio e la cultura locale». La traccia etnografica viene apertamente dichiarata, quindi, ma è altrettanto vero che nel disegno narrativo vivono i temi prediletti: il rapporto tra uomo e donna e la possibile resistenza del sentimento dopo la rottura; il peso del passato che ritorna con forza nel presente; l’improvvisa scomparsa di una figura femminile che costringe a riconsiderare le proprie posizioni, come accadeva alla giovane maestra di About Elly, film in odore de L’avventura di Antonioni; in generale il confronto necessario con noi stessi, complesso e crudele, cosa vogliamo ottenere e a cosa siamo disposti a rinunciare nel rapporto con l’altro, in un concetto che avanza in modo graduale ma inesorabile.

Già magnificato dalle sue perle, come Una separazione e Il cliente, il metodo Farhadi si dispiega qui altalenante e conferma il sottile equilibrio richiesto dal suo fare cinema, che può perdersi e trovarsi anche per un solo dettaglio o sfumatura: così è nei lunghi confronti tra Bardem e Cruz, che a volte restituiscono la gradualità dell’elaborazione morale e altre sfociano nella semplice scenata. Così nei video del matrimonio, che i personaggi guardano e riguardano in cerca di un indizio, provando ad aprire un discorso ottico interessante ma troppo vago per incidere. E così anche nel finale, affidato ancora ad una donna farhadiana che mette ordine e assume la posizione “giusta”, ma risolto nell’arco di una scena con sintesi perfino eccessiva.

Tutti lo sanno è un cosiddetto “film minore”? Certamente sì. Ma è anche la prova che conferma la strategia a orologeria di uno dei maggiori autori del contemporaneo: e torniamo allora all’apertura, alla ruota che scatta implacabile come il meccanismo di Farhadi, in una consapevolezza dello sguardo che molto cinema di oggi non vede da lontano.

Categoria
Asghar Farhadi Penélope Cruz Javier Bardem Ricardo Darín Imma Cuesta Carla Campra Eduard Fernandez Barbara Lennie 132 minuti
Spagna, Francia, Italia 2018
Immagine con larghezza massima
Larghezza massima

Hill House

di Gian Giacomo Petrone
Hill House - serie tv Netflix Flanagan

In principio fu Robert Wise, con una delle massime espressioni del cinema gotico di ogni tempo, Gli invasati, a realizzare un notevole tributo cinematografico al romanzo di Shirley Jackson L’incubo di Hill House, a sua volta fra i caposaldi novecenteschi delle storie di fantasmi. Dopo l’indegno remake del film di Wise  firmato da De Bont nel 1999 (parimenti indegno come adattamento del romanzo della Jackson, ça va sans dire), l’onere e l’onore di mettere in immagini le umbratili atmosfere evocate dalla scrittrice californiana toccano oggi a uno dei più quotati fra i giovani registi horror, lo statunitense Mike Flanagan.

Il progetto Hill House è targato Netflix e concepito come una serie in dieci puntate, quindi, per sua stessa natura, costretto all’eccedenza – di durata e di fruizione – rispetto ai normali standard cinematografici (sempre meno “normali”, a dire il vero, nell’universo multimediale che marca la contemporaneità). La sfida, per Flanagan, si dimostra quindi decisamente ambiziosa. Il regista americano, anziché azzardare un ulteriore adattamento del materiale di partenza, oltretutto tenendo presenti l’abuso e la consunzione del filone narrativo della ghost story classica al cinema, decide intelligentemente di rielaborare tale materiale riplasmandolo da cima a fondo. Flanagan infatti sceglie di rendere i protagonisti della vicenda come parte di un'unica famiglia di sette membri, due genitori, tre figlie e due figli (nel romanzo, i personaggi principali sono quattro e non sono parenti), la famiglia Crain; inoltre, il gruppo non risiederà a Hill House con l’obiettivo di studiare il paranormale, come nel romanzo, bensì per restaurare la magione e poi rivenderla; da ultimo, la vicenda viene spostata a cavallo fra l’inizio degli anni ‘90 e i giorni nostri.

Lo spirito che anima il progetto di Flanagan è proiettato nel tessere un dialogo costante fra la normalità del familiare e il perturbante del soprannaturale, fra la percezione ordinaria e l’allucinazione, fra il passato e il presente, fra la vita e la morte, con entrambi i poli di ciascuna diade a costituire le cause della deriva individuale. L’obiettivo ultimo è che l’orrore e la tragedia esistenziale si supportino a vicenda, senza che l’uno ceda il passo all’altra o viceversa. Non si tratta di un distacco totale dall’opera letteraria di partenza, perlomeno nel ricorso ad alcuni temi, e tuttavia è chiara la volontà di creare qualcosa di radicalmente autonomo rispetto ad essa.

Di fatto, Flanagan non fa altro che proseguire il suo percorso registico adattando il proprio stile e i propri temi prediletti a un formato-fiume e, per avere il maggiore controllo possibile sull’opera, si avvale abbondantemente di attori con cui ha già lavorato: da Carla Gugino (la mater familias Olivia Crain), protagonista della trasposizione de Il gioco di Gerald di King, a Henry Thomas (il capofamiglia Hugh Crain da giovane) presente sia in Ouija – L’origine del male sia ne Il gioco di Gerald; da Elizabeth Reaser (Shirley Crain da adulta), protagonista in Ouija, a Kate Siegel (Theodora Crain da adulta), sul set in ben quattro film del regista. Il lavoro sugli attori è senz’altro uno dei punti di forza di un’opera che richiede sovente dei veri e propri tour de force recitativi, interpretativi, espressivi: infatti, non di rado Flanagan ricorre a mirabolanti e virtuosistici long takes, sia producendo efficaci slittamenti – internamente all’inquadratura – della scala dei piani in funzione drammaturgica, sia esaltando l’architettura del set, costruito in modo tale da far risaltare l’incombere della tetra dimora-corpo e da far entrare e uscire i personaggi (durante alcuni snodi narrativi cruciali, specie nella seconda parte della serie), senza stacchi di montaggio e senza soluzione di continuità, da un ambiente all’altro e soprattutto da un’epoca all’altra. Il dialogo fra temporalità diverse è, in un apparente paradosso, causa e riverbero insieme dell’intrecciarsi di sogni, ricordi, allucinazioni, rimorsi, mentre i fantasmi che infestano Hill House si confondono con le paure e le idiosincrasie personali dei protagonisti, fino alla soglia dell’indiscernibilità fra tare personali e malefiche influenze esterne.

Forte di una buona sceneggiatura, sia pure con qualche evitabile orpello, e di una meticolosità certosina in dialoghi e monologhi di grande impatto, potendosi inoltre avvalere di una confezione di prim’ordine – rimarchevole il lavoro a livello scenografico (Patricio Farrell) e fotografico (Michael Fimognari) – e di una regia incisiva e barocca a un tempo, Hill House si configura in definitiva come un  riuscito aggiornamento del filone delle case infestate e maledette, innervato da una cospicua dose di family drama, che moltiplica il pathos anziché annacquarlo. Certo, a tratti la regia appare un po’ troppo compiaciuta, in alcuni casi ai limiti dell’autoreferenzialità, e il proliferare di molteplici sotto-trame, sia pure giustificato dalla necessità di conferire l’opportuna profondità a ciascun personaggio, talora indebolisce la tenuta complessiva del racconto, ma la passione che si respira è spesso autentica, e non è poco.

Categoria
Mike Flanagan Michiel Huisman Carla Gugino Henry Thomas Elizabeth Reaser Kate Siegel Timothy Hutton Oliver Jackson-Cohen 1 stagione da 10 episodi
USA 2018
Immagine con larghezza massima
Larghezza massima
Iscriviti a