Tetsuo: The Bullet Man

di Alessandro Gaudiano
Tetsuo 3 - the bullet man - recensione film tsukamoto

A quasi vent’anni dal primo Tetsuo, il terzo capitolo della trilogia dell’Uomo di Ferro approda al lido di Venezia nel 2009. Molte cose sono cambiate: Shin’ya Tsukamoto è ormai riconosciuto come un autore di primissimo piano dalla cinefilia e critica internazionale, come dimostra la presenza in concorso alla Mostra del Cinema, mentre il cinema digitale ha cambiato le regole del gioco e reso più accessibile la realizzazione di opere “leggere” e autoprodotte come fu il capitolo del 1989 (girato in 16 millimetri). Tetsuo: The Bullet Man è il prodotto di tutti questi cambiamenti: una riflessione sul passato, un punto fermo su una storia ancora attuale e conturbante, una mediazione tra epoca analogica e digitale.

Il cuore di The Bullet Man è sempre la trasformazione/evoluzione del corpo, il dolore di una mutazione ineluttabile. Ad agitare la carne in nuove geometrie metalliche è, ancora una volta, la rabbia, scaturita dalla morte di un figlio come in The Body Hammer. E, di nuovo, l’unico esito possibile del superamento del corpo è la rottura dei confini dell’identità corporea: la fusione tra il protagonista e l’antagonista che, per la prima volta, non ha esiti apocalittici.

The Bullet Man è una variazione sul tema di Tetsuo: parlare di sequel, o di reboot, rischia di semplificare un dialogo tra queste tre opere che ha una natura più emotiva e stilistica che narrativa. I richiami formali e le esplosioni percettive richiamano, quasi inglobandoli, i due capitoli precedenti. Ancora una volta, Tsukamoto non esita a mettere in scena sequenze dalla grafia rapidissima, fatta di camere a mano e teleobiettivi che danzano come dervisci attorno alla carne dei personaggi. In particolare, la sequenza della prima trasformazione, con il titolo del film in sovraimpressione, è da antologia. Tuttavia, queste esplosioni formali sono più rare del solito, mentre uno spazio maggiore viene dato alla costruzione di un racconto filmico più tradizionale, fatto di complotti ed esperimenti militari segreti. Gli effetti speciali sono stati aggiornati rispetto agli anni Novanta, ma restano di fattura gustosamente analogica, artigianale. Il risultato è un simbionte di difficile descrizione, un film giapponese che gioca ad essere americano; Tsukamoto aveva in progetto, dopo The Body Hammer, di girare un film della saga negli Stati Uniti, e The Bullet Man è qualcosa che ci si avvicina molto.

Questa natura ibrida attraversa tutto il film, nei contenuti e nelle forme. Anthony è americano, mentre sua moglie è giapponese. Metà uomo e metà macchina, è destinato a confliggere con la sua nemesi (nuova incarnazione del feticista del metallo, interpretata, ancora una volta, da Tsukamoto stesso) e ad inglobarla nel proprio corpo. Narrativo ed astratto sono accostati, quasi in conflitto tra loro, e la narrazione procede con un ritmo volutamente irregolare. Se c’è una parola chiave che può definire l’intera operazione, questa è “sintesi”. Sintesi per tentativi, a volte reale, a volte illusoria: un ventaglio di tesi e antitesi, estrusioni e intrusioni, analogico e digitale, che procede per penetrazioni, impatti, traumi. Un incubo a occhi sbarrati che, a differenza dei primi due titoli della saga, sembra concludersi con un risveglio: il mutante e il feticista non si uniscono per diventare una macchina di morte o gli unici sopravvissuti di un’apocalisse, ma resistono – semi di ribellione in un mondo conforme – all’interno della metropoli popolata di colletti bianchi e anime perdute. Se non un’utopia, quasi un lieto fine.

The Bullet Man manca della furia iconoclasta dei primi due episodi di Tetsuo ed è appesantito da una trama non necessaria, ma la potenza delle sue immagini resta indiscutibile. Il dolore della perdita e la ricerca di un’impossibile sintesi sembrano permeare ogni singola inquadratura e farsi qualcos’altro: una esplorazione dell’indicibile e dell’incubo, ricerca necessaria per riemergere dall’oscurità della sala e ritrovare la magia sciamanica del cinema.

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Shin'ya Tsukamoto Eric Bossick Shin'ya Tsukamoto 79 minuti
Giappone 2009
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Overlord

di Matteo Marescalco
Overlord - recensione film abrams avery

A proposito del suo Cloverfield Universe, J.J. Abrams ha parlato di un gigantesco parco giochi in cui ogni film corrisponde ad un'attrazione tematicamente collegata alle altre; un progetto trasversale, del quale in molti hanno pensato facesse parte anche Overlord, ennesimo titolo sviluppato sotto mentite spoglie. In particolare si pensava ad un quarto capitolo che mostrasse le origini dell’esperimento causa di tutti i mali seguenti, e in effetti – per chi avesse letto la sinossi del film e fosse in attesa della sua anteprima al Fantastic Fest di Austin – si comprende quanto questi dubbi fossero assolutamente dotati di fondamento.

È la vigilia dello sbarco in Normandia. Un contingente di soldati sta per arrivare in Francia per via aerea. Il gruppo di paracadutisti americani deve abbattere una torre di controllo e favorire la buona riuscita del D-day. L'aereo su cui viaggiano, però, viene colpito dal fuoco dei mitragliatori nemici e i soldati si ritrovano catapultati nel bel mezzo di uno strano villaggio francese occupato dai nazisti. Ben presto e grazie al sostegno di una ragazza indigena, il gruppo si accorge che il sottosuolo del villaggio nasconde un terribile segreto. Gli scienziati nazisti, infatti, hanno costruito una fitta trama di laboratori per testare un siero che trasforma gli uomini in zombie e dar vita, in questo modo, ad un esercito immortale. E lo spazio domestico del villaggio, in tal modo, viene invaso non solo dai nazisti ma anche dai morti viventi.

Anche Overlord non è sfuggito alla coltre di mistero che caratterizza ogni progetto di J.J. Abrams, mago del marketing e delle tecniche di depistaggio utilizzate per stuzzicare gli spettatori da molto tempo prima dell'uscita del film nelle sale. Questa folle commistione tra war movie, buddy film e horror è quanto di più lontano possa esserci da un saggio teorico come Cloverfield. Anzi, l'assunto su cui poggia lo spin-off della saga, 10 Cloverfield Lane, viene completamente ribaltato. Tanto là l'apocalisse era già avvenuta ed era relegata al fuori campo, quanto in Overlord si spinge l'acceleratore sul gore estremo e sullo splatter gettato in faccia allo spettatore. Nel film diretto da Julius Avery, i soldati si muovono come indagatori dell'incubo, alla ricerca dei germi che hanno intaccato e ridotto alla morte i corpi delle cavie umane. Come la New York di Cloverfield, sul cui tessuto da b-movie si era innestato il gigantesco mostro invisibile degli effetti speciali da blockbuster, anche la “povertà” del body horror a basso budget, in Overlord, subisce una sorta di evoluzione.

Il nazi-zombie movie è costruito su una drammaturgia da manuale che parte con lentezza e va incontro ad una clamorosa progressione che conduce verso un secondo atto dinamitardo e canzonatorio. Anche l'ottica del videogame viene inglobata da questo prodotto fresco ed inventivo che riesce a caratterizzare ogni singolo personaggio che anima il suo mosaico. Avery dirige un blockbuster rigorosamente travestito da b-movie a cui, probabilmente, la distribuzione italiana (20th Century Fox) non ha creduto più di tanto. Overlord è una produzione mainstream originale e particolarmente attenta ai gusti del proprio spettatore tipo, cui viene dato in pasto un divertimento sveglio e mai omologato al resto della produzione di massa. Un divertissment del genere è una bizzarria che provoca risate e orrore viscerale, una vera boccata d'ossigeno che ha il coraggio scriteriato di rileggere la storia con toni da screwball comedy e che dimostra di conoscere e di sapere gestire con ottimi risultati l'eterogeneo materiale che maneggia.

 

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Julius Avery Jovan Adepo Wyatt Russell Jacob Anderson 110 minuti
USA 2018
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Zombie contro zombie (One Cut of The Dead)

di Alessandro Gaudiano
one cut of the dead - recensione film tucker

Poche cose sono agli antipodi rispetto al concetto di “originalità” quanto l’idea di produrre l’ennesimo film sugli zombie. Tutti gli aspetti di questo tropo narrativo concettuale, da quello sociologico a quello squisitamente orrorifico, fino al comico, sono stati sfruttati da cinema, letteratura e videogiochi. Shinichiro Ueda è invece riuscito nell’impresa non da poco di trovare un nuovo punto di vista per la sua opera prima, Zombie contro Zombie (One Cut of The Dead): ispirato da un’opera teatrale, Ghost in the Box, l’autore usa i morti viventi per riflettere sulla macchina del cinema e divertire lo spettatore.
Distribuito nelle sale grazie alla sempre più coraggiosa e indispensabile Tucker Film, Zombie contro Zombie è un piccolo film con un grande cuore, il cui successo fulmineo e inaspettato ha fatto ricordare a molti il caso di The Blair Witch Project.

È necessario entrare nel vivo della trama per trasmettere l’intelligenza con cui Zombie contro Zombie è costruito.
La prima mezz’ora del film ci mostra una storia piuttosto convenzionale, per quanto gustosa e divertente: un regista esasperato cerca di girare la sua opera a tema zombie in un edificio abbandonato, che si rivela essere davvero infestato dai morti viventi.  Dopo l’ennesima sfuriata, il regista mette in campo i veri morti viventi e la sua troupe si trova ad affrontare la sua follia e lottare per la sopravvivenza. Una mezz’ora di film in una sola inquadratura, rocambolesca e divertente, che gioca con attori volutamente sopra le righe e stranezze che sembrano attribuirsi ad una produzione sgangherata. Quando si arriva al finale scorrono i titoli di coda dell’opera: qualcosa non torna, ed è chiaro che manca almeno un’ora alla fine del film. In questo attimo di smarrimento, lo spettatore capisce che qualcosa gli è stato nascosto. La curiosità di sapere che cosa sta realmente guardando trattiene lo spettatore e lo ingaggia in un gioco autoironico e metalinguistico con l’autore.
Rewind: un mese prima. Quello che segue è il racconto di come il film che abbiamo visto nel primo “atto” è nato: scambi di idee, spogli di sceneggiatura, casting e discorsi che ci aspettiamo da un documentario dietro le quinte. Permane, però, la sensazione di uno scollamento, di particolari che non collimano con quello che abbiamo visto in precedenza. Risulta presto chiaro che il regista-personaggio del film è in realtà il regista di One Cut of The Dead, lo zombie-movie che abbiamo appena guardato, ma il personaggio del film è interpretato da un altro attore che non abbiamo mai visto prima... scopriamo, inoltre, che il film verrà trasmesso in diretta televisiva: non sono ammessi errori né secondi tentativi.
La terza parte del film ci riporta all’inizio, ma da una prospettiva diversa: è l’ora delle riprese, che dovranno continuare ad ogni costo e a dispetto dell’impressionante numero di imprevisti che, naturalmente, renderà la realizzazione dell’impresa a dir poco complicata.

La graduale risoluzione del puzzle messo in campo da Ueda è gratificante, ed è amplificata dalla posta in gioco registica della ripresa continua: un’emozione derivata, ed è un’impresa non da poco, da un vincolo linguistico (il one cut, la singola inquadratura continua) e dal prodigio tecnico di un cinema senza trucchi di montaggio. Una continuità magica a dispetto dell’imperfezione della macchina delle immagini, prodigiosa quanto lo era negli appassionati scritti di Bazin e degli infuocati teorici del piano sequenza: i pezzi cominciano a combaciare e l’incantesimo regge, va avanti a dispetto di ostacoli e improvvisazioni forzate; i piani narrativi si moltiplicano e piccole storie emergono ai margini: il rapporto tra il regista, sua moglie e sua figlia, rivalità e ambizioni nella troupe, problemi intestinali e postumi di sbronza. La banalissima riuscita dell’inquadratura finale del film ha il sapore di un trionfo.

Il piacere di guardare Zombie contro Zombie è il piacere della narrazione, puro e semplice. È il piacere delle trovate comiche incalzanti, dei continui ribaltamenti (che arrivano a coinvolgere anche i titoli di coda), del gioco degli smarrimenti accuratamente costruiti e amplificato da una grande fiducia nello spettatore.
Con pochi soldi e l’intelligenza per fare dell’arte povera un punto di forza, l’autore usa tutti gli strumenti di un linguaggio low budget: attori sconosciuti, riprese sgranate e con gamma dinamica ridottissima prima e, nella seconda parte, lo stile di un documentario dietro le quinte. B-movie, mockumentary e metacinema concorrono a costruire un oggetto cinefilo gustoso e imprevedibile, che salta da un livello narrativo all’altro e usa un tropo narrativo decotto per raccontare altro, giocandosi tutto sulla forza delle idee.

Questo piccolo grande film, che ha subito incantato il pubblico del Far East Film Festival, merita di essere amato e sostenuto perché sa fare qualcosa che accade sempre più raramente, e che a livello produttivo è sempre più difficile realizzare: sovvertire completamente le aspettative del suo pubblico e, superata questa piccola e necessaria delusione, portarlo verso nuovi orizzonti e nuovi viaggi cinematografici.

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Shinichiro Ueda Takayuki Hamatsu Yuzuki Akiyama 97 minuti
Giappone 2017
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Louisiana (The Other Side)

di Paolo Di Marcelli
Louisiana di Roberto Minervini

Conclusa la trilogia texana, Roberto Minervini si sposta in Louisiana su consiglio di uno dei protagonisti di Stop the Pounding Heart (2013), che gli indica un parente, la sua famiglia e la comunità in cui sono inseriti come possibile oggetto di un’eventuale e nuova indagine filmica.

Stavolta l’approccio è più descrittivo che narrativo, teso a documentare l’eterno ritorno delle abitudini dei personaggi piuttosto che una possibile evoluzione o un cambio di prospettiva. Ci troviamo nella pancia dell’America, quella determinante per il voto ma assai poco raccontata, in una zona che conta il 60% di disoccupazione, dunque dove la macchina da presa non può che riaccendersi sugli ultimi e sugli emarginati.

L’umanità poverissima della prima parte del film, diviso in due blocchi distinti e apparentemente scollegati, è quella di Mark e la sua cerchia di affetti e conoscenze che comprende tutte le generazioni possibili, dall’infanzia alla senilità. Si vive alla giornata, alcol, droghe e strip club sono all’ordine del giorno, l’uomo ha una compagna, Lisa, e Minervini ci porta dentro gli spazi aperti e chiusi delle loro esistenze, il Natale in famiglia passato davanti alla loro roulotte (si gela ma è l’unico luogo possibile per una tavolata più o meno imbandita), i barbecue, i lavori saltuari, le case dei parenti. The other side, questo il titolo originale dell’opera approdata a Cannes nel 2015 nella sezione “Un Certain Regard” documenta senza censura e giudizi l’altro lato dell’amore e della rabbia. Tutto, nelle vite precarie di Mark e soci, è in completo disfacimento, si tira a campare grazie ai proventi dello spaccio ma la sensazione che si ha, osservando in un silenzio ammutolito e quasi sacrale la sventura dei personaggi, è quella del legame profondissimo sia tra i due innamorati sia tra il protagonista e i suoi parenti, che egli aiuta come può e con qualsiasi mezzo. Il regista torna allora a raccontare la famiglia come unico appiglio cui aggrapparsi mentre fuori il mondo è, se non in fiamme, almeno dissolto irrimediabilmente. In un simile scenario, dove il contatto fisico, gli abbracci, l’importanza dei corpi e della carne prevalgono come un piacevole analgesico insieme alle metanfetamine, Mark spicca per la sua tenacia, per la volontà di resistere nonostante tutto e lo fa, oltre che da vero e proprio eroe tragico, da attore consumato: forse è per questo che Minervini seleziona tra le tantissime ore di girato le sequenze che più di tutte fanno sembrare Louisiana un film di finzione, con proposte di matrimonio, scene di sesso, lacrime e gesti e parole tanto cinematografiche quanto davvero difficili da digerire. Sono proprio queste ultime ad essere, spesso, cariche di rabbia verso Obama e più in generale contro un governo che ha dimenticato una periferia così lontana da essere ignorata. In questo senso, come ha ammesso il regista, in corso d’opera il documentario è diventato soprattutto politico, dando spazio al risentimento diffuso e sofferto di chi si è trovato tradito dalle promesse del sogno americano.

E la rabbia diffusa è anche il fil rouge che lega la prima alla seconda parte, talmente corta da sembrare un’appendice e che infatti è stata improvvisata sulla via del ritorno in Texas. Un gruppo di paramilitari, alcuni ex-soldati dell’esercito, si incontra periodicamente nei boschi per esercitarsi alla guerriglia contro una fantomatica legge marziale che il governo o l’Onu starebbero per imporre, un’invasione disconosciuta che metterebbe in pericolo le loro famiglie. Confusione ideologica, violenza, aggressività, cameratismo becero (il raduno sulle rive di un lago con birra a fiumi, gara per la miglior maglietta bagnata e fellatio con la maschera di Obama sembrano messe in scena da Harmony Korine) sono ripresi ancora con la stessa giusta distanza e la totale assenza di intervento, dopo aver conquistato anche in questo caso la massima fiducia dei soggetti ripresi, insinuandosi nuovamente tra loro, fissandone la commozione, i primi piani, la fratellanza e la tensione sospesa, tra proteggere e distruggere. Se nella prima parte si inveiva contro le istituzioni per aver perso la libertà di vivere dignitosamente, qui si rivendica la libertà di fare ciò che si vuole, a partire da quella di possedere un’arma.

Louisiana è così un dittico sulla miseria (economica, sociale, culturale) e sulle sue conseguenze, disseminato qua e là da squarci che qualsiasi altro regista avrebbe preferito celare e che invece Minervini e sua moglie, aiutati dal contributo fondamentale di Marie-Hélène Dozo, montatrice storica dei fratelli Dardenne, scelgono di mostrare e connettere in un discorso potente, viscerale, urgente e necessario. Chissà se è stata proprio la Dozo a scegliere come incipit una delle tante esercitazioni a caccia del nemico invisibile nella foresta (quindi, di fatto, un’anticipazione della breve seconda parte) e a intuire che l’esordio perfetto di Mark, fosse, subito dopo, presentarlo ancora addormentato sull’erba, nudo e indifeso come una preda.

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Roberto Minervini 92 minuti
Italia, Francia
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Halloween – The Beginning

di Mattia Caruso
Halloween-The-Beginning recensione film rob zombie

Erano bastati solo pochi minuti, a John Carpenter, per raccontarci le origini del Male, togliere per un istante la maschera al piccolo Michael Myers e allontanarsi dalla scena del crimine, lasciandolo per quindici anni solo con il suo mistero. Pare partire da qui, da quella breve (e memorabile) sequenza iniziale, Rob Zombie per il suo Halloween – The Beginning, prendendo proprio quegli ultimi fotogrammi ma dilatandoli all'inverosimile, in un viaggio a ritroso alla ricerca della scintilla dietro a quello sguardo innocente e omicida. Sta tutto in questa differenza di prospettive, d'altronde, il principale scarto tra l'Halloween originale e il suo dignitosissimo successore, il senso di un'operazione che non vuole riscriverne il mito ma, piuttosto, guardarlo da un'altra angolazione.

Dopo aver portato alla saturazione un intero immaginario fatto di killer redivivi e schemi ripetuti all'inverosimile, la saga dedicata a “The Shape” opta così per una nuova rinascita, prendendo a modello il canone rappresentato dai primi due film e costruendovi attorno un remake/reboot che è anche un prequel, la cronaca delle origini di un Male redivivo e finalmente ben visibile. Perché è proprio nella quotidianità famigliare e nell'infanzia di Michael che si immerge, senza paura di sporcarsi, lo sguardo cinefilo di Rob Zombie, cercando in quel filmino di famiglia tipicamente white trash le ragioni e le cause che hanno portato alla nascita del serial killer più iconico della storia del cinema.

Il risultato è un'opera brutale e suggestiva, marcatamente divisa in due tempi, tra un passato restituito con stile rabbioso e vibrante e un presente dal ritmo implacabile, dove il regista ci introduce nell'alienazione progressiva di Michael, nei suoi silenzi ostinati, nella sua fredda determinazione omicida, fino a illuminare di una nuova luce persino il successivo (e risaputo) corso degli eventi.

È qui, nei sobborghi di Haddonfield, che diventa infatti chiaro come sia ormai lontano l'Halloween carpenteriano, una distanza evidente tanto per la messa in scena di un orrore sempre più sanguinario e viscerale quanto per un punto di vista capace di ribaltare e ridistribuire temi e ruoli. Ecco allora che Michael cessa di essere l'antagonista impenetrabile, onnisciente e vagamente soprannaturale dei capitoli precedenti per diventare, a tutti gli effetti – grazie a quegli antefatti che gli hanno donato un briciolo di umanità – l'ennesimo esemplare del  circo di freaks del regista di The Devil's Rejects, il pezzo forte di una poetica sanguinaria capace di provare una disturbante empatia persino per il più terribile dei suoi emarginati.

E se nel film originale era Laurie il perno tematico della vicenda, con quella sessualità repressa e quel moralismo castrante di cui l'Ombra della Strega era, in definitiva, la più concreta e terribile proiezione, il nuovo Halloween, pur non disdegnando la consueta mattanza di adolescenti, decide di eleggere proprio Michael a protagonista assoluto, tentando di scrutarne finalmente il volto (e lo sguardo) nascosto dietro alla maschera. Eppure, benché sempre in campo, il suo è uno sguardo che resta impenetrabile, un pozzo oscuro fatto di un'assenza di calore e di umanità che niente e nessuno può capire o salvare, né il Dottor Loomis (Malcolm McDowell) che rinuncerà a curarlo, scatenando quella tempesta perfetta nella notte di Ognissanti, né il regista stesso, costretto a mostrarci, una volta esaurite le parole, l'avanzare implacabile di quel Male assoluto che rifiuta ogni catalogazione.

Senza tradire l'immaginario delle origini ma sovrapponendovi il proprio, in un equilibrio che – tra citazioni (da L'isola degli zombies a Non aprite quella porta) e suggestive trovate espressive – ha del prodigioso, Zombie crea così il miglior remake che si potesse immaginare, il trionfo di un orrore costruito con occhio sapiente e originale, in grado di confermare il talento di un regista giunto con questo film alla sua definitiva prova di maturità.

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Rob Zombie Malcolm McDowell Sheri Moon Zombie Tyler Mane Scout Taylor-Compton Brad Dourif Danielle Harris William Forsythe 110 minuti
USA 2007
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Forever

di Irene De Togni
Forever - recensione serie Amazon Prime

All’interno della vastissima offerta televisiva degli ultimi anni, si sta via via diffondendo l’idea che sia la comedy, e non più il drama, il genere che più si sta cimentando in un lavoro di innovazione, di sperimentazione, di (auto)riflessione, mostrandosi in generale più attento al mezzo televisivo con cui opera. Eccezion fatta per alcuni prodotti dal notevole impianto sperimentale come Twin Peaks, The Affair, Better Call Saul o The Leftovers, il genere drammatico, ed in particolar modo i prodotti che rientrano sotto la denominazione di Prestige TV, danno prova di una comune difficoltà (reticenza?) ad allontanarsi da un tipo di linguaggio e/o di formato più cinematografico, o da temi  e toni largamente consolidati, e risultano per questo più statici dal punto di vista dell’innovazione del mezzo televisivo. L’universo delle comedy si sta rivelando, al contrario, un brulicante incubatore di generi (Vulture ha dedicato più di un articolo a quella che viene ormai definita la Post Comedy) e di narrazioni innovative, molto più consapevole e interessato al mezzo espressivo di cui fa uso e molto più connesso con l’attualità e interconnesso con gli altri attori operanti nello stesso ambiente. Forever, la serie distribuita su Amazon Prime Video questo settembre, ne è un esempio perfetto.

Collage di riferimenti al panorama televisivo contemporaneo, la scrittura di Matt Hubbard e Alan Yang (ricco di tutta l’esperienza fatta con Master of None e Parks and Recreation) non ha nessuna paura di citare le sue fonti di ispirazione e, anzi, sembra trattare The Good Place quasi come se fosse un genere già formato.
Con la stessa spensieratezza e libertà narrative della serie di Michael Schur, Forever si diverte a disseminare in ogni episodio colpi di scena che sembrano far crollare completamente le fondamenta del racconto – non a caso ci sono state molte precauzioni intorno alla divulgazione della trama, e un generale atteggiamento di segretezza che è stato bene o male giustificato dal momento che i colpi di scena sono davvero tanti e tutti godibili. Insieme al cliffhanger, Forever dimostra una dimestichezza e una consapevolezza tali della struttura episodica da sfruttarne astutamente i momenti di transizione per cambiare genere praticamente ad ogni episodio: abbiamo allora una rom-com che potrebbe quasi dirsi un proseguo di Love nel primo episodio, dove veniamo introdotti ai problemi di una coppia consolidata; nel secondo siamo nel terreno della cosiddetta traumedy, con una protagonista alle prese con l’elaborazione del lutto e con la ricostruzione di un’identità propria e personale dopo aver condiviso per così tanto tempo la vita con il consorte; il terzo episodio svela la natura esistenziale dello show, che assume la forma della fiction speculativa per portare i protagonisti in uno spazio post mortem laico e tragicomico. Da qui la serie torna quindi a mescolare i toni romantici e quelli esistenzialisti finendo per proporre un’interessante riflessione combinata fra significato della vita e significato dell’amore andando ad indagare l’amore dell’“happily ever after”, della promessa di continuità che è in fondo quella del matrimonio, l’amore del per sempre, appunto.

Attento alla tendenza della comedy contemporanea a decostruirsi e a mettere in scena una minuziosa decomposizione del proprio funzionamento e dei propri concetti madre, Forever esplora, da un lato, il calore della dipendenza, la gratificazione dell’abitudine data dalla salita sisifea che è la conoscenza profonda del proprio partner, e, dall’altro, ci (di)mostra come la stabilità di coppia debba essere perseguita in modo dinamico ed evolutivo e come basti un niente per trovarsi ad imboccare sentieri diversi o a far crescere il divario anche nella più profonda intimità. C’è poi la piccola grande gemma dell’episodio standalone, André and Sarah, (espediente narrativo molto caro, peraltro, anche a Master of None), che funge perfettamente da contrapposto alla storia raccontata mostrando non più pro e contro della stabilità ma l’intermittenza con le sue gioie e i suoi dolori.

La forza della scrittura di Yang e Hubbard risiede probabilmente nel rifiutare di inserirsi in un tracciato definito che adatti il contenuto alla forma, ponendosi invece come un racconto che tratta la forma come se fosse contenuto e alterna diversi generi narrativi a seconda del momento dell’evoluzione della coppia che vuole raccontare.

Forever è, effettivamente, una storia piuttosto noiosa raccontata nel modo più avvincente. Al netto di tutto questo verrebbe forse da chiedersi, però, se la serie abbia effettivamente intenzione di spingersi oltre al gioco formale e metanarrativo che fanno sì che parlare di Forever diventi quasi automaticamente un parlare dell’evoluzione di un genere televisivo. Non essendo corretto, oggi, sostenere che la comedy non sia in grado di trattare con profondità e rigore temi importanti come il lutto, la morte o l’esistenza, sembra, a tratti, che alcuni dei momenti salienti della storia di June e Oscar (si parla soprattutto dei passaggi iniziali) non siano affrontati con la vera intenzione di darne una trattazione soddisfacente ma che vengano leggermente subordinati allo schema di cliffhanger e cambio di situazione, per amor di dinamicità in un genere in cui dinamicità (The Good Place docet) non è per forza sinonimo di fretta o superficialità.

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Maya Rudolph Fred Armisen Catherine Keener Peter Weller Obba Babatundé 1 stagione da 8 episodi
USA 2018
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Halloween - La resurrezione

di Gian Giacomo Petrone
Halloween - La resurrezione - recensione film Rosenthal

Con l’affacciarsi del nuovo millennio, la saga di Michael Myers continua a non conoscere ostacoli e nel 2002 vede la luce Halloween – La resurrezione, settimo tassello dell’intero complesso e quarto di quella sorta di sotto-filone narrativo costituito dai primi due episodi e da Halloween H20 – 20 anni dopo, escludendo ovviamente dal computo globale Halloween III – Il signore della notte, totalmente avulso sul versante della continuità del racconto, soprattutto in quanto privo di riferimenti alla figura di Myers.

Rick Rosenthal torna ad occuparsi di “The Shape” dopo aver già diretto l’interessante secondo capitolo più di vent’anni prima, e assieme ai suoi sodali, gli sceneggiatori  Larry Brand e Sean Hood, tenta di rivitalizzare le gesta dell’immortale killer strizzando l’occhio alle nuove tecnologie (Internet) e agli emergenti format multimediali (Grande Fratello), con l’incombere ulteriore dell’influenza del fondamentale The Blair Witch Project, uscito appena tre anni prima. Le vittime designate, sei ragazzi e un giovane operatore, dovranno stavolta immergersi nell’avita magione dei Myers alla ricerca di indizi sull’invulnerabile assassino, venendo dotati di micro-videocamere personali, mentre altri dispositivi visuali, opportunamente installati in punti strategici dell’abitazione, seguiranno gli eventi in modalità “nobody’s shot”. Il tutto potrà essere seguito in diretta sul Web, intanto che, simultaneamente, dietro le quinte agiranno i due ideatori del programma (Busta Rhymes e Tyra Banks), che escogiteranno vari stratagemmi per spettacolarizzare l’evolversi degli eventi.

L’idea di un reality show mortale, con protagonista indiscusso il babau creato da John Carpenter e Debra Hill, non sarebbe stata in fondo così peregrina e nondimeno il lavoro di Rosenthal, tutt’altro che disprezzabile dal punto di vista strettamente tecnico e visuale, stenta a trovare la giusta calibratura narrativa, disperde tutto il potenziale di elaborazione linguistica e meta-testuale, finendo col risultare senz’anima e discontinuo. A eccezione di una prima parte promettente, che ripropone l’ennesimo e fratricida duello fra Laurie Strode (ancora una volta Jamie Lee Curtis, mai doma e sempre convincente) e The Shape all’interno di un ospedale psichiatrico, con una messa in scena sostanzialmente tradizionale ed efficace nella sua semplicità, il film tenta, con risultati perlopiù sconfortanti, la strada del crossover fra cinema, nuove tecnologie e linguaggi multimediali.
Ciò che avrebbe potuto configurarsi come motivo di articolazione tecnica, espressiva e, perché no, teorico-riflessiva finisce invece con l’appiattirsi su un approccio esclusivamente esteriore al nuovo, ripiegando poi banalmente sulla consueta mattanza di vittime malcapitate e ottusamente poco reattive, e riproponendo i più consunti cliché dello slasher senza alcuna capacità di trascenderli. L’esatto contrario di ciò che è stato in grado di fare Wes Craven con Nightmare – Nuovo incubo e con l’intera saga di Scream. Infatti, un conto è lavorare sul principio che fonda l’uso di una tecnologia e del linguaggio che le è connesso, un altro è fossilizzarsi sugli aspetti accidentali che accompagnano i fini e le modalità di tale uso, specie se confinati in un presente circoscritto e, pertanto, facilmente superabile da un progresso tecnico sempre più rapido e votato alla repentina obsolescenza dei dispositivi creati. Nel primo caso potranno emergere la dimensione universale e quella politico-filosofica del rapporto uomo-mondo mediato dalla tecnica, nel secondo affioreranno esclusivamente gli elementi residuali e sovrastrutturali di tale rapporto e di tale mediazione, in una cristallizzazione irredimibile sull’hic et nunc, prodromo inevitabile all’invecchiamento precoce di qualsivoglia discorso, filmico e non.
                                                           

D’altro canto, se Halloween – La resurrezione risulta assai povero dal punto di vista meramente teorico, esso non riesce a raggiungere risultati soddisfacenti neppure sul versante più prettamente ludico: i personaggi sono perlopiù privi di spessore e quando rivelano delle sfaccettature vagamente più articolate – come nel caso dell’istrionico ideatore del programma, interpretato con efficace (auto)ironia dal rapper Busta Rhymes, che sembra però appena uscito da un film dei fratelli Wayans (i primi due Scary Movie vengono realizzati una manciata di mesi prima del film di Rosenthal) – tendono comunque alla macchietta, alla farsa, all’alleggerimento fuori luogo e fuori ritmo di un film che dovrebbe (anche) fare paura. Mike Myers, dal canto suo, è divenuto ormai la caricatura – si potrebbe dire l’ombra – di se stesso, quasi che la propria indistruttibilità ne facesse lo zimbello delle sue stesse vittime, che paiono irriderlo della sua ottusa meccanicità. L’insieme appare, in definitiva, goffamente concepito e amalgamato, sovente fuori asse e disarmonico, oltre che troppo oscillante fra il serio, il parodico e, talvolta, il ridicolo involontario. Ci vorrà un ripensamento della saga dalle fondamenta, come quello messo in atto da Rob Zombie, perché The Shape possa riappropriarsi, come merita, della forza originaria del Mito.

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Rick Rosenthal Jamie Lee Curtis Busta Rhymes Tyra Banks 86 minuti
USA 2002
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Nightmare Detective

di Matteo Berardini
Nightmare Detective - Recensione film tsukamoto

Giocando con le parole di Enrico Ghezzi, potremmo definire Nightmare Detective come una videocosa che uccide. Del resto il nono film di Shin'ya Tsukamoto nasce da uno sguardo che non appartiene al qui e ora del dato materiale e si svela da subito come una manifestazione dell’oltre, dell’abisso interiore, un’incarnazione di odio assoluto che vive nel dolore trasformandolo in furia cieca e nichilista.
Spesso nel cinema di Tsukamoto una determinata inquadratura diventa la cartina tornasole di una precisa visione del mondo, e questo vale soprattutto per certe soluzioni in soggettiva, improvvisi movimenti di macchina che restituiscono lo sguardo di un corpo squassato dall’infezione tecnologica, lanciato in una corsa frenetica. Non stupisce che Nightmare Detective sia quindi un progetto pensato da Tsukamoto alle origini del suo cinema, già ai tempi di Tetsuo, quando sono ancora freschissimi i fotogrammi elettrici del corpo mutato de Le avventure del ragazzo del palo elettrico, quelle soggettive sfrenate che divorano lo spazio sotto di loro e che diverranno uno dei marchi di fabbrica del regista giapponese.

Nightmare Detective, nel racconto della sua dimensione onirica e degli aspiranti suicidi che la popolano, costruisce il suo impianto visivo attorno alle soggettive ricorrenti di un impulso di morte, una videocosa appunto che (in un sublime lavoro di fuoricampo) assume forma confusa e cancerosa, sanguigna e metallica, come una metastasi impazzita e affilata che schizza nei corridoi dell’inconscio in cerca del filo ultimo da tagliare.
Quella incarnata da Zero, il killer della mente che fa da doppio al detective del titolo, è una volontà di morte che infetta e distrugge, una coscienza scissa dal suo corpo e segnata da un trauma infantile. Si opporrà a lui Kagenuma, un giovane depresso in grado di entrare negli incubi delle persone per scioglierne i nodi traumatici, anch’egli ferito da esperienze passate vissute nei primi anni di vita. È nel rapporto tra i due, gemellari e opposti come sempre sono le dualità alla base di questo cinema, che si finalizza il film più narrativo di Tsukamoto, un thriller/horror che prende di petto uno dei temi critici della società giapponese (il suicidio) declinandolo verso quella decostruzione del j-horror già ampiamente sondata da Kiyoshi Kurosawa.

In un’intervista allegata all’edizione italiana del dvd, Tsukamoto definisce Nightmare Detective come un’opera di passaggio, l’inizio di una serie investigativa dalle atmosfere oniriche nata sulla scia di Twin Peaks e pensata per fare da ponte tra due diversi momenti del suo percorso cinematografico. In particolare doveva essere il film che chiudeva con il rapporto tra l’uomo e la metropoli, prospettiva dalla quale Tsukamoto è sempre partito per mettere in scena l’alienazione dell’essere umano e il suo legame mortifero con la tecnologia. E in effetti quest’ossessione sembra raggiungere il suo apice proprio nel momento rappresentato da Nightmare Detective e da Haze (il mediometraggio che precede il film e che per molti versi ne prepara il terreno), un dittico in cui la riflessione sulla vita umana metropolitana e tardocapitalista esplode nel nuovo orizzonte di un’interiorità metafisica – la stessa che già dominava il precedente Vital, virato però nel melodramma dall’importanza dell’amore e dell’elaborazione del lutto. Qui l’immersione nell’inconscio cambia di segno, non siamo più negli spazi della memoria ma nel labirinto del trauma, vittime sotto attacco del nostro stesso senso di inadeguatezza e della nostra sofferenza. Interpretato non a caso dal regista stesso, Zero è una forza primordiale tra le più potenti messe in scena da Tsukamoto, un’emersione del sommerso a cui non potrà che seguire il cuore a cielo aperto di Kotoko e il suo oceano di dolore, trasceso soltanto da una danza catartica. Oltre queste sponde Tsukamoto, sempre mutante, sempre irrequieto, tornerà alla via del film di costume ma in direzioni ben lontane da Gemini, portando la lezione digitale appresa in Haze e Nightmare Detective a contatto diretto con il cinema di genere, bellico e chambara, nuova escursione nella violenza ma lontana, per ora, dall’orizzonte urbano. La città, sembra, è rimasta ancorata nell’incubo del Nightmare Detective.

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Shin'ya Tsukamoto Ryuhei Matsuda Masanobu Ando Shin'ya Tsukamoto 106 minuti
Giappone
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L'uomo che uccise Don Chisciotte

di Matteo Berardini
L'uomo che uccise Don Chisciotte - recensione film Gilliam

Traballanti, goffi, letteralmente gargantueschi. Tra i pochi frammenti esistenti dell’originale L’uomo che uccise Don Chisciotte ci sono proprio loro, i celebri giganti, raccontati in Lost in Mancha come tracce di ciò che sarebbe stato il film di Terry Gilliam nella sua versione del 2000. E di quei giganti, nel documentario di Keith Fulton e Louis Pepe, resta soprattutto l’entusiasmo di Gilliam, l’emozione infantile e ancora, nonostante tutto, innocente del fare il cinema come si fa una casa dei giochi. Fa un certo effetto quindi iniziare questo Don Chisciotte e scoprire nelle sue prime immagini che quegli stessi giganti, riadattati ma visivamente identici, sono diventati oggi gli elementi di un set pubblicitario, gli ingranaggi di un progetto commerciale (mal) diretto dal regista in crisi Toby Grisoni (Adam Driver). Lo stesso Don Chisciotte è ora un soggetto da spot, una figurina appiattita in un mondo dello spettacolo che appare presto soffocante e privo di umanità.

Fin dalle sue prime battute, L’uomo che uccise Don Chisciotte svela una tristezza nello sguardo difficile da ignorare, come un film che in qualche modo non può che parlare di sé stesso e dei suoi lunghi fallimenti, della sua storia di tentativi e sconfitte che si chiudono oggi, quasi a trent’anni di distanza, con un lieto fine che porta comunque su di sé i segni di una vita travagliata. Questo Don Chisciotte è di certo un film di Gilliam – e la parte centrale del racconto, così caotica e splendida nel mescolare adattamento, finzione, illusione, lo grida a piena voce – ma è anche un film amareggiato, ferito, che abbandona la dimensione più giocosa e anarchica dell’adattamento a là Gilliam, per raccontare soprattutto il sogno del cinema e i danni che quest’infatuazione può infliggere a chi il cinema lo fa e se ne innamora lasciandosi irretire, per poi dover comunque tornare a confrontarsi, brutalmente, con il dato reale. Questa malinconia (che data la storia del film forse mal nasconde un senso di colpa autobiografico dello stesso Gilliam) traspare dall’evoluzione del personaggio di Toby, non più novello “americano alla corte di Don Chisciotte” come doveva essere nella sua prima versione (ispirata appunto al romanzo di Mark Twain), ma saccente ed egocentrico pubblicitario che ha iniziato il suo percorso con un film dedicato proprio alla creatura di Cervantes, in un tempo in cui il cinema era ancora un gesto magico intriso di innocenza e illusioni.

Con un gioco tra passato e presente, Gilliam ci riporta ai giorni di quell’esordio, recuperati come un’età dell’oro la cui controparte di oggi è però un incubo di disillusione, abitato da una giovane comparsa che ha fallito nel divenire una stella e si è trovata ad essere una escort, e il protagonista invecchiato nella pazzia e convinto di essere, a tutti gli effetti, il Don Chisciotte de la Mancha. E di queste vite distorte il colpevole è proprio Toby, il cui fare cinema diventa un gesto condiviso con amici e sconosciuti ma poi sottratto a fine riprese, con un’incuranza totale per gli effetti che quell’esperienza ha avuto nei percorsi delle persone che si sono lasciate coinvolgere dalla sua passione. Così l’equilibrio cercato da Cervantes tra incoscienza e senso del reale si deforma sotto una lente che svela i lati oscuri dell’ossessione, le conseguenze più nascoste che non danneggiano il sognatore ma chi gli sta intorno.

Per questi motivi L’uomo che uccise Don Chisciotte ci appare molto importante nella carriera di Terry Gilliam, abituato da sempre a trattare temi come la sanità mentale e la tensione opprimente nel rapporto tra individuo e società, ma qui alle prese anzitutto con sé stesso, le sue scelte personali e l’impatto che queste hanno sulle persone che lo circondano. Una riflessione che si intreccia al classico tema di Cervantes sul legame necessario tra sogno e senso del reale, in un dialogo originale, complesso e probabilmente doloroso con la materia prima offerta da quel romanzo straordinario.

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Terry Gilliam Adam Driver Jonathan Pryce Stellan Skarsgård Olga Kurylenko 132 minuti
Gran Bretagna, Spagna 2018
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Sorry For Your Loss

di Eugenia Fattori
Sorry For Your Loss - recensione serie tv facebook

L'immagine promozionale di Sorry For Your Loss, un primissimo piano di Elizabeth Olsen che guarda dritta nell'obiettivo, è una duplice dichiarazione d’intenti per la prima serie televisiva sviluppata da Facebook e trasmessa sulla nuova piattaforma Facebook Watch.

In primo luogo dichiara la centralità della propria protagonista, la giovane vedova Leigh, all'interno della narrazione: nonostante il racconto ampli con il tempo il proprio punto di vista a tutti i membri della famiglia, è il percorso di Leigh a fare da perno all'evoluzione della storia. Gli stadi dell'elaborazione del suo lutto sono il motore narrativo principale della serie ideata da Kit Steinkellner, che accompagna la sua protagonista dalla negazione attraverso l'elaborazione fino all'accettazione della morte del marito Matt, raccontandone nel frattempo anche un cambiamento molto più individuale; la volontà di indagare un punto di vista così peculiare sul lutto impone infatti alla serie la necessità di approfondire Leigh anche al di fuori del vincolo e dei sentimenti matrimoniali, caricandola di nuance e sfaccettature che vanno ben oltre il dolore e lo spaesamento che pur dominano la sua condizione.
Non a caso la conosciamo a lutto già avvenuto, mentre cerca faticosamente di evitare di ridurre la propria esistenza a quell'evento traumatico di tre mesi prima – e da quel momento la serie e lo spettatore seguono passo dopo passo il doloroso confrontarsi di Leigh con l'obbligo di affrontare la realtà (decidendosi a tornare nella casa che divideva con Matt) e con l'impossibilità di categorizzare un'esperienza così enorme come la perdita di una persona cara (nei momenti in cui si confronta con il lutto altrui attraverso una giovane vedova che cerca la sua amicizia). Soprattutto però Leigh deve confrontarsi con la situazione di solitudine connaturata alla vedovanza: per quanto affetto si possa ricevere da famiglia e amici, ci sarà sempre un momento in cui la loro vita ricomincerà ad andare avanti, lasciando chi ha subito la perdita alla necessità di affrontare da soli il proprio futuro, prigionieri di un dolore impossibile da condividere con chiunque.

La seconda presa di posizione di Sorry For Your Loss è legata al viso di Elizabeth Olsen e in particolare a una precisa una scelta stilistica, che non soltanto si concentra sulla ricerca di una naturalezza che si rifà allo stile del cinema indie (con una splendida fotografia in toni di grigio che vela il sole di Los Angeles di una perenne foschia emotiva), ma che fa del corpo della protagonista un veicolo espressivo primario delle emozioni proprie e altrui.
Attraverso il suo volto,l'attrice offre una prova eccellente e ricchissima di sfumature, ma è attraverso il proprio corpo, e in particolare l'abbigliamento, che riesce a raccontare ancora di più: i vestiti di Leigh segnano le fasi differenti del suo lutto, partendo dalla scelta di indossare costantemente abiti “lavorativi” (in questo caso sportivi, dato che insegna nella palestra della madre) fino ad arrivare all'abito assurdamente inadeguato della propria festa di compleanno, indossato come una maschera di felicità che carica l'imbarazzo del momento di un ulteriore disagio. In ultimo c'è la scelta di partire per una vacanza a Palm Springs – prenotata con Matt e mai disdetta – senza costume da bagno e soltanto con maglietta e pantaloni neri, sostituiti da un vestito lungo che è ancora un'altra maschera, indossata insieme a una biografia inventata che le permette di uscire da sé per una notte, riprendendosi la propria sessualità in senso sia fisico che emotivo.
Agli occhi di sé stessa e degli altri, la fisicità di Leigh diventa così uno specchio (a volte fedele, a volte ingannevole) di un'interiorità che la donna nasconde dietro un velo di cocciutaggine nel vivere il proprio lutto senza rifarsi a nessun modello o luogo comune, spesso dimenticandosi delle conseguenze che il suo dolore e la sua rabbia, in assenza di filtri, hanno sulle persone che la circondano.
L'assenza di pudore nella sofferenza la porta quindi a scontrarsi col fratello e la madre di Matt, con la propria madre, con la sorella e con il suo migliore amico, spesso colpevoli di nulla se non di volere (e poter) vivere le proprie vite e portare avanti il proprio lutto privato attraverso modalità che mettono Leigh di fronte alla propria, inevitabile inadeguatezza al cospetto di un evento del genere.

A Sorry For Your Loss non interessa soltanto l'elaborazione del lutto o il percorso personale di Leigh, ma anche raccontare i fragili equilibri dei sentimenti di coppia e l'impossibilità di conoscere davvero le ragioni e l'interiorità dell'altro. Per farlo la serie inserisce il punto di vista di Matt all'interno della narrazione con un episodio interamente dedicato alla storia della sua depressione, che offre una rilettura a contrasto e al tempo stesso a completamento dei ricordi di Leigh. La condizione del non sapere, che tormenta la donna dal momento della morte di Matt ma che lo spettatore arriva a conoscere solo gradualmente, finisce per offrire ulteriori dettagli al suo percorso, che diventa così non soltanto un superamento del trauma ma una ricerca di completezza e verità che si riveleranno impossibili da ottenere fino in fondo. Leigh si troverà di fronte al fatto innegabile che esiste una versione di suo marito differente per ogni persona che l'ha conosciuto e amato, e di fronte all'obbligo di accettare di aver conosciuto soltanto una di queste versioni. Inaspettatamente però sarà anche la necessità di accettare la propria non assoluta centralità nella vita del marito a darle la capacità di mettere in discussione la centralità del proprio stesso dolore e a gettare le basi per la nascita di una diversa versione di sé.

Accompagnata ad ogni passo dall'interpretazione intensa di Olsen, episodio dopo episodio Leigh si rivela protagonista costantemente imperfetta e inadeguata come chiunque può essere di fronte a un trauma di queste proporzioni, offrendo un ritratto sincero e originale del dolore: della sua inevitabilità, della necessità di affrontarlo ma anche di cedere ad esso senza pudore.

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Elizabeth Olsen Kelly Marie Tran Jovan Adepo 1 stagione da 10 episodi
USA 2018
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