The Purge

di Mattia Caruso
The Purge - recensione serie tv amazon demonaco

Non può essere immorale se è legale, giusto? Pare quasi un mantra quello che riecheggia lungo i dieci episodi che compongono The Purge, nuova serie Amazon creata da James DeMonaco e parte integrante della saga de La notte del giudizio.
Un interrogativo legittimo, soprattutto in tempi in cui l'etica diventa una questione smaccatamente politica, confermando il valore di un universo distopico rimasto, a distanza di cinque anni, il modo più diretto e immediato per parlare del presente.

Era inevitabile, allora, dopo quattro film (dal capostipite La notte del giudizio fino al prequel, La prima notte del giudizio, uscito appena qualche mese fa), dopo aver esplorato ogni genere e situazione possibile, che questo contenitore di spunti e riflessioni si rivolgesse alla serialità televisiva, cercando di sviluppare al meglio tutte le implicazioni di quell'idea forte e immutabile che ne stava alla base: cosa accadrebbe se, per un giorno all'anno, qualsiasi crimine fosse consentito? Un'idea capace di creare un universo inesauribile di possibilità e che, dopo aver generato sequel, prequel e parodie (la trascurabilissima commedia Meet the Blacks), scopriva (almeno apparentemente) nei modi e nei tempi di una serie la sua più congeniale realizzazione.
È qui, infatti, in una rigenerazione pressoché infinita di storie e situazioni, che a DeMonaco pare di trovare terreno fertile per il suo mondo in espansione, il contenitore perfetto per mettere in scena, ancora una volta, tipi e storie capaci di farsi specchio (sfacciato) di un'intera società.

Eppure, nel passaggio dal grande al piccolo schermo, qualcosa di importante sembra perdersi lungo la strada, qualcosa capace di intaccare la stessa caratterizzazione e le stesse motivazioni di quei personaggi in lotta per la sopravvivenza e che si incontrano e scontrano lungo tutto il corso della vicenda.
Perché se è vero che, moltiplicando i piani narrativi e continuando a esplorare quel mondo alla deriva in ogni suo anfratto e possibile degenerazione (dalle sette pseudo-religiose alle fiere del massacro, passando per i giochi sadici e omicidi dell'alta società), la storia guadagna in complessità di intreccio e varietà di suggestioni, è lo schematismo e la spesso forzata bidimensionalità dei suoi protagonisti a non mutare con il cambio di mezzo, trasformando quell'attitudine che aveva fatto la fortuna della saga cinematografica nel suo più evidente punto debole.
É proprio quel gruppo eterogeneo di personaggi, infatti, tra eroi tutti d'un pezzo (il soldato in cerca della sorella), abusati cliché (la coppia di yuppies in crisi) e figure spiccatamente ricalcate sull'attualità (la donna nera vittima di molestie), a rappresentare le maggiori criticità di una serie come The Purge, un gioco al massacro bloccato nel proprio schematismo, così preso dalla propria brutale immediatezza da trascurare quella caratterizzazione che proprio la confezione episodica avrebbe potuto garantirgli.

Mentre il tempo della visione si sovrappone quasi perfettamente a quello del racconto, in dodici ore fatte di momenti riflessivi e improvvisi picchi di violenza, quell'universo di possibilità infinite, capace di sviluppare dilemmi etici ad ogni livello, dalla guerra di classe alla discriminazione, dalle molestie al femminicidio, fino alla frustrazione dell'uomo medio(cre), finisce così per essere stemperato da un eccesso di schematismo che poteva risultare funzionale per il grande schermo, ma che nel panorama seriale contemporaneo mostra tutta la sua inadeguatezza, annullando ogni possibile parvenza di verosimiglianza.

Quello che rimane è un film d'azione diluito nei tempi della serialità che trova nei suoi riferimenti niente affatto velati alla contemporaneità la sua principale ragione d'essere, seguendo la tradizione di un franchise dove il genere si fa strumento politico (impossibile non vedere nella messa in scena della frustrazione della working class bianca o nell'indifferenza ottusa e ferina dei Nuovi Padri Fondatori un riflesso della presidenza Trump) e il futuro si colora di tinte forse prevedibili, ma sempre e comunque perturbanti.

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Gabriel Chavarria Colin Woodell Lili Simmons Lee Tergesen 1 stagione da 10 episodi
USA 2018
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Robin Hood-L'origine della leggenda

di Matteo Marescalco
Robin Hood-recensione film Bathurst

Dimenticate il romanticismo di Sean Connery e Kevin Costner; dimenticate l'allegra volpe dotata di una furbizia fuori dal comune; dimenticate persino la narrazione delle origini del Robin Hood interpretato da un imbolsito Russell Crowe. L'ultimo adattamento dedicato all'eroe popolare del Regno Unito è rivolto ad un target totalmente differente e la presenza di Taron Egerton e Jamie Dornan tra gli interpreti, e di Otto Bathurst in cabina di regia, la dicono lunga sul pubblico sulla base del quale è modellato Robin Hood - L'origine della leggenda.

Tutto ha inizio all'interno di una stalla. Lady Marian entra da una finestra per rubare un cavallo ma viene scoperta da Robin di Loxley. Lei è truccata pesantemente e ha una scollatura accentuata. Lui è un guerriero tutto d'un pezzo chiamato a servire nella terza crociata in Terra Santa. I due si promettono amore eterno ma, al momento, devono lasciarsi. La location si sposta e mostra Robin insieme ai suoi commilitoni in una città in rovina, nel bel mezzo del fuoco nemico. In questa operazione, si imbatte in un abile arciere da cui riesce a sfuggire per un soffio. Le basi per la futura collaborazione tra Robin e Little John sono state poste. Spedito a casa per diserzione, il ragazzo trova una Loxley in rovina e scopre di essere stato dato per morto da circa due anni. La sua amata Marian vive con un nuovo compagno e lo Sceriffo di Nottingham ha messo alle strette il popolo che è giunto, ormai, sull'orlo della disperazione.

La leggenda che ha alimentato tutta la letteratura e la filmografia sul fuorilegge più famoso di Inghilterra è stata usata come un canovaccio su cui innestare nuove intuizioni narrative e visive. In modo assai simile al trattamento riservato a Lisbeth Salander nel recente adattamento firmato da Fede Alvarez, anche il Robin Hood di Otto Bathurst risente dell'influsso massiccio dei film sui supereroi. Tra esplosioni sullo sfondo, ripetute slow motion e messa in scena decisamente tronfia, il film sembra appartenere più alla saga di Fast and Furious o degli Avengers che ad una leggenda ben radicata nell'immaginario popolare. È questa forzata attualizzazione a-storica che non convince e lascia lo spettatore disorientato. L'estetica steampunk e gli effetti ottici in stile Matrix cozzano fortemente con un materiale che, viste le sue origini, avrebbe dovuto ricevere un trattamento differente. Privare di “nobiltà” un racconto come quello di Robin Hood per darlo in pasto ad una platea di giovanissimi mangiatori di pop-corn che smanettano con lo smartphone durante la visione non è stata una mossa particolarmente brillante.

In questo ambaradan fumettistico, ad uscire sconfitti sono proprio i personaggi, sviluppati come immobili macchiette vittime di un contesto da videogame che non sembra avere tempo per loro. I cavalli corrono, le carrozze si trasformano in macchine rombanti ed il tempo va alla velocità della luce. Peccato che la conseguenza sia la totale assenza di evoluzione per Robin e soci e la confusione in ogni coreografia di massa. Piuttosto che donare un personaggio alla leggenda, una scelta del genere gli riserva soltanto il baratro dell'oblio.

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Otto Bathurst Taron Egerton Jamie Foxx Jamie Dornan Ben Mendelsohn F. Murray Abraham Eve Hewson 116 minuti
USA 2018
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Animali Fantastici-I Crimini di Grindelwald

di Matteo Marescalco
Animali Fantastici-I Crimini di Grindelwald recensione film Yates

Chewbe, siamo a casa.

È innegabile che, per i nati nel corso degli anni Novanta, la saga creata da J.K. Rowling sia stata l'equivalente letterario dell'impasto filmico nato dalla mente di George Lucas e destinato a cambiare per sempre la storia del cinema americano. Harry Potter è l'anno zero dell'immaginario collettivo contemporaneo. Dal 1997, c'è un prima e un dopo Harry Potter. Ovviamente, non si tratta semplicemente di un fenomeno di marketing ma di una mitologia che, negli anni in corso, sta per raggiungere la maturità. I bambini che circa due decenni fa si accingevano a leggere le avventure di Harry, Ron ed Hermione, e a fare i conti con le proprie paure e con l'importanza dei sentimenti, sono i trentenni di oggi a cui è principalmente rivolta la nuova pentalogia di Animali Fantastici, prequel e spin-off giunto qui al suo secondo episodio.

A tornare in cabina di regia per Animali fantastici - I crimini di Grindelwald è David Yates, in apparenza il meno potteriano e magico dei registi che hanno trasposto al cinema le avventure del maghetto. In quest'episodio di transizione tutto inizia con una fuga: Gellert Grindelwald, il mago oscuro più potente di tutti i tempi prima dell'arrivo di Lord Voldemord, riesce ad evadere di prigione. Il suo obiettivo è quello di radunare seguaci e lanciarsi sulle tracce di Credence, l'Obscuriale protagonista del film precedente. In seguito alla fuga di Grindelwald, Albus Silente chiama a rapporto il giovane Newt Scamander e lo incarica di cercare il ragazzo che avrà un ruolo fondamentale per la sconfitta del mago oscuro.
Con l'incalzare del racconto, la fuga continua. Credence è alla disperata ricerca delle sue origini, Silente scappa da un passato che non sa ancora come affrontare, la dolce e riluttante Queenie abbraccia il lato oscuro. E, sullo sfondo, si muove Johnny Depp, nei panni dell'indefinito ed albino Gellert Grindelwald, la perfetta incarnazione fantastica di un attore che ha commesso il crimine di aver gettato al vento il suo estremo talento.

Abbandonato il clima da Belle Èpoque del primo episodio, Yates torna alle sue più congeniali nuance fumose. La location si sposta dalla tiepida New York, teatro di amori impossibili, alla fredda Parigi, luogo di vicoli bui, nebbia e misteri da svelare. L'elemento più riuscito del film risiede proprio nell'atmosfera che domina questo I Crimini di Grindelwald. La guerra è alle porte e la sensazione di una tragedia imminente che coinvolge il versante personale, civile e mondiale appesantisce ulteriormente un clima già distopico. Persino il ritorno ad una Hogwarts-pre Harry Potter (quindi familiare ma non del tutto) è carico di suggestioni e di tracce che rimandano a un futuro che è ormai passato. Sono decine i riferimenti disseminati lungo l'arco della narrazione che indirizzano alla pietra filosofale e a Nicolas Flamel, alla Fenice di Silente e alla famiglia Black. A rendere quanto mai debole il racconto sono invece le innumerevoli storyline aperte e destinate a non trovare (ancora) una loro conclusione, condannate alla struttura reticolare che, da sempre, si presta a metafora perfetta per tratteggiare le storie di J.K. Rowling. La sensazione è che questo secondo episodio della pentalogia, a saga conclusa, corra il rischio di essere dimenticato, etereo e volatile com'è.

In conclusione, un'idea attanaglia chi scrive. E se il carattere s-formato del film, così indeciso sul genere da abbracciare e popolato da personaggi dilaniati da conflitti, non fosse altro che un segno quasi tangibile della magia di cui tanto si parla? In questo senso, il racconto sarebbe un contenitore perfetto per maghi alle prese con polveri magiche capaci di individuare tracce di movimenti passati e rendere malleabile il tempo, dettando la velocità dell'azione in un cortocircuito di relatività che distingue le esistenze degli essere magici da quelle dei Babbani. È proprio quando mostra e lavora sulla propria assenza di forma che Animali fantastici - I crimini di Grindelwald riesce a raggiungere vette che, nei momenti in cui dispiega tutta la sua verbosità, non riesce nemmeno a sfiorare. In definitiva, una forma/non-forma del genere avrebbe strettamente a che fare con l'arcaico incantesimo visivo che rende percepibile il movimento di realtà bloccate nel tempo, e con una transitorietà che rende palese il proprio intimo segreto. In fin dei conti, sempre di magia si tratta.

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David Yates Eddie Redmayne Johnny Depp Jude Law Ezra Miller Zoe Kravitz Katherine Waterston Dan Fogler 134 minuti
Regno Unito, USA 2018
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Halloween (2018)

di Matteo Berardini
HALLOWEEN - gordon green recensione film

Come reagisce l’essere umano posto a contatto con il Male assoluto? È soprattutto attorno a questa domanda che ruota l’Halloween di David Gordon Green, ritorno alle origini che pone di nuovo al centro del discorso la natura metafisica di Michael Myers. Scansata la lettura iperrealista di Rob Zombie, “The Shape” torna ad essere una macchina omicida priva di umanità, un pozzo di oscurità che non può parlare o comunicare in alcun modo e che avvolge chiunque gli sia intorno suscitando fascinazione, emulazione, curiosità morbosa di sapere cosa si provi a togliere una vita. Al polo opposto dello spettro c’è chi invece non desidera altro che cancellare quella che considera un’entità maligna priva di speranze. Prima che Laurie Strode è già Loomis – deceduto nella cronologia del film ma presente tramite una registrazione vocale – ad augurarsi che Michael possa morire al più presto, mentre la sorella attende anno dopo anno che il fratello scappi dal centro di detenzione, così da poter chiudere i conti in prima persona. Che sia desiderio di scoperta o sete di vendetta, in qualche modo nessuno dei personaggi riesce ad allontanarsi da Michael, nessuno è davvero intenzionato o in grado di superare quanto accaduto 40 anni fa.

Più che un horror, questo Halloween è un’operazione sull’horror, un film che cerca un dialogo e un gioco costante con una tradizione ormai entrata nel mito. Nessuna rilettura approfondita o estensione degli elementi in campo, la sceneggiatura di David Gordon Green, Danny McBride e Jeff Fradley punta piuttosto sul ritorno alle atmosfere originali, come la zucca marcita che durante i titoli di testa ritorna in time-lapse alla sua forma originaria. Senza abbracciare alcun elemento della contemporaneità, stilistico o tecnologico, il film si nutre delle atmosfere horror a cavallo tra i ’70 e gli ‘80, inonda l’inquadratura di luce soffusa e musica in synth (composta per l’occasione da John Carpenter stesso, coinvolto come produttore esecutivo) ma il risultato non sembra davvero un ritorno alla vita, il gioco di Gordon Green e squadra è freddo e meccanico, come lo sono le tante, troppe scene del film che non inquietano o spaventano ma semplicemente mostrano l’horror nel suo farsi, come un saggio distaccato che enumera tecniche e soluzioni di regia senza saperle veramente mettere in campo. La verità è che questo nuovo Halloween manca di un regista che sappia fare horror e la conseguente è un film pressoché privo di suspense, che tratta i suoi personaggi come carne pronta per il macello. Nonostante mostri in abbondanza sangue e menomazioni, Gordon Green non arriva a suscitare disagio, timore, curiosità, non getta lo spettatore nell’orrore messo in scena preferendo uno sguardo dalla distanza, una decostruzione che smonta il genere senza portare con sé alcuna riflessione aggiunta.

L’unica importante eccezione offerta dal film è il lavoro sulla prospettiva femminile, il ribaltamento del concetto di final girl che non si discosta dalla contro-tradizione ma rilancia comunque con forza l’immagine di una preda che diventa cacciatrice.
Le antagoniste di Michael sono tre generazioni di donne Strode, madre, figlia e nipote che assieme imbastiscono l’unica trappola che possa fermare (apparentemente, un sequel è già in preparazione) la furia omicida di Michael. Ma il lavoro su Laurie va oltre questo scambio di ruoli ed entra nella grammatica stessa del film: è suo il corpo che compare fuori dalle vetrate sotto lo sguardo di sfuggita dei personaggi, è suo il volto che spunta all’improvviso da dietro un angolo. Green, qui sapientemente e in modo efficace, cita apertamente il primo capitolo ribaltando di senso l’inquadratura originale. Il corpo di Laurie prende il posto di quello di Michael perché è lei che, spinta dal trauma, si impossessa del film, infestandolo con i suoi incubi e le sue ossessioni, è lei che dà la caccia al mostro e detta le regole dello scontro. Aiutato da una grande Jamie Lee Curtis, Green riesce qui a giocare con una grande intuizione, dando finalmente al personaggio di Laurie lo spazio che merita.

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David Gordon Green Jamie Lee Curtis Judy Greer Will Patton 104 minuti
USA 2018
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Bogside Story

di Paolo Di Marcelli
Bogside Story Pietro Laino Rocco Forte

Non è la prima volta che la Bloody Sunday approda al cinema, sia esso documentario o di finzione. È bene ricordare che il 30 gennaio del 1972, a Derry, piccolo centro dell’Irlanda del Nord famoso in quegli anni per essersi liberato dall’occupazione militare, fu indetta una manifestazione pacifica in difesa dei diritti civili (la minoranza cattolica, di fatto ghettizzata dai protestanti fedeli a Londra, oltre a pretendere condizioni di vita dignitose, chiedeva di abolire la legge disumana che prevedeva la detenzione dei prigionieri politici a tempo indefinito senza un regolare processo). L’Ira fu espressamente invitata a non partecipare e rispettò il divieto, non vi furono particolari tensioni tranne qualche minuto di sassaiola nei pressi di un blocco inatteso che obbligò il corteo a dirigersi prima del previsto verso il palco del comizio. Fu una domenica di sangue perché i soldati britannici spararono sulla folla disarmata uccidendo quattordici innocenti, molti dei quali minorenni. Un episodio inaudito ed efferato che ebbe ripercussioni in tutto il mondo ma soprattutto - le più devastanti - sul conflitto nordirlandese che si riaccese con rinnovata violenza – molti storici concordano su una spietata e strategica premeditazione che avrebbe dovuto, come poi accadde in seguito alla reazione dei nazionalisti, giustificare una nuova ondata di repressione.

C’è molto da vedere e da ascoltare nel film di Rocco Forte e Pietro Laino. Il perno sui cui ruota l’intero lavoro è il fotoreporter Fulvio Grimaldi, l’unico che quel giorno documentò il massacro con la sua macchina fotografica, chiamato a testimoniare in occasione della nuova inchiesta per individuare i colpevoli. Un uomo col portamento e il carisma dell’attore consumato (non a caso fu Patanè, giornalista del Paese Sera, in Indagine su un cittadino al di sopra di ogni sospetto), austero e compassato ma ancora energicamente vitale nel raccontare il prima, il durante e il dopo. Molto spazio hanno anche i Bogside Artists, che prendono il nome dal quartiere teatro della vicenda, un trio che negli anni ha dipinto sulle facciate di quelle case dodici murales di grande impatto visivo raffigurando le scene della strage, le vittime, l’assedio precedente alla Bloody Sunday e molti altri simboli e icone del conflitto e della resistenza. E poi la gente del Bogside, i familiari delle vittime, la commemorazione, i cenni a Bobby Sands e a tutti coloro che protestarono contro la Thatcher attraverso lo sciopero della fame.

Nonostante una confezione più televisiva che cinematografica - potrebbe tranquillamente rappresentare un appuntamento speciale all’interno di un programma di approfondimento - e una semplicità eccessiva nelle grafiche che riassumono le fasi salienti di trent’anni di scontri, Bogside Story sa aprirsi a due questioni politico-sociali che partono da Derry per riguardare qualsiasi altro posto “caldo” in giro per il mondo. La prima riguarda l’obiettivo dei murales, ovvero mostrare continuamente, da anni, una pagina di Storia su cui è essenziale continuare a riflettere e discutere, ricordando e spiegando a chi non c’era come andarono le cose. In questo modo, il documentario di Forte e Laino parla anche a noi italiani, urlandoci addosso il rimosso che faremmo bene a recuperare per capire qualcosa in più del presente in cui viviamo e più in generale mette il punto sulla necessità che i “luoghi oscuri”, come li chiama James Ellroy, restino ancorati nel dibattito culturale e mediatico del nostro come di qualsiasi altro Paese irrisolto. La seconda questione, infatti, è conseguente alla prima e ha come punto di partenza il viaggio senza sosta dei Bogside Artists laddove ci sia bisogno di sensibilizzare alla memoria una determinata comunità. Le grandi opere del trio disseminate in Tibet come in America estendono il discorso sull’azione politica dell’arte in uno scenario tristemente diffuso, in cui la Bloody Sunday non è altro che un tassello di un mosaico in continua costruzione. La domanda è sempre la stessa: cosa fare perché simili scempi non accadano più?


Infine, Forte e Laino sfruttano in pieno la collaborazione di Grimaldi per riflettere su un aspetto più propriamente profilmico e addirittura cinefilo, se pensiamo a Blow out di Brian de Palma (1981), ovvero l’audio integrale di quel pomeriggio che il giornalista documentò col suo registratore portatile. Ecco allora che il rumore degli spari, le grida, le implorazioni e l’angoscia assordante riescono a riportare a galla l’orrore di quarantasei anni fa senza filtri o rielaborazioni, celebrando drammaticamente l’assoluta centralità del suono in presa diretta nel cinema del reale.

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Rocco Forte Pietro Laino Fulvio Grimaldi Tom Kelly William Kelly Kevin Hasson John Hume Edward Daly Linda Nash Betty Walker Durata: 75 minuti
Italia, 2018
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On the Hillsides

di Samuel Antichi
On the hillside - recensione film badis

Un gruppo di giovani ragazzi algerini si incontra sul tetto di un edificio nella città di Orano, una delle più grandi del paese. Da questa posizione rialzata si possono osservare da una parte le colline, il paesaggio brullo, e dall’altra il mare. Nel mezzo il tessuto urbano in continua trasformazione, in cui svettano i cantieri dei grattacieli, sembra rispecchiare una società che trasmette la convulsione del cambiamento economico e industriale. Attraverso una pratica che richiama l'autocoscienza, i giovani, riunendosi in piccoli gruppi, raccontano le proprie esperienze, ponendo l'attenzione su temi come la deterritorializzazione e dislocazione di un’identità culturale autentica così come la marginalizzazione che provoca il costante processo di urbanizzazione e modernizzazione a cui il paese sembra andare incontro. Spaesamento del soggetto e dell’oggetto.
Da dove ripartire in una società sempre più individualista che sembra aver perso qualunque legame con il proprio passato storico e con la propria tradizione? («Per me quello che accade in Algeria è pura metafisica» afferma uno dei giovani). Bisogna ripartire dalle radici, dalle comunità, andando ad esplorare angoli nascosti, spazi ai margini che sono stati il motore e il cuore pulsante del paese, gettando luce su una storia che sia legata alle soggettività e alla relazione emozionale ed affettiva che le persone hanno con i luoghi fisici e mentali della memoria.

Nel corso dell’estate i sette giovani, insieme al regista franco-algerino Abdallah Badis compiono un viaggio (iniziatico) nell’entroterra rurale del paese con l’obiettivo di filmare questi spazi fragili in via di sparizione per preservarli, dal momento che la trasformazione di quei luoghi così come la sparizione delle comunità che li abitano, provoca una perdita della memoria storica e culturale. On the Hillsides percorre queste tracce raccogliendo una moltitudine di voci che riaffiorano tra narrazione collettiva ed esperienza personale. Vengono rievocate storie sommerse, memorie represse che scavano nella molteplicità di strati, di livelli di sedimentazioni. Le persone ricordano e raccontano le proprie memorie, dolorose e indicibili («non voglio ricordare quei momenti sennò non dormirei la notte» afferma uno degli uomini incontrati), dalla sanguinosa Guerra d’Indipendenza tra l'esercito francese e il Fronte di Liberazione Nazionale alla guerra civile scoppiata nel 1991.
In questi resoconti emerge anche la dimensione privata, del modo in cui la vita quotidiana sia profondamente cambiata dall’agricoltura alla pesca. Molte persone sono state costrette ad abbandonare luoghi ormai inghiottiti dall’espansione urbana che impone il proprio modello economico e politico, portando via con sé memorie ed esperienze. On the Hillside è un road movie che rappresenta un ritorno alle origini e alle tradizioni per compiere un processo di ri-scrittura della mitologia del paese, un nuovo linguaggio da cui possono partire le nuove generazioni per riprendere a sognare e per cominciare ad agire.

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Abdallah Badis 101 minuti
Algeria, Francia 2018
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Sofia

di Matteo Marescalco
Sofia-recensione film Benm'Barek

Legge e desiderio sono i due lembi di terra ferma che abbracciano il Mediterraneo, parafrasando il testo di presentazione della 24esima edizione del MedFilm Festival, due sponde capaci di contenere la volontà di dialogare, di interagire e di essere l'una la riva di approdo o di ripartenza per l'altra. Ma legge e desiderio sono anche le due polarità su cui è costruito Sofia, film che è stato presentato durante l'ultima edizione del Festival dedicato alla produzione cinematografica dei Paesi che si affacciano sul Mediterraneo e che ha debuttato a Maggio sulla Croisette di Cannes, nella sezione Un Certain Regard, portando anche a casa il premio alla Miglior Sceneggiatura.

Il film, diretto dalla giovane Meryem Benm'Barek, è un puzzle morale costruito su un ordito che dispiega innumerevoli traiettorie. Sofia è una ragazza di 20 anni che vive con la propria famiglia nella Casablanca di oggi. Durante un pranzo, Sofia ha violenti crampi allo stomaco. La cugina, studentessa di medicina, prova a visitarla di nascosto dai parenti. Ma la situazione è più complessa di quanto sembri perché, proprio in quel momento, a Sofia si rompono le acque. Nessuno era stato informato della sua gravidanza. Utilizzando come scusa l'improvvisa necessità di andare in farmacia, le due ragazze si recano in un ospedale per portare a compimento il parto. Con l'arrivo del neonato, le due cugine si mettono alla ricerca del padre del bimbo ed affrontano una serie di dilemmi etici che metteranno a dura prova le loro coscienze.

La macchina da presa tallona i personaggi e porta in scena un oscuro guado da attraversare. In Marocco, il sesso al di fuori del matrimonio è illegale, e secondo il codice penale può essere punito anche con un anno di reclusione. Quindi, avere un figlio senza essere sposate può comportare pesanti conseguenze. L'unica possibilità è ricucire lo strappo dell'errore e aderire nuovamente a schemi sociali e morali prestabiliti. Tuttavia, l'approdo alla terraferma non è privo di compromessi e di paradossi che rischiano di far precipitare la situazione in un buio ancora più denso rispetto al punto di partenza. Il viaggio che intraprende la protagonista schiuderà una serie di possibilità che riguardano l'autodeterminazione della donna, il peso dello sguardo sociale e lo spinoso ed universale problema del rapporto tra diritti individuali e mondo islamico.

Di volta in volta, Sofia e la famiglia dovranno prendere decisioni mediate dalla legge, ponendo in secondo piano le dinamiche del desiderio, vittima di questa circumnavigazione morale. Le falsità alimentano la crepa che viene a svilupparsi nel tessuto narrativo e che ricorda il cinema di Asghar Farhadi, tra gli autori di riferimento della Benm'Barek. Nei suoi 80 minuti, il film costruisce l'ordito narrativo con l'applicazione tipica di un allievo non troppo dotato ma particolarmente scrupoloso. Le figure umane portate in scena trovano un loro sviluppo in un contesto che si fa sempre più tragico, disperato e crudele. Tuttavia, nell'ipocrisia collettiva che rende l'essere umano simile ad un burattino a cui è data l'illusione di poter controllare il proprio destino ma che resta, comunque e in modo ineludibile, mosso dai fili del destino, trova spazio un ghigno che si prende gioco dell'istituzione matrimoniale e della società islamica. È in quel gesto di libertà che giace il segreto di uno sguardo e di un cinema che crede ancora nella possibilità della fuga.

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Meryem Benm'Barek Sara El Lubna Azabal Sarah Perles 80 minuti
Francia 2018
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The Migrating Image

di Riccardo Bellini
The Migrating Image - recensione film

The Migrating Image, ovvero “l’immagine migrante”. Il documentario del danese Stefan Kruse, visto Fuori Concorso al MedFilm Festival 2018, osserva il fenomeno dei recenti movimenti migratori verso l’Europa dalla prospettiva di un altro tipo di flusso: quello riguardante le immagini che condizionano la nostra percezione del fenomeno. A partire dalle modalità con cui, attraverso i social network, anonimi trafficanti di esseri umani pubblicizzano i loro servizi, sfruttando le immagini di un benessere occidentale da cartolina e di sicuri mezzi di trasporto, The Migrating Image innesta la propria riflessione sul nomadismo delle immagini nella nostra società e sul loro dominio nella produzione del reale. «La produzione di immagini», dice la voice over all’inizio, «inizia prima dell’immigrazione». Ad essere cambiata – vertiginosamente – è la loro accessibilità, la facilità con cui oggi le immagini possono essere prodotte e diffuse, da chiunque e in quantità un tempo impensabili. La posta in gioco è il nostro ancoraggio alla realtà, messo in pericolo da un atteggiamento passivo nei confronti di uno scenario mediale su cui le maglie del controllo si fanno sempre più larghe.

A chi sono destinate le riprese dei soccorsi in mare effettuate dalla marina militare e con quali logiche vengono prodotte? A quali media stranieri potrebbero finire le immagini dell’arrivo dei migranti caricate da fotografi volontari su piattaforme come Shutterstock? E con quali fini? Kruse si interroga non solo sulle modalità di produzione ma anche sui percorsi che le immagini della migrazione possono seguire, e lo fa con la giusta prospettiva di chi non è interessato a fornire facili risposte quanto a sollevare quesiti. Perché se, come dice Montani, «Le immagini, oltre ad avere un senso e a esercitare un potere, vogliono anche qualcosa. Ci pongono delle richieste», allora sta a noi interrogarci per attivarne la funzione testimoniale.

Attraverso filmati e fotografie di varia natura, provenienza e destinazione, dalle riprese satellitari della Frontex – il sistema di controllo e gestione delle frontiere esterne dell’UE – ai video realizzati con il telefono da alcuni migranti lungo il viaggio in mare, The Migrating Image ci restituisce un panorama visuale sfaccettato, difficilmente ricomponibile ma che chiede di essere sottratto alla deriva anestetizzante, quando non del tutto dirottata verso la strumentalizzazione. In questa breve ma composita ricognizione, assume particolare rilevanza la prospettiva dall’alto, quella per esempio dei droni che filmano una fiumana di profughi in cammino attraverso il confine tra Slovenia e Ungheria. Prospettiva che restituisce implicitamente l’idea di una dominazione delle immagini sull’uomo, quando l’uomo non è più capace di interpretarle correttamente. A meno che, come fa acutamente il regista, non si anticipi lo sguardo di questo Grande Fratello dei cieli, che distanzia e riduce i profughi a massa minacciosa senza volto, con una ripresa amatoriale dall’interno del gruppo in marcia, opponendo così all’algido sguardo aereo l’umanità di una ripresa frontale che restituisce le persone inquadrate nella loro dignità.

Il documentario di Kruse affronta questioni di assoluta urgenza per il nostro presente e il nostro futuro civile, affacciandosi con onestà a un quadro estremamente stratificato, com’è quello della produzione e diffusione mediale sull’immigrazione. Proprio per questo, l’impressione generale è che The Migrating Image, con i suoi ventotto minuti di durata, avrebbe forse aderito più saldamente alla formula del lungometraggio, meritando un maggiore approfondimento. Resta comunque l’esempio di un documentario che sa verso quali prospettive rivolgere lo sguardo.

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Stefan Kruse 28 minuti
Danimarca 2018
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Kidding - Il fantastico mondo di Mr. Pickles

di Rosario Gallone
Kidding - serie tv Gondry Carrey

In fedele continuità con Eternal Sunshine of the Spotless Mind, Jeff Piccirillo è un Joel Barish che non riesce a cancellare una perdita, una mente candida cui viene negata l’infinita letizia. Jeff Piccirillo è anche il Truman Burbank di Peter Weir, una volta oltrepassata la soglia del suo mondo real(ity)e. Ma Jeff Piccirillo è soprattutto Mr.Pickles/Jim Carrey, un uomo condannato a sorridere e a far sorridere nonostante i drammi della vita.

Kidding, serie tv creata da Dave Holstein (staff writer di Weeds che ritorna dopo la deludente Brink), segna il ritorno alla collaborazione di Jim Carrey e Michel Gondry dopo il fondamentale film del 2004. L’interprete di Ace Ventura ha avuto un’infanzia decisamente difficile, ha vissuto con la famiglia in un camper date le ristrettezze economiche seguite al licenziamento del padre contabile, e di recente, nel 2015, ha dovuto affrontare anche il suicidio della compagna Cathriona White, ed è difficile non vederne traccia nella sua interpretazione di Mr. Pickles. Di contro, il regista di Versailles ha già dimostrato di saper rappresentare, mantenendosi coerente col suo immaginario fatto di découpage e artigianato, la malinconia e il dolore di una perdita (si pensi al sottovalutato Mood Indigo – La schiuma dei giorni). Nonostante sia una serie creata da un terzo, il segno di entrambi è ben presente, a partire dalla sigla diversa per ciascuna puntata che ripropone il meccanismo delle instagram stories del profilo di Gondry. Per il resto, l’altro pregio di Kidding è quello di non essere lo show di Jim Carrey, ma una vera e propria storia su una famiglia (disfunzionale come tante) che non è la nostra, ma nello stesso tempo lo è. E può esserlo perché Carrey viene affiancato da signori attori come Catherine Keener e Frank Langella: loro sono i Piccirillo, nome di origine italiana il cui senso non può essere sfuggito al creatore.

Kidding ci dice che il dolore può essere insopportabile, che il lutto può annientare, ma che nulla, dei nostri sentimenti, può essere risolto semplicemente facendo finta che non ci sia, come lo si può fare con una puntata sulla morte da non mandare in onda. Kidding non cerca il grottesco mostrando il lato oscuro della tv dei bambini (come nell’Eliminate Smoochy di Danny De Vito, con Robin Williams e Edward Norton), non è una dark comedy, anzi. Kidding punta in alto, ci spinge a misurarci con le nostre paure, a cambiare prospettiva (e sulla parallasse si giocava tutto il celebre video dei Chemical Brothers Let Forever Be diretto proprio da Gondry). Ci dice che l’ascolto a volte è più importante del saper parlare, e che la bontà ha un costo (ed è forse la cosa più rivoluzionaria e sconvolgente). A volte, specialmente vedendo gli episodi 4 e 10, si ha la sensazione che Kidding ci parli di cose così grandi che per noi è difficile assumerle senza soffrire. Kidding fa piangere, ma non di un pianto empatico, quello che si prova per i personaggi di una serie o di un romanzo. Kidding ci fa piangere di noi stessi, della nostra terribile condizione di esseri umani alle prese con l’irragionevole ragione di esistere e di essere. Kidding sembra tutto questo e poi con un rovesciamento finale sembra il contrario. Ma forse è la serie che serviva per una enorme seduta di autocoscienza universale.  

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Jim Carrey Catherine Keener Frank Langella Judy Greer 1 stagione da 10 episodi
USA 2018
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Ozark

di Mattia Caruso
ozark - recensione serie tv netflix bateman

Era il 2008 quando Breaking Bad rivoluzionava definitivamente la serialità televisiva scardinando l'istituzione famigliare e guardando dritto negli occhi l'oscurità nascosta dietro l'ipocrisia del sogno americano.
Dieci anni dopo, nell'America di Trump post crisi economica, si intravede ancora il fantasma di Walter White aleggiare nell'apparente tranquillità provinciale di Ozark, epopea famigliare dall'anima crime che si pone come inevitabile (e per molti versi degno) erede dello show creato da Vince Gilligan.

Certo, non è un'eredità da poco quella raccolta dalla serie creata da Bill Dubuque e Mark Williams, un passaggio di testimone che però non ha la presunzione di confrontarsi con il passato, preferendo piuttosto battere altre strade, esplorare nuove dinamiche, scoprire nuove realtà.
Perché se è vero che Ozark, con la sua parabola di quotidianità criminale e ambiguità morale, occupa proprio quello spazio lasciato vuoto dal cult di Gilligan, è anche vero che è una propria identità, chiara e ben definita, quella che questo prodotto originale Netflix cerca, episodio dopo episodio, di guadagnarsi, allontanandosi, a volte anche drasticamente, da qualsiasi forzato e fuorviante paragone.

Del resto, i tempi sono cambiati, e mentre il denaro si conferma l'unica vera unità di misura dell'esistenza (illuminante il monologo iniziale del protagonista), il mondo è diventato sempre più smaliziato, più cinico, più ambiguo. È qui che Marty Byrde – il volto e l'aspetto di un perfetto Jason Bateman, anche regista di alcuni episodi – operatore finanziario e riciclatore di denaro sporco per un cartello messicano, costretto, pistola alla testa, a spostare l'attività (e l'intera famiglia) da Chicago a una sperduta località turistica nelle Ozark del Missouri, si fa emblema di un sistema che lucra sul crimine restando pulito, senza sensi di colpa, mantenendo – o cercando di mantenere – intatta la propria integrità morale e il proprio equilibrio famigliare.
Proprio la famiglia, d'altronde, è il punto cardine dell'intera vicenda, una famiglia non più da tenere all'oscuro e da vedere come principale ostacolo alla propria ascesa criminale, ma un nucleo da tenere stretto, da coinvolgere, da rendere complice, mentre tutt'attorno i principi etici e morali (compresi quelli dello spettatore) si sfaldano e la linea di demarcazione tra bene e male diventa sempre più labile e indefinita.

Un'ascesa criminale vissuta come sopravvivenza, come lotta per la vita, quella di Ozark, un alibi che i coniugi Byrde (a fianco di Marty la moglie Wendy, interpretata da una bravissima Laura Linney, che con il proseguire della serie si fa vera e propria coprotagonista) impareranno presto a raccontarsi per dormire la notte, vittime di un'ipocrisia di cui sono estremamente consapevoli.
Un dramma violento, cupo e brutale – tra spietati sicari messicani, redneck pronti a tutto e politici privi di scrupoli – dove la parabola criminale, però, acquista tinte inedite, lontana tanto dai picchi stilistico-espressivi di Breaking Bad, quanto dal gusto per il grottesco di Fargo, fedele a un realismo che si rispecchia nel volto calmo, bonario e ragionevole di Bateman, corpo immutabile votato al calcolo e all'apparenza, incurante di un intero mondo che si sfascia sotto il peso delle sue azioni.

Nel giro di due stagioni Ozark si dimostra così una serie sorprendente, a tratti imprevedibile, ma non per questo vittima di facili sensazionalismi o abusati cliffhanger, forte di una scrittura rigorosa dal ritmo implacabile e di un senso corale garantito da interpreti di alto livello (assieme a Bateman e alla Linney, la giovane Julia Garner, alla sua definitiva consacrazione), confermandosi, paradossalmente, nella sua pur poca originalità, uno dei più intelligenti e interessanti prodotti originali Netflix, e non solo.

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Jason Bateman Laura Linney Julia Garner Peter Mullan Jason Butler Harner 2 stagioni da 10 episodi
USA 2017
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