In guerra

di Beatrice Fiorentino
In guerra - Brize recensione film

Una storia comune, come se ne leggono sempre più marginalmente, perché ogni giorno è minore l’attenzione che i giornali dedicano alle traversie degli operai in lotta per la difesa del posto di lavoro. Una di quelle vicende che negli anni della Thatcher avrebbero ispirato la fantasia dei Loach e dei Leigh, di quelle lotte che all’epoca scuotevano le coscienze ma di recente si sono fatte via via più episodiche e, in misura inversamente proporzionale all’impietoso dilagare della precarietà, quasi anacronistiche. Lavoratori, scioperi, licenziamenti. Una storia già vista e sentita. Eppure mai così drammaticamente puntuale, contemporanea, rappresentativa del presente.

Dietro al caso della Perrin messo in scena nel film In guerra, infatti, dietro al nome fittizio di una fabbrica specializzata in componenti automobilistici con sede nella Nuova Aquitania, non è difficile riconoscere le esperienze sindacali di tanti stabilimenti europei che hanno subito e ancora subiscono la medesima sorte: chiusura e delocalizzazione, con la conseguente perdita di migliaia di posti di lavoro. Sono in 1100, nella finzione, a opporsi al progetto di dismissione che prevede la cessione a una multinazionale tedesca e lo stop definitivo degli impianti, in barba agli accordi siglati nei due anni precedenti, a scapito dei sacrifici dei lavoratori e nonostante un profitto da record. La risposta è uno sciopero durissimo che, in attesa di una risoluzione, blocca per tre estenuanti mesi produzione e stoccaggio. Nulla di originale o di non visto, appunto. Nella finzione come nella realtà. Perché, allora, In guerra è da considerare un film così fuori dall’ordinario? Così unico? Cos’è che lo rende il più sconvolgente contributo cinematografico sulla working class degli anni Duemila, sulla delegittimazione del lavoratore, messo alle corde dalla globalizzazione, piegato dalle logiche del capitalismo e da quella legge del mercato già portata sullo schermo da Stéphane Brizé nel 2015? La risposta è nella forma. In una scelta estetica potente e radicale. Non aprioristica, né esibita, ma strettamente connessa a un preciso pensiero etico e politico. Rigoroso. Senza per questo chiudere le porte alla commozione.

In guerra è un film di gesti e di corpi. La parola, molto presente in sceneggiatura, c’è ma è delegittimata. Si pensi alle interminabili discussioni, all’esasperante susseguirsi di promesse tradite e all’uso ricorrente dell’espressione «le do la mia parola», «non ha mantenuto la sua parola», rinnegata nel significato. Il dialogo è fallito, la parola non conta. Contano solo i gesti, anche i più estremi. Gli unici in grado di produrre qualche effetto sulla realtà. Per questo Brizé sintetizza l’atto politico in una performance che viene posta al centro del discorso. Dell’atto politico, ovvero la protesta, la battaglia, di questa sfiancante guerra di posizione che si consuma su fronti opposti, osserva soprattutto la coreografia, la ritualità, la strategia. Come in un musical il climax è rappresentato dal numero di danza dei ballerini, o un wuxia trova il suo apice nelle scene di combattimento tra samurai, o ancora meglio in un war film - ça va sans dire - con l’alternarsi della messa in scena del disegno tattico e delle sequenze di battaglia, qui, soprattutto, il centro nevralgico si trova nella concretezza dell’agire: cortei, slogan, striscioni e bandiere, pugni chiusi e picchetti, resi epici dal suono distorto di una chitarra elettrica interrotto da improvvisi squarci di silenzio bruschi come strattoni. E ancora: i tavoli di contrattazione, le ore passate al freddo, le attese, le accese discussioni e, quando serve, calci e botte. Che non si consumano in un posto qualsiasi, ma in un luogo-simbolo: davanti al cancello della fabbrica, sulla linea di demarcazione che segna gli inclusi e gli esclusi della società.

La concessione alla narrazione classica è ridotta al minimo. Si procede per blocchi, scanditi ritmicamente dall’interpunzione sonora delle musiche ora violente ora malinconiche, comunque ipnotiche, composte da Bertrand Blessing. Al regista non interessa neppure scavare nella dimensione privata dei personaggi, che non sono tali in quanto individui, ma parte di un unico corpo collettivo. L’unica (breve) licenza riguarda il protagonista Laurent Amédéo, operaio sindacalista sempre in prima fila, che ha la forza tragica dell’eroe e il volto umanissimo di un Vincent Lindon bigger than life. La vita extra-fabbrica è relegata fuori campo, al pari dei dirigenti della nuova proprietà: entità smaterializzate che incombono con le loro decisioni prese dall’alto senza mai metterci la faccia.

Il dispositivo agisce per mimesi: imitando le forme del documentario quando si muove all’interno del disordine-ordinario, nel vivo dell’azione di protesta; aderente agli stilemi dei media televisivi quando vuole prendere le distanze e osservare la realtà con pretesa oggettività, dall’esterno; attraverso l’uso di un telefonino in modalità verticale solo nell’ultima sequenza, quando è opportuno applicare un filtro “etico” all’osservazione dell’ultimo irreversibile atto, quando la tragedia attraversa il corpo di quella classe operaia destinata al paradiso, vessata in terra, ma anche minata da conflittualità interne inaccettabili agli occhi dell’idealista.

Qualcuno dirà: mancano le sfumature, ci sono solo buoni e cattivi. Ma è così che vanno le cose in guerra. In guerra ci sono due schieramenti. In guerra si fanno i morti. E in un mondo in cui si è progressivamente persa la dimensione della collettività e dell’impegno, Brizé sceglie senza titubanze o mezzi toni da quale lato della barricata stare.

Categoria
Stéphan Brizé Vincent Lindon Mélanie Rover Jacques Borderie David Rey 105 minuti
Francia 2018
Immagine con larghezza massima
Larghezza massima

La casa delle bambole – Ghostland

di Saverio Felici
Ghostland - recensione film pascal laugier

Cosa ha fatto in tutti questi anni, Pascal Laugier? Come molti altri eroi dello Splat Pack 2003-2008 (quella corrente di horror estremo, soprattutto europeo, che a metà anni duemila resuscitò un genere anestetizzato dallo slasher liceale), il regista francese sembrava essere diventato vecchio precocemente, all'improvviso. Le tendenze mainstream dell'horror cambiano più velocemente che in qualsiasi altro genere, ed è un attimo ritrovarsi da Profeta di un nuovo cinema a vecchia gloria nel giro di un film e mezzo. Aja è calato, Balaguerò si è imborghesito, Gens non si sente più. Da Laugier si aveva avuto l'ultimo segnale di vita con il rivedibilissimo esperimento hollywoodiano di I bambini di Cold Rock (2012), prontamente rimosso dall'immaginario. Nel 2018 sono passati esattamente dieci anni da quel Martyrs che ne fece una meteora: e come a voler celebrare il decennale di quel classico, Laugier è riemerso, ripartendo proprio da lì per tornare finalmente a fare i suoi film.

I punti di contatto di La casa delle bambole – Ghostland con quello storico film sono talmente tanti ed espliciti da sfiorare l'operazione meta-cinematografica (a cui Laugier ha sicuramente pensato): un riaffacciarsi di concetti, soluzioni, stilemi, che confermano forse per la prima volta la vena autoriale di un regista il cui sguardo personale si era dissolto troppo presto. Il cinema di Pascal Laugier è quello di una “poetica della tortura”, da intendere alla lettera: non l'orrore del soprannaturale e dell'assurdo, ma quello, concretissimo, della sopraffazione, dell'annichilimento fisico e mentale. Laugier, a ben vedere, si è sempre considerato Autore, ma questa voglia un po' pretestuosa di andare a parare su grandi concetti strangolava gran parte delle sue pellicole (Martyrs in primis, che al netto dell'incontestabile statuto di classico, rimane un film tutt'altro che perfetto). Ghostland è forse il primo passo in avanti del regista registrato da quel 2008. Un film potentissimo, sadico e contorto. Ma con un senso e un significato finalmente centrati.

Ghostland è dunque un'altra storia di tortura, dalle meccaniche simili a Martyrs, ma con risvolti diametralmente opposti. Protagonista è una ragazzina sui quattordici anni, Beth (Emilia Jones), chiusa e bloccata, aspirante scrittrice horror con il mito di Lovecraft. Insieme alla madre (Mylène Farmer) e alla cinica sorella Vera (Taylor Hickson), si trasferisce nell'isolata casa di campagna della zia defunta. Una magione cadente e ingombra di paccottiglie e bambole inquietanti («sembra una delle case di Rob Zombie», dice Vera, e siamo esattamente lì). La prima sera di soggiorno, le tre vengono assalite da una coppia di aggressori.

Quello che verrà dopo non può in alcun modo essere anticipato. Chi conosce Laugier sa che la sua cifra è il cambio di direzione: il martellamento continuo di colpi di scena e ribaltamenti di prospettiva, che portano i suoi film su mille binari differenti rendendoli incatalogabili (e spesso tortuosi, se non addirittura noiosi). Dunque, altro non va svelato. Per comprendere il film, è necessario approcciarlo nella sua interezza.

Ghostland è, per strano che possa suonare, una sorta di doppio positivo di Martyrs. Anche stavolta il centro è la tortura e la violenza (anche sessuale), inflitte su protagoniste (minorenni) incapaci di reagire. Ma rispetto al cupissimo film del 2008, Ghostland non è nichilista. Dietro la vorticosa struttura del film, viene portato avanti un discorso estremamente personale sul motivo ultimo della narrazione e del racconto (horror, ovviamente). L'immaginazione perversa come strumento di fuga, ma anche arma per affrontare l'inferno a viso aperto. Al cuore di tutto, è in fondo la storia di una giovanissima donna, e del suo scendere a patti con i propri sogni e la propria immaginazione, per raccogliere la forza di combattere una realtà atroce. In questo senso, l'horror che ossessiona Beth è strumento di escapismo, ma anche di rivalsa nel momento di riaprire finalmente gli occhi.

In un classico gioco narrativo a scatole cinesi (realtà-sogno-ricordo), Ghostland affronta a modo suo il grado zero dell'orrore (l'home invasion: l'irruzione dei mostri), per cercarne l'esorcismo. Dopo il consueto gioco di false piste e giri a vuoto, alla stessa maniera di Martyrs, Ghostland trova il suo senso di esistere nel terzo atto. Che stavolta non è torture porn ma la guerra finale contro di esso, in un delirio di corpo a corpo feroce, estenuante e liberatorio. E dove le bambole argentiane, la casa hooperiana, i jumpscare raimiani, diventano elementi umani, per combattere il disumano dello stupro e della tortura.

Ancora una volta, i mostri sono gli uomini (qui una coppia di deviati da leggenda), e i mostri della fantasia diventano alleati da spaccargli in testa, come la grottesca macchinona da scrivere che Beth si porta sempre appresso. Ed è logico che, nella scena già più bella del film, appaia proprio Howard Philip Lovecraft, con il mascellone e lo sguardo cupo dell'iconica fotografia. Come Elvis in Una vita al massimo, per l'ultima grande spinta alla fiducia della protagonista. E a Laugier, che ne aveva bisogno.

Categoria
Pascal Laugier Crystal Reed Taylor Hickson Rob Archer Mylène Farmer 91 minuti
Francia, Canada 2018
Immagine con larghezza massima
Larghezza massima

Don't Worry

di Tamara Gasparini
Don't Worry, He Won't Get Far On Foot - recensione film van sant amazon

Con Don’t Worry, He Won’t Get Far on Foot Gus Van Sant torna a Portland, città d’elezione, luogo mitico e reale nella sua cinematografia di artista errabondo che trova nel grande Nord Ovest americano la propria casa. La Portland delle comunità dei bassifondi di Belli e dannati, Drugstore Cowboys e Mala oche, quella della West Coast intrisa della controcultura hippy figlia dei Burroughs, dei Tom Robbins e della generazione beat, quella di un’umanità della strada e di una weirdness che ha formato lo sguardo di un autore sensibile alle alterità e alle vite vissute ai margini.

Di Portland è John Callahan (1951-2010), cartoonist tetraplegico sul cui libro di memorie il film è basato, che sembra provenire dallo stesso milieu di dropout, sognatori narcolettici, santoni, junkies e altri outsider vansantiani, oltre che dall’ ambiente “arty” che il regista ha realmente frequentato da metà anni Settanta in poi. Don’t Worry s’inserisce tra le produzioni non propriamente indipendenti di Van Sant (produce Amazon) ma sotto la superficie levigata del biopic c’è il cuore di un racconto intimo, personale e autenticamente sentito che sembra riportarci indietro ai film migliori del regista. Un biopic anomalo, che racconta il processo di liberazione dalla dipendenza dall’alcol e la personale resilienza di Callahan dopo il tragico incidente che a vent’anni l’ha paralizzato dalla vita in giù, confezionato in una struttura narrativa frastagliata e spiazzante, avanti e indietro nel tempo, che rompe la linearità consequenziale e il flusso del racconto.

L’alcolismo, la ricerca impossibile della madre, il gruppo di recupero, l’incidente, la riabilitazione fisica ed emotiva, l’affermazione del proprio talento artistico e il lungo percorso di redenzione attraverso il perdono e l’accettazione di se stesso sono i pezzi sfasati e sparigliati di una forma soggettiva di temporalità, vissuta come se il Tempo non esistesse, in uno stile registico dal montaggio scomposto e spezzato che sembra respingere ogni possibilità di afferrare il presente, di dargli un ordine, di ingabbiarlo in una forma compiuta e fissa che sfugga al caos del divenire in favore di un senso.

«Maybe life is not supposed to be as meaningful as we think it is», confessa ieratica Kim Gordon nel monologo che apre l’intero film. E forse è proprio nell’accettazione della mutevolezza (figura tipica del cinema vansantiano sono, dopo tutto, le nuvole) e nella predisposizione al cambiamento la direzione da seguire per la propria salvezza.
Don’t Worry è la passione di John Callahan. Lo vediamo viversi e raccontarsi in prima persona attraverso i dialoghi-fiume, negli occhi di Joaquin Phoenix che è tutto sguardi e mimica facciale, in un flusso di coscienza al limite tra sogno e realtà. Le visioni (i ginnasti e la mano della madre sulla spalla del figlio) sono le interferenze dentro un reale che non è mai autosufficiente nella poetica del regista, fin dagli esordi, in una costante tensione alla fuga onirica dinanzi ad una realtà inconoscibile. Il disordine percettivo del reale è un topos ricorrente della sua cinematografia (perfettamente teorizzato in Elephant), che gli eroi vansantiani tutti, da Mike a Blake, da Bob a Gerry, sentono di fronte alle inquietudini del loro essere nel mondo, in cerca di qualcosa che forse non troveranno mai, eternamente fuori posto. John Callahan non è diverso dagli altri adolescenti dei film passati: è un giovane adulto che resiste al flusso, alle correnti, alla conformità sociale; che cerca nella dimensione parallela dell’alcol prima e del disegno poi una propria casa, un luogo da abitare rassicurante e famigliare, nel tentativo di riparare ai guasti, agli abbandoni, di sopperire alle mancanze (nell’eterna utopia di un ritorno alla madre che non ha mai conosciuto, esattamente come Mike/River Phoenix in My Own Private Idaho). È nell’immaginazione e nelle illustrazioni di cui è punteggiata l’intera narrazione che si esplica il bisogno di uscire fuori di sé per ritrovare la strada di casa e attuare il proprio personale percorso di illuminazione e rinascita.

Don’t Worry, diversamente dai film più indie firmati da Van Sant, trova in un lieto fine consolatorio il proprio compimento: nel riconoscimento pubblico del talento e nell’appagamento dell’amore (Rooney Mara). Ma il cinema di Van Sant non cerca affermazioni, non offre sicurezze. Registra il reale come enigma, come flusso aperto in cui spesso vanno alla deriva personaggi fragili, lunari, eccentrici. È umanista. E Don’t Worry offre un affresco di caratteri secondari meravigliosamente umani: la vecchia conoscenza Udo Kier, la già citata Kim Gordon, Beth Ditto dei Gossip e soprattutto un illuminato Jonah Hill, messianico guro del gruppo di alcolisti. I loro dialoghi, apparentemente banali, sono confessioni intime che solo nell’ordinarietà trovano la verità profonda e disarmante di chi con quelle verità, quelle paure e quelle debolezze ha imparato a convivere.

Van Sant rivolge loro il suo sguardo complice, mai distaccato, mostrando tutta l’empatia nel ritrarre personaggi borderline di fronte all’abisso delle loro vite, con l’affettuosità di un fratello o di un consimile. Con lo stesso sguardo puro di ragazzini di strada che scendono dai loro skatebord per aiutarti a rialzarti dopo una brutta caduta.

Categoria
Gus Van Sant Joaquin Phoenix Rooney Mara Jonah Hill Jack Black Olivia Hamilton 113 minuti
USA 2018
Immagine con larghezza massima
Larghezza massima

Miserere

di Attilio Palmieri
Pity - recensione film Babis Markridis

La tristezza, il dolore, il lutto, sono sentimenti estremamente complessi, che in linea generale (e teorica) hanno in comune un variabile grado di sofferenza ma concretamente assumono contorni differenti a seconda delle persone in cui si manifestano. Miserere è un film che si concentra su una particolare modalità in cui è vissuta la condizione del dolore, presentandosi come un'opera dalla storia inizialmente molto drammatica ma dal registro grottesco e capace di mettere alla berlina alcune contraddizioni umane con eccezionale acutezza.

Il protagonista del film è Giannis, un avvocato di successo la cui vita è sconvolta dalla tragica condizione della moglie, la quale è in coma da diverso tempo. La famiglia è completata da un figlio adolescente, che condivide con il padre una serie di appuntamenti rituali che vorrebbero onorare l'assenza della madre, ma che nella loro ostentazione risultano soprattutto forme di patetico autoconvincimento vittimista. Il film conosce un brusco turning point nel momento in cui la moglie del protagonista si risveglia dal coma, rompendo un equilibrio fondato proprio sul dolore e sulla condiscendenza da parte degli altri.

Il film è l'opera seconda di Babis Markridis ed è co-sceneggiato da Efthymis Filippou, autore che da anni collabora in maniera stabile con Yorgos Lanthimos, il principale regista greco contemporaneo. Impossibile non notare la firma di Filippou nell'incedere dolceamaro di Pity, film che ripetutamente illude lo spettatore di essere una cosa, per poi rivelarsi in maniera abbastanza perentoria qualcosa di differente. Tutta la prima parte, infatti, può essere scambiata per il ritratto di una lancinante condizione di lutto vissuta da parte di un marito rimasto quasi vedovo, in preda a forti crisi di pianto e devastato dalla solitudine. Già in questa fase però si intuisce il distanziamento da parte dell'istanza narrante: il voice over che riproduce una sorta di monologo interiore ha l'obiettivo di ammantare il dolore con una sorta di poeticità, tanto da ostentare persino una posizione di privilegio. Questo atteggiamento del protagonista viene ripetutamente deriso dagli autori, i quali, seppur inizialmente in maniera non proprio esplicita, si prendono gioco di una certa tendenza a dipingere il dolore con un romanticismo che rivela soprattutto atteggiamenti vittimisti e passivo-aggressivi.

Tutto ciò che nella prima parte già era presente, ma travestito da commedia sulle bizzarrie del lutto, da quando la moglie di Giannis si risveglia si rivela in maniera progressivamente più esplicita. Quanto è bello stare male? Come è possibile essere più felici nel momento del dolore rispetto a quando la fonte di quel dolore viene a mancare? Gli autori si distanziano molto rapidamente dal modello di racconto drammatico e mirato a generare empatia nello spettatore, perché sono proprio la compassione e le sue conseguenze che vogliono analizzare con il loro caustico sguardo. Abituarsi a ricevere un trattamento speciale perché vittima di una sofferenza unica e incommensurabile ha reso il protagonista egoista e sotto certi aspetti persino felice di crogiolarsi in uno struggimento che fa tantissima fatica ad abbandonare. Siamo lontanissimi dalla riflessione sul dolore come unico modo di rimanere attaccati a una persona persa, anche perché in questo caso è proprio quella persona a tornare in vita. Stavolta l'assenza di quel dolore non solo fa sentire il protagonista inutile (vivere nella speranza del risveglio della moglie gli aveva dato un senso), ma lo ha reso anche assuefatto alla compassione altrui, tanto da non riuscire a godere neanche di ciò che per tanto tempo ha solo desiderato.

Nell'ultima parte, la più effervescente dal punto di vista dell'esasperazione della riflessione e da quello della messa in scena, Giannis fa di tutto per ritrovare anche solo una parvenza della condizione di un tempo, cercando disperatamente una legittimazione per star male, finendo per perdere totalmente il controllo e compiere atti di estrema brutalità. Il risultato è un’opera dalla grande libertà creativa che riesce ad essere allo stesso tempo divertentissima e un pugno allo stomaco, che sceglie di non scendere a compromessi, non indugiare in facili moralismi e anzi distruggerli da cima a fondo, restituendo un ritratto umano di estremo pessimismo.

Categoria
Babis Makridis Makis Papadimitriou Yannis Drakopoulos 97 minuti
Grecia, Polonia 2018
Immagine con larghezza massima
Larghezza massima

StellaStrega

di Riccardo Bellini
StellaStrega, Federico Sfascia, Recensione, Film

Al grido di “tremate, tremate le streghe son tornate!”, con StellaStrega Federico Sfascia si prende una rivincita sui problemi intercorsi durante la lavorazione del precedente Alienween, progetto commissionato dal produttore Alex Visani e dalla sua Empire Video, ora assente dai titoli di testa. Nell’ultimo lavoro del regista umbro infatti le streghe sopraggiungono come un deus ex machina accorso a salvare l’umanità dall’apocalisse, ma anche a fare giustizia di un film inficiato da una produzione disattenta, inesperta, incapace di fornire un adeguato finanziamento e dunque di sostenere appieno la libertà creativa concessa all’autore. StellaStrega sorge così dalle ceneri di Alienween, ne costituisce sia il rimontaggio che un lavoro di riscrittura, e proprio con la scelta del nuovo titolo, suggerito dall’unico elemento narrativo assente nel film iniziale - la presenza appunto delle streghe, - esprime una inequivocabile dichiarazione di intenti.

Sfascia ristabilisce il controllo su una materia ancora grezza, senza operarne però un totale scardinamento. Al contrario, attraverso poche e pazienti migliorie, rese possibili questa volta con il sostegno di Rubaffetto Entertainment, già produttrice di I rec u, Sfascia taglia e cuce la propria creatura per liberarne finalmente il potenziale inespresso. La follia immaginifica del regista, sacrificata in parte in Alienween da effetti speciali non sempre all’altezza dei lavori precedenti, trova maggiore respiro grazie all’aggiunta di effetti ottici e qualche modellino più accurato. Ciò unito ad atmosfere più pregne dei sogni e degli incubi cinematografici di Sfascia, merito della nuova colonna sonora, decisamente più immersiva e aderente alla materia filmica, capace finalmente di creare tensione nei momenti giusti con i suoi toni spiccatamente carpenteriani, ma anche di tingersi di venature malinconiche che infondono nuova linfa a sequenze rimaste per lo più intonse - il momento della danza delle prostitute ne è un illuminante esempio. La sottotrama melodrammatica risulta così molto più a fuoco, sostenuta anche da pochi tagli di montaggio e da brevissimi ma oculati frammenti girati ex novo, che ne strutturano meglio il dipanarsi.

Ma la grande conquista di StellaStrega sta soprattutto nella forza con cui Sfascia corrobora, senza sconvolgere la materia di partenza, la sua verve incendiaria, anima, cuore (e budella) del suo cinema, sospesa tra una dissacrante - e sacrosanta - visione dell’umanità e un sentimento del tragico che non ha nulla di vuotamente sentimentale, ma che è anzi l’esatto opposto di ogni sentimentalismo d’accatto. Il memorabile prologo del film, una delle poche parti inedite rispetto ad Alienween insieme alla sequenza lisergica delle streghe, non lascia scampo a nessuno, né alla demenza di youtuber mentecatti, né a un popolo di webeti patentati, né implicitamente alle vane promesse di produttori spiantati (“se non c’hai i soldi, non li fare i film”); un’umanità probabilmente degna - sembra dirci Sfascia - dell’imminente estinzione che piove sulla sua testa inconsapevole. È in questi momenti, nel modo in cui per esempio viene dilatato e reinventato un prologo che in Alienween sembrava poco personale e troppo affrettato, fino a farne una sorta di manifesto autoriale, ma anche nei piccoli dettagli modificati in post-produzione - soprattutto per quanto riguarda le ignominiose pagine social - che il lavorio di StellaStrega riesce davvero a rendere ancora più incisivo la causticità del cinema di Sfascia.

Risolti in parte i problemi di ritmo del film precedente, soprattutto nella seconda parte, e impreziosito il carosello grottesco del suo (ahinoi del nostro) universo, i deliri cine-fumettistici di Alienween rivivono in StellaStrega. Tornano dunque gli zombie-alieni dalla testa di zucca, tornano i fluidi mortali che corrodono la carne - puro pus underground! - e trasformano in mostri chi, del resto, anche nella quotidianità non fa che comportarsi come tale. Tornano gli scontri epici in stile manga a suon di nipponici raggi luminosi, e insieme a tutto questo ben di Dio arrivano per la prima volta anche le streghe, presenze femminee di natura ancestrale, la cui piccola aggiunta basta a irrobustire la lettura finale del film. Ecco allora i nuovi contorni di una speranza d’amore che solo una madre può offrire al mondo come antidoto ai suoi orrori. Un invito alla resistenza che, ci auguriamo, possa essere seguito dallo stesso Sfascia e dal suo cinema.

Categoria
Federico Sfascia Alessandro Mignacca Alex Lucchesi Anna Morosini Cecilia Casini Federica Bertolani Francesca Detti Giulia Zeetti Guglielmo Favilla Martina Falchetti Matteo Cantù Mattia Settembrini Milena Garreffa Mirko Peruzzi Raffaele Ottolenghi Veronica Ciancarini 89 minuti
Italia, 2018
Immagine con larghezza massima
Larghezza massima

La nuit a dévoré le monde (The Night Eats the World)

di Andreina Di Sanzo
anders-recensione La nuit a dévoré le monde

Difficile pensare al minimalismo se ci avviciniamo a uno zombie movie, eppure La nuit a dévoré le monde (The Night Eats the World), primo film diretto da Dominique Rocher, aggiunge a uno dei sottogeneri più sfaccettati dell’horror un’ulteriore allegoria.

Dopo essersi addormentato a casa della sua ex ragazza durante una festa, Sam si risveglia in una Parigi desolata, restare umani diventa sempre più difficile, il morbo zombi divora tutti velocemente. Anders Danielsen Lie è il protagonista assoluto di un film intimo e rarefatto, poche sono le incursioni di altri personaggi: il non-morto Denis Lavant e la bellissima Golshifteh Farahani, creatura naïf e affascinante come nel Paterson di Jim Jarmusch. Sam affronta, barricato nel palazzo, la sua solitudine mentre fuori il mondo è sempre più decimato dalla presenza umana. Gli zombi non emettono i loro soliti versi e corrono, la voglia di cibarsi di carne umana è sempre la stessa e il protagonista si isola nella sua fortezza scegliendo come unico amico proprio uno di loro, Alfred.

Conclamata metafora politica e ideologica grazie alla grandezza del cinema di George A. Romero, il percorso della filmografia zombi è abbondante e sfaccettato. Qui però diventa materia per un horror arthouse tutto improntato sull’isolamento. Lo spazio del palazzo è il mondo interiore di Sam, probabilmente disilluso e addolorato dopo la fine di una relazione. Riappropriandosi proprio di questo spazio che riassetta con tutto ciò di cui ha bisogno, il protagonista si muove in una prigione che sceglie di non abbandonare. Dialoghi ridotti all’osso e momenti di folli evasioni (fatti di musica con strumenti costruiti grazie agli arnesi domestici), urla,  travestimenti e objets trouvés nelle stanze una volta vissute da famiglie, coppie di anziani, bambini. Sam si rifugia nel mondo di altri per sfuggire al suo dolore, rappresentato da quella realtà esterna priva ormai di umanità.

Ma nel momento in cui un’altra superstite arriva in quel palazzo, nel protagonista nasce la speranza di un nuovo corso, come catapultato in una nuova storia, una nuova relazione, una nuova donna da amare e forse una possibilità per uscire dalla sua solitudine. Allora quel mondo popolato da zombi diventa metafora di profondo dolore, di quella rabbia che Sam tenta di combattere in quelle poche sequenze d’azione e tensione che ci sono nel film, insolito per un’opera sul genere.

Rocher si focalizza sul volto del protagonista, sui suoi movimenti e sulle sue continue interazioni con lo spazio circostante fino all’appropriazione di questo e al tentativo di farne un luogo sicuro e invalicabile.
Tratto dall’omonimo romanzo di Pit Agarmen, La nuit a dévoré le monde, si rivela un film che parte dal genere solo come spunto per arrivare a una sua variazione spirituale. Così i tetti di Parigi, come quelli della Berlino di Wenders, si popolano di spettri, immaginati o reali, in un finale che è solo un nuovo inizio, nuove simbologie e una nuova alba per i morti viventi.

Categoria
Dominique Rocher Anders Danielsen Lie Denis Lavant Golshifteh Farahani 94 minuti
Francia 2018
Immagine con larghezza massima
Larghezza massima

Tyrel

di Eugenia Fattori
Tyrel - recensione film Sebastián Silva

Il parallelo tra Tyrel di Sebastián Silva e Get Out, l'horror di Jordan Peele candidato agli Oscar, sorge spontaneo fin dai primi minuti di visione. Così spontaneo da essere stato al centro della maggior parte delle recensioni dedicate al film di Silva all'epoca della sua presentazione al Sundance Film Festival. Tuttavia le similarità tra i due lungometraggi si fermano quasi soltanto alla situazione di partenza: un afroamericano inserito in un contesto di isolamento nei boschi, per un weekend in cui si troverà circondato da soli bianchi. Perché laddove Get Out punta tutto su un meccanismo di tensione orchestrata e di colpi di scena, lavorando sul genere e sul messaggio esplicitato, Tyrel preferisce invece la semi-improvvisazione alla sceneggiatura, l'immedesimazione alla costruzione, e basa la propria tensione non sugli stratagemmi di regia ma sulla percezione della sua quasi totale assenza, così come sul rifiuto di veicolare un messaggio preciso.

Get Out era un horror della tensione, Tyrel è un horror della percezione, in cui ciò che accade passa in secondo piano rispetto alla sua interpretazione – e ciò che accade è, fondamentalmente, quasi nulla, a parte un gruppo di ottimi attori che interagiscono tra loro ricreando ed esasperando i meccanismi della mascolinità tossica di gruppo, fatta di prevaricazione, dileggio, violenza più o meno sottile e alcool usato come facilitatore della comunicazione.

Tyler è l'unico afroamericano capitato per caso in un affiatato gruppo di amici che si riunisce per un compleanno, una decina di maschi bianchi che col procedere dei festeggiamenti perdono ogni freno inibitorio grazie alla reciproca confidenza, alla forza percepita del gruppo, all'alcool e alle droghe, ma soprattutto grazie a un contesto isolato che permette loro di sospendere ogni parvenza di civiltà: un Signore delle Mosche per trentenni borghesi (non a caso il libro viene esplicitamente citato) visto con gli occhi dell'elemento percepito (e che percepisce sé stesso) come “altro”, portatore di una memoria storica e di una percezione dei rapporti capace di ribaltare completamente la narrativa.

Non esiste modo migliore, più cristallino e persuasivo, di mettere in scena il razzismo percepito e la radicale differenza nell'esperire il mondo tra bianchi e neri dell'inserire in una situazione nota (un party scatenato di maschi bianchi trenta/quarantenni, una delle circostanze più raccontate della storia del cinema) un elemento di disturbo, e affidare ad esso il punto di vista del racconto. E anche se Silva non dichiara la propria direzione, spinge fin da subito su questo meccanismo: così come il nome del protagonista (Tyler) non è quello del titolo (Tyrel) – “Tyrel” è la versione del suo nome capita da un bianco che lo sente senza ascoltarlo davvero, ragionando piuttosto in base ai propri pregiudizi – ogni cosa, vista con occhi diversi, ci viene restituita deformata dalla diversa esperienza del potere sociale (Pete che scambia Tyler per un altro non è semplicemente maleducato ma è un bianco che non sa distinguere un nero dall'altro, mentre il gioco degli accenti che tanto diverte gli altri è semplicemente everyday racism) o dalla distanza culturale (i REM non sono un gruppo di culto ma il simbolo dell'egemonia culturale della musica bianca), e così via, fino alla paura e ad una piňata a forma di Trump con una banana in bocca che diventa sgradevole rievocazione degli orrori del KKK.

Nella stessa situazione in cui un bianco percepirebbe sé stesso semplicemente come a disagio, tra estranei che lo mettono in difficoltà, Tyler percepisce sé stesso come in pericolo e legge la realtà con l'occhio deformato di una paura che rappresenta lo scheletro della vicenda molto più dei singoli accadimenti che la compongono. Tyrel in questo senso delude chi si aspetta le svolte narrative di Get Out, ma ne raccoglie parte del discorso: scompare l'intento didattico ma resta il disagio, scompare la storia ma resta il modo in cui interpretiamo ciò che accade a seconda del posto che sentiamo di occupare in quella situazione. Il fatto che essere un afroamericano significa occupare costantemente un posto un po' più in basso degli altri, vedere il mondo da una posizione più precaria e dunque con una diffidenza che spesso si rivela semplice istinto di autoconservazione non è soltanto una chiave di lettura qui ma la vera sostanza di un film che ragiona brillantemente sui meccanismi del potere sociale che influenzano la nostra visione di noi stessi.

Categoria
Sebastian Silva Jason Mitchell Christopher Abbott Michael Cera Caleb Landry Jones Roddy Bottum 86 minuti
USA 2018
Immagine con larghezza massima
Larghezza massima

The Guilty

di Attilio Palmieri
The guilty - recensione film Möller

Spesso quando si parla di cinema e serie televisive si ricorda una delle principali regole del racconto audiovisivo: show don't tell. Questo suggerimento è sicuramente uno dei più saggi, soprattutto per una forma espressiva che, per dirla con Pasolini, ha il compito di mettere in immagini una «struttura che vuole essere un'altra struttura». Sono quindi le immagini ad avere il compito di raccontare, anche quando sembrano non raccontare nulla.

L'apparente racconto del nulla, dal punto di vista mostrativo, è esattamente il punto centrale di The Guilty, lungometraggio d'esordio di Gustav Möller. L'escamotage narrativo del film consiste nel raccontare Asger, un poliziotto di Copenaghen che, per via di un'indagine interna che lo vede coinvolto come accusato, è costretto a svolgere il ruolo di centralinista nella stazione di polizia. Durante il turno di lavoro però riceve una chiamata da parte di una donna, che attraverso una serie di giri di parole gli fa capire di essere stata rapita, di essere sotto il controllo del suo sequestratore e di aver bisogno d'aiuto. Il film procede fino alla fine nella stessa ambientazione, con la macchina da presa che inquadra sempre e solo il protagonista (spesso esclusivamente il suo volto), non mostrando nulla di ciò che succede ma lavorando su una totale focalizzazione interna tale da sovrapporre il punto di vista di Asger con quello dello spettatore, tenendo così quest'ultimo incollato allo schermo dall'inizio alla fine.

Il primo e più immediato paragone che viene in mente è quello con Locke, film del 2013 scritto e diretto da Steven Knight (autore di Peaky Blinders) e interpretato da Tom Hardy, il cui personaggio principale anche in quel caso era il centro di un film in cui l'azione si svolgeva da un'altra parte. Quelle di The Guilty sono immagini che raccontano, dicevamo, perché consapevoli che una delle più importanti virtù del cinema consiste nella capacità di raccontare il non mostrato, spingendo lo spettatore a immaginare ciò che non viene rappresentato all'interno dell'inquadratura. Möller fa quindi un discorso radicale sull'importanza del fuori campo al cinema e il suo film si presenta come una vera e propria lezione per tutte quelle opere nelle quali si percepisce la vana illusione di creare tensione e paura attraverso la messa in scena esplicita di momenti di grande impatto e brutalità, che in molti casi sarebbero più efficaci se sottratti allo sguardo dello spettatore.

The Guilty è un lavoro scritto in maniera certosina, capace di costruire un'altissima tensione sin dall'inizio e mantenerla fino alla fine, gestendo con perfezione alcuni disturbanti twist narrativi che, sia lo spettatore che il protagonista, possono solo ascoltare, amplificandone l'orrore nelle rispettive immaginazioni. Sotto questo punto di vista il film di Möller (attualmente in lizza per entrare nella cinquina finale agli Oscar come miglior film straniero) rappresenta una sorta di punto di incontro tra un film e un podcast: come il primo ha il linguaggio, la presenza di immagini che mostrano i corpi degli interpreti e un formato evidentemente cinematografico; come il secondo ha la capacità di tenere alta la tensione dello spettatore (che in questo caso è anche, e forse soprattutto, ascoltatore) aumentando a dismisura il suo coinvolgimento stimolando ripetutamente la sua fantasia.

Categoria
Gustav Möller Jacob Hauberg Lohmann Jakob Cedergren Jessica Dinnage 85 minuti
Danimarca 2018
Immagine con larghezza massima
Larghezza massima

Blaze

di Eugenia Fattori
Blaze - recensione film ethan hawke

Uno dei grandi interrogativi del cinema americano contemporaneo (specie alla luce del recente successo di due film riusciti ma piuttosto convenzionali come La La Land e A Star Is Born) è come, ma soprattutto se si possano riscrivere almeno in parte le regole obsolete del film musicale, e in particolare del filone musical-sentimentale-intimista spesso intrecciato a doppio filo col biopic. Quello di Ethan Hawke è sicuramente un passo avanti, il tentativo di portare su schermo la musica e la vita di James “Blaze” Foley distanziandosi dal racconto patinato e/o agiografico. Se ne allontana soprattutto perché, nonostante il talento e il fascino che esercita il suo soggetto (in primis sul regista), Blaze è una storia di occasioni mancate, la più grande delle quali è quella che l’artista aveva per raccontare se stesso attraverso la propria arte.

Blaze Foley è una piccola leggenda nella musica folk texana ma non ha praticamente mai registrato nulla delle proprie canzoni, e ha tenuto pochi concerti a cui fosse presente più di una manciata di persone; è lo stereotipo incarnato dell'artista tormentato, ma al contrario della maggior parte di quelli raccontati dai film per lui non esiste lieto fine né consegna ai posteri, c'è solo una fine solitaria e ben poco romantica, e la certezza di sapersi raccontato soltanto dagli altri, dalle diverse voci che animano il film: a raccontare la storia di Blaze troviamo l'ex moglie Sybil Rosen (autrice della biografia Living in The Woods in a Tree: Remembering Blaze Foley, che rappresenta la fonte principale del film), gli amici (il musicista di culto Townes Van Zandt e Zee) e infine il regista stesso, che sul finale offre il suo punto di vista anche attraverso la voce dello stesso Foley, interpretato da uno straordinario Ben Dickey.

Tre voci che raccontano tre storie diverse e tre Blaze diversi: l'uomo innamorato e pieno di sogni che vive in una casa su un albero; il compagno d'arte e di bevute allergico alle convenzioni che si trasforma in aneddoto da rielaborare e tramandare; l'uomo ferito e consapevolmente incapace di vivere una vita normale e mettere a frutto il proprio talento, che sceglie l'isolamento e la povertà per essere libero di sprecare ogni cosa abbandonandosi ai propri demoni.
Grazie alla scelta di molteplici punti di vista, che nell'intrecciarsi restituiscono un quadro umano del protagonista impossibile da sciogliere e sconosciuto prima di tutto a sé stesso (come spesso accade nel caso di uomini che scelgono di esprimere la propria sfera emotiva esclusivamente attraverso la musica), Blaze riesce a evitare la convenzionalità del biopic musicale pur mantenendone intatti gli elementi fondamentali (dramma, amore, tormento emotivo, ambizioni disattese), impostando la storia come una caduta annunciata di cui si cercano le radici e le ragioni riavvolgendone le pagine.

Con uno stile lirico che si posiziona sulla linea di confine tra consuetudine e sperimentazione, tra Hollywood e cinema indipendente, Blaze confeziona un risultato più che soddisfacente in termini di esperienza spettatoriale, capace di toccare tutte le corde emotive importanti senza lasciare l'impressione di aver assistito a un'operazione calcolata. Ethan Hawke si rivela capace di catturare perfettamente l'ineffabilità del talento, forse anche perché sinceramente innamorato del proprio soggetto, oltre che in grado di mettere insieme un cast pressoché perfetto, in cui brillano Alia Shawkat, espressiva e radiante, e il chitarrista Charlie Sexton, una faccia che sembra creata per il cinema nonostante non sia il suo mestiere.

Categoria
Ethan Hawke Ben Dickey Alia Shawkat Josh Hamilton Sam Rockwell Steve Zahn Wyatt Russell Kris Kristofferson 127 minuti
USA 2018
Immagine con larghezza massima
Larghezza massima

American Vandal

di Sergio Sozzo
American Vandal - recensione serie tv netflix

Quando abbiamo deciso che i big data facessero ridere? Se algoritmi, traffici numerici e codici binari reggono la comunicazione e i mercati contemporanei, allora è probabilmente giunto il momento di provare a capire se con le infografiche si possa fare della comicità (vedi Hasan Minhaj). C’è un istante spartiacque in anni recenti, e sono le straordinarie animazioni che chiudono I poliziotti di riserva, la parodia di Adam McKay/Will Ferrell del 2010, tre minuti di torte e istogrammi su Maggie’s Farm versione RATM per spiegare il funzionamento di uno “schema Ponzi”, la truffa finanziaria su cui il film imbastisce la propria demenziale vicenda. Da qui a La grande scommessa, sempre Adam McKay, il passaggio  è breve: l’opera del 2015 è ad oggi il tentativo più ambizioso da parte di un gruppo di autori e interpreti provenienti dal mondo della comicità di costruire una narrazione grottesca a partire da un utilizzo letterale ed estensivo dei dati, delle procedure tecniche, delle statistiche, snocciolate fino allo sfinimento dai personaggi sullo schermo quasi fossimo in una di quelle performance del teatro d’avanguardia che cercano di rendere narrativo un manuale di economia.
Affrontare, con tutta la serietà politica di cui è capace solo la commedia, lo svilimento della narrazione dei nostri tempi a mero traffico di codice è un’operazione lucidissima che mira a rovesciare il senso del flusso costante di informazioni in cui siamo immersi, per incepparlo in maniera definitiva. Un po’ come lavorare su quel canone che i nostri cervelli sono oramai abituati a registrare di sottofondo come l’approccio più diffuso al linguaggio documentaristico in tv. Ovvero, il reportage morboso-sensazionalistico, condito da contrite rievocazioni dei protagonisti e ricostruzioni pittoresche, che impera sui canali tematici spesso d’importazione, nonché in certi vicoli bui e pruriginosi di Netflix, tra Kitty Genovese, Amanda Knox e JonBenet Ramsey. È da qui che parte il geniale sabotaggio ordito da American Vandal, la trollata seriale di Dan Perrault e Tony Yacenda, che aggiorna ai tempi del reportage criminale televisivo della nostra epoca tutti gli stilemi della commedia collegiale più sboccata e scorretta.

Due adolescenti d’America come i sedicenti filmmaker Peter Maldonado e Sam Ecklund, accreditati come autori del mockumentary, padroneggiano il linguaggio delle inchieste crime catodiche davvero come struttura incoscientemente assimilata dal loro immaginario e dalle loro sinapsi, in quanto esposti ad essa praticamente dalla nascita. Il salto concettuale di applicarlo alla propria indagine su chi abbia disegnato 27 enormi peni con lo spray sulle automobili degli insegnanti, deturpate nel parcheggio della loro high school, sembra per Maldonado e Ecklund allora del tutto naturale. L’intuizione decisiva è che oggi chiunque abbia una connessione ad internet è in grado di poter accedere ed analizzare i dati, le prove, i POV, le tracce sparse tra le miriadi di social, chat, mail e messaggi che lasciamo in rete. American Vandal si frammenta così in una selva di schermi, screenshot, stories evanescenti e video privati, alla ricerca del proprio colpevole: un superamento della modalità del cosiddetto desktop thriller alla Profile, Searching, Unfriended.

La prima stagione della serie, datata 2017, è il punto di non ritorno definitivo per la comicità post-user generated content. Se è indubbio uno stato di crisi per i campioni della risata volgare USA (a quando risale l’ultima grande commedia che vi è capitato di vedere?), American Vandal riazzera il campo attraversando indenne le stazioni storiche della via crucis collegiale (il bullo, la cheer leader, i prof bastardi, gli outsider, gli sfigati, la festa alcolica, lo sverginamento ecc) ma reinquadrandole con i mezzi della comicità veicolata e prodotta dal web. Si tratta di un’indicazione forte quanto lo fu SuXbad di Mottola/Apatow/Rogen per la generazione precedente.

La seconda, recente stagione del prodotto Netflix alza il tiro, integrando il successo avuto dalla prima serie sul portale come elemento interno alla narrazione, e andando a toccare il nervo scoperto delle stragi e degli attentati omicidi nelle scuole USA, sostituendo i fucili di Colombine con il lassativo. Confermando così il tritacarne della commedia l’apparato digestivo più urgente d’America. Il risultato è sicuramente meno incendiario del prototipo, ma riesce nel prodigio di ricongiungersi nel finale con il primo degli esperimenti che insegnò alla televisione contemporanea come parlare il linguaggio dei peer network a partire dalle modalità dei video tutorial su youtube. Stiamo parlando di Catfish, la trasmissione di Mtv creata da Nev Schulman e Max Joseph nel 2012, e basata sulle ricerche online per scoprire i profili falsi sui social. American Vandal è a conti fatti l’aggiornamento di quel format all’epoca dello streaming, ma sfrontato e disturbante come ogni teen movie che si rispetti, da Landis a The End of the F***ing World.

Categoria
Dan Perrault Tony Yacenda Tyler Alvarez Griffin Gluck 2 stagioni da 16 episodi
USA 2017-2018
Immagine con larghezza massima
Larghezza massima
Iscriviti a