Cold Skin

di Leonardo Strano
Cold Skin - recensione film xavier gens

Assediato dalla tensione dell’horror, irrobustito dallo spirito di avventura e gonfiato da un respiro letterario avvincente, generoso nelle spunti metaforici e nelle ambizioni riflessive, Cold Skin si rivela un particolare prodotto simbiotico, un amalgama forte di una personalità tanto netta quanto variegata.
Il film di Xavier Gens nasce da una composizione inusuale di elementi molto contrastanti tra loro, che portano a una stratificazione dei molteplici livelli di lettura. Un oggetto di forme strane, scolpito da tre caratteristiche fondamentali (le sopra citate influenze di genere: horror, avventura, dimensione letteraria) cui corrispondono altrettanti percorsi tematici, diversi tra loro ma capaci di coordinarsi e di incontrarsi, mischiarsi e sovrapporsi. Il risultato offre squarci interessanti e subito dopo momenti di incompatibilità greve e involuta: nel primo caso incroci immaginifici tra le fascinazioni della narrativa d’avventura e i brividi di una letteratura dell’orrore suggestionata dalla metafisica; nel secondo un ruolo ingombrante e mal gestito di una voice over d’impianto letterario impantanata nella formulazione di metafore e poetismi.

Non è difficile perdonare al film certe ingenuità (alcune anche comiche) a fronte di buone intuizioni, come quella di incorniciare le linee tematiche dentro a metafore visive avvolgenti, stranamente vive e attraenti malgrado il forte impatto formale di una palette cromatica singola e respingente (l’azzurro acciaio). Sono numerosi inoltre i momenti in cui la narrazione interrompe il ritmo sostenuto del film d’avventura, negando le normali regole di movimento del genere, attraverso il raccoglimento in posizioni statiche, quasi di riflessione esistenziale sulla propria natura contraddittoria. Come sono frequenti i momenti in cui, proprio grazie a questo fermarsi, le tematiche chiuse nella morsa delle regole del genere vanno a fuoco senza didascalismi inutili, brillando con decisione al centro dello schermo e oscurando gli inciampi, valorizzando così la forza dei messaggi e la potenza di una narrativa spesa in favore della riflessione.

Il film, tratto dal romanzo omonimo scritto da Albert Sánchez Piñol, vanta più elementi positivi che negativi e gode di un bilancio che a posteriori si livella sul buono, ottenuto da una storia a suo modo appassionante, incentrata sulla diversità, sulla natura dell’uomo, sul potere della comprensione e sulla labilità dell’identità di fronte ai misteri della natura. Sono i contenuti chiusi a guscio nella profondità infatti a rendere Cold Skin qualcosa che vuole essere un passo avanti all’intrattenimento convenzionale, qualcosa in grado di raggiungere lo spettro ampio della narrativa di genere intelligente, qualcosa capace di prendere in ostaggio l’attenzione e intanto solleticare il pensiero utilizzando tutti i mezzi disponibili (tra cui anche un budget di certo non generoso): con creatività a intermittenza forse, grande dose di elementi derivativi e alcune fragilità costitutive, ma anche con passione reverenziale, amore per l’artigianato effettistico e interesse nel racconto.

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Xavier Gens David Oakes Aura Garrido Ray Stevenson 108 minuti
Francia, Spagna 2017
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Hold the Dark

di Mattia Caruso
Hold the dark - recensione film saulnier

Potrebbe quasi ricordare i primi minuti di The Witch, con quel bosco incombente che pare mangiarsi, metro dopo metro, la civiltà, mentre un bambino scompare, come per magia, sotto i nostri occhi, la sequenza iniziale dell'ultima fatica di Jeremy Saulnier, esplicito trionfo di un orrore giocato, proprio come la pellicola Robert Eggers, interamente sul terreno dell'ambiguità. Ambiguo, d'altronde, lo è sin dal titolo, un film come Hold The Dark: incerto com'è se tenerla lontana, quell'oscurità, o accoglierla e portarla con sé.

Si è sempre situato tra questi due estremi, in fondo, il cinema di Saulnier, un cinema ambivalente capace di mantenersi rarefatto anche alla luce del sole, anche a dispetto di un rigore formale ed espressivo sempre forte e presente. Dopo Blue Ruin e Green Room, la terza tappa del viaggio cromatico nell'orrore quotidiano del regista statunitense non può allora che tingersi di nero, terminando un affresco sulla violenza capace di raggiungere vette di cupezza impensate persino per un autore tanto avvezzo al Male e alle sue più subdole degenerazioni.
Lontano dai sobborghi di quella provincia americana fotografata con distacco e senso del grottesco nei film precedenti, è con le distese innevate e con le foreste dell'Alaska che si confronta, questa volta, il sempre più gelido sguardo di Saulnier, tingendo di sangue, rabbia e follia l'ennesima storia di (anomala) vendetta. È qui, nello sperduto villaggio di Keelut, sorta di ultimo avamposto dell'umanità, tra lupi che rapiscono  bambini e uomini che si trasformano rapidamente in bestie, che prende piede un thriller glaciale dall'anima noir e dai risvolti orrorifici, dove la ragione muore lentamente e all'uomo non resta che aggrapparsi a un ritualismo sanguinario dal sapore ancestrale.

Partendo per la prima volta da un soggetto non originale (l'omonimo romanzo di William Giraldi, adattato per lo schermo dal sodale Macon Blair), il regista raggiunge, paradossalmente, la summa della propria poetica, il distillato di uno sguardo capace di calarsi, con fredda e spietata consapevolezza, nel cuore di tenebra dell'animo umano. Per farlo ricorre a un senso di angoscia opprimente e malsano, tra inquadrature costruite con perizia e un ritmo lento ma implacabile, dove la violenza esplode brutale e, altrettanto brutalmente, torna nell'ombra.

Pare essere fatto della stessa sostanza dei suoi luoghi, del resto, l'orrore di Hold The Dark, dalle atmosfere mortifere del deserto mediorientale (dove si consuma un breve quanto illuminante antefatto) fino all'animalità omicida delle foreste del profondo Nord, come se tutto fosse intriso dello stesso senso di fine imminente o come se, forse, la fine fosse già arrivata e niente fosse bastato a salvarci da quell'oscurità che tutto avvolge e tutto prende. Continuando quel gioco cominciato oramai un decennio fa con Murder Party, Saulnier porta avanti la sua personalissima destrutturazione di generi e immaginari, costruendo un cinema spiazzante che, a partire dalla sua stessa idea di vendetta, sovverte codici e ribalta modelli consolidati, salvo poi ritrovarli, intatti, in momenti che esplodono con tutta la forza di una rivelazione.
Non è un caso che sia allora proprio una sparatoria, con le sue dinamiche spietate e la sua geometria rigorosa, il fulcro stesso del film, un nucleo spettacolare di morte e distruzione attorno a cui ruota, silenzioso, un dramma antropologico popolato da individui apatici (un gelido Alexander Skarsgård) e totalmente smarriti (un Jeffrey Wright perfetto per il ruolo), dove nemmeno l'umorismo nerissimo del regista riesce più a trovare posto, annullato com'è da un mondo in cui regole, valori e morale non hanno più senso e la violenza, al di là di qualsiasi previsione o aspettativa, sembra l'unica realtà possibile.

Respingente, disperato, intriso di un'accettazione della morte quasi ascetica, Hold The Dark è un prodotto dal fascino perturbante, indifferente e sanguinario come gli spazi e i rituali che mette in scena, disorientato e privo di risposte come l'umanità che lo abita. Un film la cui visione, piaccia o meno, non può non lasciare indifferenti, attratti e respinti a un tempo da quel Male assurdo e tremendamente ambiguo.

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Jeremy Saulnier Jeffrey Wright Alexander Skarsgård Riley Keough James Badge Dale 125 minuti
USA 2018
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Disobedience

di Domenico Saracino
disobedience - recensione film sebastian lelio

Se obbedire è ciecamente assecondare la volontà altrui, subire le scelte piuttosto che agirle, recintandosi al di qua delle aspettative degli altri e mai al di là, disobbedire è un coraggioso atto di autodeterminazione, la massima espressione del libero arbitrio che Dio stesso ci ha concesso per distinguerci dalle bestie. Nell’indipendenza che ogni atto di disobbedienza porta con sé, l’uomo trova così la sua libertà ma anche il suo fardello. È questo il tema – il libero arbitrio come munifico e doloroso dono divino, attorno al quale l’uomo ordisce l’intrico della sua esistenza – del sermone che apre Disobedience, primo film hollywoodiano di Sebastián Lelio, regista cileno tra i più affermati e membro della factory del connazionale Pablo Larraín (già produttore del suo precedente lavoro, Una donna fantastica, opera acclamata e premiata con l’Oscar al miglior film straniero).

Questo inizio didattico assume sin da subito uno statuto speciale, sia per la posizione strategica in capo alla narrazione, sia per quella solennità propria da monito testamentario di cui viene rivestito. L’orazione infatti si rivela essere l’ultima compiuta da Rav Krushka, il rabbino capo di una piccola comunità londinese di ebrei ortodossi che stroncato improvvisamente da un malore sotto gli occhi impotenti dei fedeli cui si rivolge – e, specialmente, del giovane Dovid Kuperman (Alessandro Nivola), figlio spirituale del Rav e suo aspirante successore.
La disobbedienza cui fanno riferimento l’ultima predica del rabbino e il titolo stesso dell’opera è ciò che ha permesso a Ronit Krushka (Rachel Weisz, anche produttrice del film), fotografa omosessuale, di sfuggire agli egoistici desiderata paterni e alle ottuse aspettative della congregazione per vivere la propria vita a New York in una sorta di ostracismo tanto volontario quanto necessario. L’obbedienza invece è ciò che ha tenuta incatenata Esti (Rachel McAdams), sua amata, alla comunità di origine e al ruolo che da lei ci si attendeva. Quello di una donna dall’esistenza esclusivamente votata all’esaudimento del volere altrui, dell'Onnipotente, dei rabbini, del marito sposato (che in questo caso è proprio Dovid, con cui entrambe, sia Esti che Ronit, sono cresciute).

Sono donne oppresse, Esti e Ronit, come Naomi Alderman, autrice del libro omonimo da cui è tratto il film di Lelio, o Esty Weinstein, scrittrice cresciuta in una comunità Haredim (una forma di ebraismo ultraortodosso) e artefice di un libro-testamento intitolato esattamente Esaudisco il suo volere, lasciato alle stampe poco prima di togliersi la vita. Donne costrette a sfornare figli per formare le famiglie numerose prescritte dalla Torah, a sedersi in separata sede nelle sinagoghe (a dividerle dagli uomini è il mechitza, un separatorio già previsto dal Talmud babilonese), a sottrarsi dal contatto con il sesso opposto e al contempo ad assolvere doveri sessuali rigidamente programmati. Costrette, insomma, ad essere completamente subordinate agli uomini.

Lelio restituisce questo senso di oppressione filmando la claustrofobia delle case e lavorando sapientemente sulla mimica e sui corpi, prima di lasciare esplodere la passione amorosa, riaccesasi tra le due donne al rientro di Ronit a Londra per i funerali del padre, tra i vicoli che si snodano, ricchi di euforica sensualità, fuori dal quartiere ebraico. Lasciando spazio al godimento dell’amplesso senza morbosità né voyeurismi tipici del male gaze.
Se in Una donna fantastica è il trans Marina ad assumere il fardello della libertà e della lotta per il riconoscimento della propria identità, anche sessuale, in Disobedience è Ronit a portare avanti con più decisione l’istanza di emancipazione. Eppure non c’è condanna né giudizio nella costruzione filmica del regista cileno: Lelio fa di Dovid un personaggio complesso e sfaccettato, capace di una reale evoluzione che rende la sua fede più saggia e vera, mentre Ronit è una moderna Antigone pronta a sfidare le assurde costrizioni della legge, senza violenza ma con la semplice volontà di assecondare la propria natura e di vivere il proprio amore. Perché in un mondo che fa dell’obbedienza al potere una condizione necessaria al mantenimento dello status quo, la disobbedienza, da Prometeo a Siddharta, da Ghandi a don Lorenzo Milani, non è che uno splendido atto d’amore.

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Sebastián Lelio Rachel Weisz Rachel McAdams Alessandro Nivola 114 minuti
USA, Regno Unito, Irlanda 2017
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Searching

di Samuel Antichi
Searching - recensione film

Il genere horror ha sempre avuto una particolare affiliazione con la tecnologia, a partire da un racconto gotico come Frankenstein fino al cinema, dalla tecnofobia che caratterizza film come Videodrome e Tetsuo, ai futuri distopici in cui macchine intelligenti prendono il controllo dell’individuo o in cui virus e spiriti si diffondono tramite il web come in Kairo, specchio del connective turn della società contemporanea. Le nuove tecnologie inoltre hanno anche saputo riconfigurare stilisticamente ed esteticamente il cinema horror, dal found footage di The Blair Witch Project alle macchine digitali che catturano e rappresentato figure fantasmatiche, demoniache e oscure presenze come in Paranormal Activity. Ultima frontiera e innovazione del social media horror risulta essere il filone definito dello screencast cinema, dove per screencast si intende la registrazione diretta del segnale video emesso su uno schermo. L’inquadratura combacia con il monitor dell’utente.

Film come The Den di Zachary Donohue, The Sick Thing That Happened to Emily When She Was Younger (il segmento diretto da Joe Swanberg per l’antologia V/H/S), Open Windows di Nachi Vigalondo, Unfriended di Levan Gabriadze (così come il recente seguito UnfriendedDark Web) si servono della narrazione attraverso screencast. Tuttavia, oltre ad essere una tecnica di racconto che senza ombra di dubbio consiste in una riflessione sui modelli e le pratiche di interazione con i social media, da Facebook a Instagram da Snapchat a Skype, lo screencast cinema può aprire nuove strade, dato lo spettro limitato e fisso dello sguardo e dell’occhio della macchina da presa, di interrelazione dialettica tra campo e fuori campo. I jumpscares di un film come Unfriended sono prevalentemente realizzati attraverso il celamento, o l’improvviso svelamento come nel finale del film, di un fuori campo attivo. Lo spettatore si domanda che cosa stia succedendo oltre lo schermo del laptop specialmente in risposta alle reazioni dei personaggi che vengono visti attraverso l’occhio della webcam.

Searching, opera prima del regista americano di origine indiana Aneesh Chaganty presentato in anteprima al Sundance Film Festival, adotta questa estetica e lo screencast come modello narrativo, eliminando, ad ogni modo, elementi propriamente horror o paranormali per mettere in scena una detection di stampo classico.
David Kim (John Cho) è un padre amorevole, forse fin troppo apprensivo verso la figlia Margot, specialmente da quando ha perso la moglie a seguito di un cancro, e sente di aver assunto maggiori responsabilità nei confronti della ragazza. All’improvviso Margot sembra scomparire nel nulla, non risponde ai messaggi e alle video chiamate del padre. Inizia così la ricerca dell’uomo che cercherà indizi andando ad esaminare le tracce lasciate dalla figlia sul proprio computer, una memoria esterna digitale fatta di contatti, foto, video e cronologia web. Il film inoltre mostra come l’utente, in maniera intenzionale e non, lasci elementi e informazioni proprie che possono essere manipolate e strumentalizzate. Enigmi disseminati tra le cartelle del pc. Ogni folder sul desktop potrebbe contenere una potenziale rilevazione o colpo di scena dal momento che il padre scopre di non conoscere affatto la vita privata della figlia. Sullo schermo del computer si alternano video dirette in streaming, video chiamate, immagini dei social media. Personaggi e luoghi non sono collegati attraverso i tagli del montaggio in maniera lineare e consequenziale ma coabitano l’inquadratura o lo schermo.


Attraverso lo spatial montage, termine proposto da Lev Manovich facendo riferimento anche al suo stesso lavoro Little Movies, ogni immagine, differente per dimensione e proporzione, non è giustapposta con quella che la precede o la segue ma sono tutte presenti sullo schermo. Sarà lo spettatore a decidere su quale elemento concentrare la propria attenzione nel momento in cui all’interno dell’inquadratura sono presenti immagini poste sullo stesso piano, video di youtube, conversazioni facebook e altro ancora. Con una nuova forma di montaggio proibito, che gestisce il tempo attraverso lo spazio del monitor e ridistribuisce più immagini sullo schermo, Searching, così come gli altri esempi citati di screencast cinema, riflette in maniera esplicita sulle differenti modalità di fruizione del testo filmico nell’era postmediale. Del resto il fatto che lo schermo della sala cinematografica possa corrispondere a quella di un monitor del computer è un chiaro riferimento al regime scopico con cui ha maggior familiarità lo spettatore/ utente contemporaneo.

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Aneesh Chaganty John Cho Debra Messing Joseph Lee Michelle La 101 minuti
USA 2018
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Il codice del babbuino

di Riccardo Bellini
Il codice del babbuino - recensione film

«Non si può non essere iconoclasti. Specialmente se si è della razza che farebbe cinema anche con gli specchietti retrovisori, o anche senza specchietti, semplicemente viaggiando in moto o attraverso la città» scrisse enrico ghezzi. Il duo composto da Davide Alfonsi e Denis Malagnino è senz’altro di questa specie, due marziani iconoclasti che il cinema lo farebbero anche solo con gli specchietti di una vecchia Citroën Saxo, a qualsiasi costo o per meglio dire anche a costo (quasi) zero. Il codice del babbuino, l’ultimo lavoro dei due registi e sceneggiatori, tra i fondatori nel 2004 del sorprendente Collettivo Amanda Flor – oggi trasformatosi nella società Donkey’s Movie – non smentisce le aspettative di un cinema senza compromessi, eroicamente distante da qualsiasi moda e animato unicamente dalla voglia di raccontare un’umanità autentica e dolente.

Il codice del babbuino è ispirato a uno stupro realmente avvenuto a Guidonia, comune romano in cui vivono Alfonsi e Malagnino, e alle conseguenti tensioni incendiarie che sono sorte nella comunità locale. Da questo clima in cui, dice Alfonsi, «regna l’idea che si possa privatizzare la giustizia» il film prende l’avvio raccontando la storia di Tiberio, il quale, dopo aver scoperto che la propria ragazza è stata violentata nei pressi di un campo rom, salta subito alle conclusioni e decide di farsi giustizia da sé. L’amico Denis (interpretato da Malagnino stesso), padre e marito indebitato fino al collo tanto da essere costretto a spacciare droga per mantenere la famiglia, lo dissuade e i due iniziano un’infernale odissea notturna sulle tracce dei responsabili. L’incontro con il Tibetano, bizzarro boss del quartiere, ribalta gli equilibri all’interno della coppia, portando la situazione alla deriva.

Macchina a mano, attori non professionisti, suono in presa diretta senza troppa cura per il missaggio, illuminazione ridotta al minimo, piani talmente stretti da imprigionare i volti, e la brutale campagna dell’estrema periferia romana come unica, eterna ambientazione che inghiotte i due protagonisti tra i suoi abissi. Il cinema dei registi guidoniani è un cinema nudo e crudo come quel mondo da cui si lascia permeare, in una nuova preistoria ripresa questa volta di notte e per lo più in auto. Una notte che corrode e corrompe, dipanando una storia di deformazione al cui centro la partita per accaparrarsi l’anima di Tiberio, diviso tra i consigli del saggio Denis e le tentazioni del mefistofelico Tibetano. Scartata l’ipotesi di una redenzione, tutti vengono trascinati in un torrente di precarietà e istinti primari che non risparmia nessuno, mentre del sacrificio resta solo il peso delle sue conseguenze da trascinarsi fino alla fine dei giorni, come un auto in panne.

Siamo di fronte un esempio di cinema acuto, moralmente vitale ed energico – nonché dalla lapidaria ironia – in quanto capace di omaggiare e mettere in moto, rimasticandolo per sputarlo con veemenza, tutto un immaginario cinematografico, posto come termine di paragone per uno scarto significativo verso la realtà rappresentata. Il Tibetano si confronta con i suoi modelli, cita il Tony Montana di Scarface (nel corso di una diatriba per decidere se attribuire la paternità del film a Scorsese o a De Palma) e vi si riconosce compiaciuto, senza riconoscere al contrario il gap incolmabile tra la squallida quotidianità di cui fa parte e i sogni di gloria – almeno secondo la sua visione – di quella criminalità rappresentata sullo schermo. Modelli che non a caso finiscono con l’equivalersi in un processo indifferenziante – Scorsese e De Palma diventano la stessa cosa – messo in moto da una bulimia anestetizzata che riconduce il cinema, come fanno del resto sacrosantamente gli ex Amanda Flor, alla materia escrementizia (si veda, tanto per fare uno degli esempi più estremi, la loro web serie The Marduk’s). Del resto, per vantare la sua cultura cinematografica, il Tibetano afferma «….io quando vado al cesso leggo sempre il Mereghetti».  

Il codice del babbuino trasuda anche in questo tutta la gran voglia di fare cinema di Alfonsi e Malagnino, i quali hanno dimostrato per l’ennesima volta di saper tradurre la scarsità dei mezzi in un sinonimo di libertà creativa.

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Davide Alfonsi Denis Malagnino Denis Malagnino Tiberio Suma Stefano Miconi Proietti 81 minuti
Italia 2018
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Tetsuo: The Bullet Man

di Alessandro Gaudiano
Tetsuo 3 - the bullet man - recensione film tsukamoto

A quasi vent’anni dal primo Tetsuo, il terzo capitolo della trilogia dell’Uomo di Ferro approda al lido di Venezia nel 2009. Molte cose sono cambiate: Shin’ya Tsukamoto è ormai riconosciuto come un autore di primissimo piano dalla cinefilia e critica internazionale, come dimostra la presenza in concorso alla Mostra del Cinema, mentre il cinema digitale ha cambiato le regole del gioco e reso più accessibile la realizzazione di opere “leggere” e autoprodotte come fu il capitolo del 1989 (girato in 16 millimetri). Tetsuo: The Bullet Man è il prodotto di tutti questi cambiamenti: una riflessione sul passato, un punto fermo su una storia ancora attuale e conturbante, una mediazione tra epoca analogica e digitale.

Il cuore di The Bullet Man è sempre la trasformazione/evoluzione del corpo, il dolore di una mutazione ineluttabile. Ad agitare la carne in nuove geometrie metalliche è, ancora una volta, la rabbia, scaturita dalla morte di un figlio come in The Body Hammer. E, di nuovo, l’unico esito possibile del superamento del corpo è la rottura dei confini dell’identità corporea: la fusione tra il protagonista e l’antagonista che, per la prima volta, non ha esiti apocalittici.

The Bullet Man è una variazione sul tema di Tetsuo: parlare di sequel, o di reboot, rischia di semplificare un dialogo tra queste tre opere che ha una natura più emotiva e stilistica che narrativa. I richiami formali e le esplosioni percettive richiamano, quasi inglobandoli, i due capitoli precedenti. Ancora una volta, Tsukamoto non esita a mettere in scena sequenze dalla grafia rapidissima, fatta di camere a mano e teleobiettivi che danzano come dervisci attorno alla carne dei personaggi. In particolare, la sequenza della prima trasformazione, con il titolo del film in sovraimpressione, è da antologia. Tuttavia, queste esplosioni formali sono più rare del solito, mentre uno spazio maggiore viene dato alla costruzione di un racconto filmico più tradizionale, fatto di complotti ed esperimenti militari segreti. Gli effetti speciali sono stati aggiornati rispetto agli anni Novanta, ma restano di fattura gustosamente analogica, artigianale. Il risultato è un simbionte di difficile descrizione, un film giapponese che gioca ad essere americano; Tsukamoto aveva in progetto, dopo The Body Hammer, di girare un film della saga negli Stati Uniti, e The Bullet Man è qualcosa che ci si avvicina molto.

Questa natura ibrida attraversa tutto il film, nei contenuti e nelle forme. Anthony è americano, mentre sua moglie è giapponese. Metà uomo e metà macchina, è destinato a confliggere con la sua nemesi (nuova incarnazione del feticista del metallo, interpretata, ancora una volta, da Tsukamoto stesso) e ad inglobarla nel proprio corpo. Narrativo ed astratto sono accostati, quasi in conflitto tra loro, e la narrazione procede con un ritmo volutamente irregolare. Se c’è una parola chiave che può definire l’intera operazione, questa è “sintesi”. Sintesi per tentativi, a volte reale, a volte illusoria: un ventaglio di tesi e antitesi, estrusioni e intrusioni, analogico e digitale, che procede per penetrazioni, impatti, traumi. Un incubo a occhi sbarrati che, a differenza dei primi due titoli della saga, sembra concludersi con un risveglio: il mutante e il feticista non si uniscono per diventare una macchina di morte o gli unici sopravvissuti di un’apocalisse, ma resistono – semi di ribellione in un mondo conforme – all’interno della metropoli popolata di colletti bianchi e anime perdute. Se non un’utopia, quasi un lieto fine.

The Bullet Man manca della furia iconoclasta dei primi due episodi di Tetsuo ed è appesantito da una trama non necessaria, ma la potenza delle sue immagini resta indiscutibile. Il dolore della perdita e la ricerca di un’impossibile sintesi sembrano permeare ogni singola inquadratura e farsi qualcos’altro: una esplorazione dell’indicibile e dell’incubo, ricerca necessaria per riemergere dall’oscurità della sala e ritrovare la magia sciamanica del cinema.

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Shin'ya Tsukamoto Eric Bossick Shin'ya Tsukamoto 79 minuti
Giappone 2009
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Overlord

di Matteo Marescalco
Overlord - recensione film abrams avery

A proposito del suo Cloverfield Universe, J.J. Abrams ha parlato di un gigantesco parco giochi in cui ogni film corrisponde ad un'attrazione tematicamente collegata alle altre; un progetto trasversale, del quale in molti hanno pensato facesse parte anche Overlord, ennesimo titolo sviluppato sotto mentite spoglie. In particolare si pensava ad un quarto capitolo che mostrasse le origini dell’esperimento causa di tutti i mali seguenti, e in effetti – per chi avesse letto la sinossi del film e fosse in attesa della sua anteprima al Fantastic Fest di Austin – si comprende quanto questi dubbi fossero assolutamente dotati di fondamento.

È la vigilia dello sbarco in Normandia. Un contingente di soldati sta per arrivare in Francia per via aerea. Il gruppo di paracadutisti americani deve abbattere una torre di controllo e favorire la buona riuscita del D-day. L'aereo su cui viaggiano, però, viene colpito dal fuoco dei mitragliatori nemici e i soldati si ritrovano catapultati nel bel mezzo di uno strano villaggio francese occupato dai nazisti. Ben presto e grazie al sostegno di una ragazza indigena, il gruppo si accorge che il sottosuolo del villaggio nasconde un terribile segreto. Gli scienziati nazisti, infatti, hanno costruito una fitta trama di laboratori per testare un siero che trasforma gli uomini in zombie e dar vita, in questo modo, ad un esercito immortale. E lo spazio domestico del villaggio, in tal modo, viene invaso non solo dai nazisti ma anche dai morti viventi.

Anche Overlord non è sfuggito alla coltre di mistero che caratterizza ogni progetto di J.J. Abrams, mago del marketing e delle tecniche di depistaggio utilizzate per stuzzicare gli spettatori da molto tempo prima dell'uscita del film nelle sale. Questa folle commistione tra war movie, buddy film e horror è quanto di più lontano possa esserci da un saggio teorico come Cloverfield. Anzi, l'assunto su cui poggia lo spin-off della saga, 10 Cloverfield Lane, viene completamente ribaltato. Tanto là l'apocalisse era già avvenuta ed era relegata al fuori campo, quanto in Overlord si spinge l'acceleratore sul gore estremo e sullo splatter gettato in faccia allo spettatore. Nel film diretto da Julius Avery, i soldati si muovono come indagatori dell'incubo, alla ricerca dei germi che hanno intaccato e ridotto alla morte i corpi delle cavie umane. Come la New York di Cloverfield, sul cui tessuto da b-movie si era innestato il gigantesco mostro invisibile degli effetti speciali da blockbuster, anche la “povertà” del body horror a basso budget, in Overlord, subisce una sorta di evoluzione.

Il nazi-zombie movie è costruito su una drammaturgia da manuale che parte con lentezza e va incontro ad una clamorosa progressione che conduce verso un secondo atto dinamitardo e canzonatorio. Anche l'ottica del videogame viene inglobata da questo prodotto fresco ed inventivo che riesce a caratterizzare ogni singolo personaggio che anima il suo mosaico. Avery dirige un blockbuster rigorosamente travestito da b-movie a cui, probabilmente, la distribuzione italiana (20th Century Fox) non ha creduto più di tanto. Overlord è una produzione mainstream originale e particolarmente attenta ai gusti del proprio spettatore tipo, cui viene dato in pasto un divertimento sveglio e mai omologato al resto della produzione di massa. Un divertissment del genere è una bizzarria che provoca risate e orrore viscerale, una vera boccata d'ossigeno che ha il coraggio scriteriato di rileggere la storia con toni da screwball comedy e che dimostra di conoscere e di sapere gestire con ottimi risultati l'eterogeneo materiale che maneggia.

 

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Julius Avery Jovan Adepo Wyatt Russell Jacob Anderson 110 minuti
USA 2018
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Zombie contro zombie (One Cut of The Dead)

di Alessandro Gaudiano
one cut of the dead - recensione film tucker

Poche cose sono agli antipodi rispetto al concetto di “originalità” quanto l’idea di produrre l’ennesimo film sugli zombie. Tutti gli aspetti di questo tropo narrativo concettuale, da quello sociologico a quello squisitamente orrorifico, fino al comico, sono stati sfruttati da cinema, letteratura e videogiochi. Shinichiro Ueda è invece riuscito nell’impresa non da poco di trovare un nuovo punto di vista per la sua opera prima, Zombie contro Zombie (One Cut of The Dead): ispirato da un’opera teatrale, Ghost in the Box, l’autore usa i morti viventi per riflettere sulla macchina del cinema e divertire lo spettatore.
Distribuito nelle sale grazie alla sempre più coraggiosa e indispensabile Tucker Film, Zombie contro Zombie è un piccolo film con un grande cuore, il cui successo fulmineo e inaspettato ha fatto ricordare a molti il caso di The Blair Witch Project.

È necessario entrare nel vivo della trama per trasmettere l’intelligenza con cui Zombie contro Zombie è costruito.
La prima mezz’ora del film ci mostra una storia piuttosto convenzionale, per quanto gustosa e divertente: un regista esasperato cerca di girare la sua opera a tema zombie in un edificio abbandonato, che si rivela essere davvero infestato dai morti viventi.  Dopo l’ennesima sfuriata, il regista mette in campo i veri morti viventi e la sua troupe si trova ad affrontare la sua follia e lottare per la sopravvivenza. Una mezz’ora di film in una sola inquadratura, rocambolesca e divertente, che gioca con attori volutamente sopra le righe e stranezze che sembrano attribuirsi ad una produzione sgangherata. Quando si arriva al finale scorrono i titoli di coda dell’opera: qualcosa non torna, ed è chiaro che manca almeno un’ora alla fine del film. In questo attimo di smarrimento, lo spettatore capisce che qualcosa gli è stato nascosto. La curiosità di sapere che cosa sta realmente guardando trattiene lo spettatore e lo ingaggia in un gioco autoironico e metalinguistico con l’autore.
Rewind: un mese prima. Quello che segue è il racconto di come il film che abbiamo visto nel primo “atto” è nato: scambi di idee, spogli di sceneggiatura, casting e discorsi che ci aspettiamo da un documentario dietro le quinte. Permane, però, la sensazione di uno scollamento, di particolari che non collimano con quello che abbiamo visto in precedenza. Risulta presto chiaro che il regista-personaggio del film è in realtà il regista di One Cut of The Dead, lo zombie-movie che abbiamo appena guardato, ma il personaggio del film è interpretato da un altro attore che non abbiamo mai visto prima... scopriamo, inoltre, che il film verrà trasmesso in diretta televisiva: non sono ammessi errori né secondi tentativi.
La terza parte del film ci riporta all’inizio, ma da una prospettiva diversa: è l’ora delle riprese, che dovranno continuare ad ogni costo e a dispetto dell’impressionante numero di imprevisti che, naturalmente, renderà la realizzazione dell’impresa a dir poco complicata.

La graduale risoluzione del puzzle messo in campo da Ueda è gratificante, ed è amplificata dalla posta in gioco registica della ripresa continua: un’emozione derivata, ed è un’impresa non da poco, da un vincolo linguistico (il one cut, la singola inquadratura continua) e dal prodigio tecnico di un cinema senza trucchi di montaggio. Una continuità magica a dispetto dell’imperfezione della macchina delle immagini, prodigiosa quanto lo era negli appassionati scritti di Bazin e degli infuocati teorici del piano sequenza: i pezzi cominciano a combaciare e l’incantesimo regge, va avanti a dispetto di ostacoli e improvvisazioni forzate; i piani narrativi si moltiplicano e piccole storie emergono ai margini: il rapporto tra il regista, sua moglie e sua figlia, rivalità e ambizioni nella troupe, problemi intestinali e postumi di sbronza. La banalissima riuscita dell’inquadratura finale del film ha il sapore di un trionfo.

Il piacere di guardare Zombie contro Zombie è il piacere della narrazione, puro e semplice. È il piacere delle trovate comiche incalzanti, dei continui ribaltamenti (che arrivano a coinvolgere anche i titoli di coda), del gioco degli smarrimenti accuratamente costruiti e amplificato da una grande fiducia nello spettatore.
Con pochi soldi e l’intelligenza per fare dell’arte povera un punto di forza, l’autore usa tutti gli strumenti di un linguaggio low budget: attori sconosciuti, riprese sgranate e con gamma dinamica ridottissima prima e, nella seconda parte, lo stile di un documentario dietro le quinte. B-movie, mockumentary e metacinema concorrono a costruire un oggetto cinefilo gustoso e imprevedibile, che salta da un livello narrativo all’altro e usa un tropo narrativo decotto per raccontare altro, giocandosi tutto sulla forza delle idee.

Questo piccolo grande film, che ha subito incantato il pubblico del Far East Film Festival, merita di essere amato e sostenuto perché sa fare qualcosa che accade sempre più raramente, e che a livello produttivo è sempre più difficile realizzare: sovvertire completamente le aspettative del suo pubblico e, superata questa piccola e necessaria delusione, portarlo verso nuovi orizzonti e nuovi viaggi cinematografici.

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Shinichiro Ueda Takayuki Hamatsu Yuzuki Akiyama 97 minuti
Giappone 2017
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Louisiana (The Other Side)

di Paolo Di Marcelli
Louisiana di Roberto Minervini

Conclusa la trilogia texana, Roberto Minervini si sposta in Louisiana su consiglio di uno dei protagonisti di Stop the Pounding Heart (2013), che gli indica un parente, la sua famiglia e la comunità in cui sono inseriti come possibile oggetto di un’eventuale e nuova indagine filmica.

Stavolta l’approccio è più descrittivo che narrativo, teso a documentare l’eterno ritorno delle abitudini dei personaggi piuttosto che una possibile evoluzione o un cambio di prospettiva. Ci troviamo nella pancia dell’America, quella determinante per il voto ma assai poco raccontata, in una zona che conta il 60% di disoccupazione, dunque dove la macchina da presa non può che riaccendersi sugli ultimi e sugli emarginati.

L’umanità poverissima della prima parte del film, diviso in due blocchi distinti e apparentemente scollegati, è quella di Mark e la sua cerchia di affetti e conoscenze che comprende tutte le generazioni possibili, dall’infanzia alla senilità. Si vive alla giornata, alcol, droghe e strip club sono all’ordine del giorno, l’uomo ha una compagna, Lisa, e Minervini ci porta dentro gli spazi aperti e chiusi delle loro esistenze, il Natale in famiglia passato davanti alla loro roulotte (si gela ma è l’unico luogo possibile per una tavolata più o meno imbandita), i barbecue, i lavori saltuari, le case dei parenti. The other side, questo il titolo originale dell’opera approdata a Cannes nel 2015 nella sezione “Un Certain Regard” documenta senza censura e giudizi l’altro lato dell’amore e della rabbia. Tutto, nelle vite precarie di Mark e soci, è in completo disfacimento, si tira a campare grazie ai proventi dello spaccio ma la sensazione che si ha, osservando in un silenzio ammutolito e quasi sacrale la sventura dei personaggi, è quella del legame profondissimo sia tra i due innamorati sia tra il protagonista e i suoi parenti, che egli aiuta come può e con qualsiasi mezzo. Il regista torna allora a raccontare la famiglia come unico appiglio cui aggrapparsi mentre fuori il mondo è, se non in fiamme, almeno dissolto irrimediabilmente. In un simile scenario, dove il contatto fisico, gli abbracci, l’importanza dei corpi e della carne prevalgono come un piacevole analgesico insieme alle metanfetamine, Mark spicca per la sua tenacia, per la volontà di resistere nonostante tutto e lo fa, oltre che da vero e proprio eroe tragico, da attore consumato: forse è per questo che Minervini seleziona tra le tantissime ore di girato le sequenze che più di tutte fanno sembrare Louisiana un film di finzione, con proposte di matrimonio, scene di sesso, lacrime e gesti e parole tanto cinematografiche quanto davvero difficili da digerire. Sono proprio queste ultime ad essere, spesso, cariche di rabbia verso Obama e più in generale contro un governo che ha dimenticato una periferia così lontana da essere ignorata. In questo senso, come ha ammesso il regista, in corso d’opera il documentario è diventato soprattutto politico, dando spazio al risentimento diffuso e sofferto di chi si è trovato tradito dalle promesse del sogno americano.

E la rabbia diffusa è anche il fil rouge che lega la prima alla seconda parte, talmente corta da sembrare un’appendice e che infatti è stata improvvisata sulla via del ritorno in Texas. Un gruppo di paramilitari, alcuni ex-soldati dell’esercito, si incontra periodicamente nei boschi per esercitarsi alla guerriglia contro una fantomatica legge marziale che il governo o l’Onu starebbero per imporre, un’invasione disconosciuta che metterebbe in pericolo le loro famiglie. Confusione ideologica, violenza, aggressività, cameratismo becero (il raduno sulle rive di un lago con birra a fiumi, gara per la miglior maglietta bagnata e fellatio con la maschera di Obama sembrano messe in scena da Harmony Korine) sono ripresi ancora con la stessa giusta distanza e la totale assenza di intervento, dopo aver conquistato anche in questo caso la massima fiducia dei soggetti ripresi, insinuandosi nuovamente tra loro, fissandone la commozione, i primi piani, la fratellanza e la tensione sospesa, tra proteggere e distruggere. Se nella prima parte si inveiva contro le istituzioni per aver perso la libertà di vivere dignitosamente, qui si rivendica la libertà di fare ciò che si vuole, a partire da quella di possedere un’arma.

Louisiana è così un dittico sulla miseria (economica, sociale, culturale) e sulle sue conseguenze, disseminato qua e là da squarci che qualsiasi altro regista avrebbe preferito celare e che invece Minervini e sua moglie, aiutati dal contributo fondamentale di Marie-Hélène Dozo, montatrice storica dei fratelli Dardenne, scelgono di mostrare e connettere in un discorso potente, viscerale, urgente e necessario. Chissà se è stata proprio la Dozo a scegliere come incipit una delle tante esercitazioni a caccia del nemico invisibile nella foresta (quindi, di fatto, un’anticipazione della breve seconda parte) e a intuire che l’esordio perfetto di Mark, fosse, subito dopo, presentarlo ancora addormentato sull’erba, nudo e indifeso come una preda.

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Roberto Minervini 92 minuti
Italia, Francia
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Halloween – The Beginning

di Mattia Caruso
Halloween-The-Beginning recensione film rob zombie

Erano bastati solo pochi minuti, a John Carpenter, per raccontarci le origini del Male, togliere per un istante la maschera al piccolo Michael Myers e allontanarsi dalla scena del crimine, lasciandolo per quindici anni solo con il suo mistero. Pare partire da qui, da quella breve (e memorabile) sequenza iniziale, Rob Zombie per il suo Halloween – The Beginning, prendendo proprio quegli ultimi fotogrammi ma dilatandoli all'inverosimile, in un viaggio a ritroso alla ricerca della scintilla dietro a quello sguardo innocente e omicida. Sta tutto in questa differenza di prospettive, d'altronde, il principale scarto tra l'Halloween originale e il suo dignitosissimo successore, il senso di un'operazione che non vuole riscriverne il mito ma, piuttosto, guardarlo da un'altra angolazione.

Dopo aver portato alla saturazione un intero immaginario fatto di killer redivivi e schemi ripetuti all'inverosimile, la saga dedicata a “The Shape” opta così per una nuova rinascita, prendendo a modello il canone rappresentato dai primi due film e costruendovi attorno un remake/reboot che è anche un prequel, la cronaca delle origini di un Male redivivo e finalmente ben visibile. Perché è proprio nella quotidianità famigliare e nell'infanzia di Michael che si immerge, senza paura di sporcarsi, lo sguardo cinefilo di Rob Zombie, cercando in quel filmino di famiglia tipicamente white trash le ragioni e le cause che hanno portato alla nascita del serial killer più iconico della storia del cinema.

Il risultato è un'opera brutale e suggestiva, marcatamente divisa in due tempi, tra un passato restituito con stile rabbioso e vibrante e un presente dal ritmo implacabile, dove il regista ci introduce nell'alienazione progressiva di Michael, nei suoi silenzi ostinati, nella sua fredda determinazione omicida, fino a illuminare di una nuova luce persino il successivo (e risaputo) corso degli eventi.

È qui, nei sobborghi di Haddonfield, che diventa infatti chiaro come sia ormai lontano l'Halloween carpenteriano, una distanza evidente tanto per la messa in scena di un orrore sempre più sanguinario e viscerale quanto per un punto di vista capace di ribaltare e ridistribuire temi e ruoli. Ecco allora che Michael cessa di essere l'antagonista impenetrabile, onnisciente e vagamente soprannaturale dei capitoli precedenti per diventare, a tutti gli effetti – grazie a quegli antefatti che gli hanno donato un briciolo di umanità – l'ennesimo esemplare del  circo di freaks del regista di The Devil's Rejects, il pezzo forte di una poetica sanguinaria capace di provare una disturbante empatia persino per il più terribile dei suoi emarginati.

E se nel film originale era Laurie il perno tematico della vicenda, con quella sessualità repressa e quel moralismo castrante di cui l'Ombra della Strega era, in definitiva, la più concreta e terribile proiezione, il nuovo Halloween, pur non disdegnando la consueta mattanza di adolescenti, decide di eleggere proprio Michael a protagonista assoluto, tentando di scrutarne finalmente il volto (e lo sguardo) nascosto dietro alla maschera. Eppure, benché sempre in campo, il suo è uno sguardo che resta impenetrabile, un pozzo oscuro fatto di un'assenza di calore e di umanità che niente e nessuno può capire o salvare, né il Dottor Loomis (Malcolm McDowell) che rinuncerà a curarlo, scatenando quella tempesta perfetta nella notte di Ognissanti, né il regista stesso, costretto a mostrarci, una volta esaurite le parole, l'avanzare implacabile di quel Male assoluto che rifiuta ogni catalogazione.

Senza tradire l'immaginario delle origini ma sovrapponendovi il proprio, in un equilibrio che – tra citazioni (da L'isola degli zombies a Non aprite quella porta) e suggestive trovate espressive – ha del prodigioso, Zombie crea così il miglior remake che si potesse immaginare, il trionfo di un orrore costruito con occhio sapiente e originale, in grado di confermare il talento di un regista giunto con questo film alla sua definitiva prova di maturità.

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Rob Zombie Malcolm McDowell Sheri Moon Zombie Tyler Mane Scout Taylor-Compton Brad Dourif Danielle Harris William Forsythe 110 minuti
USA 2007
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