Aquaman

di Samuel Antichi
Aquaman - recensione film dc

In un Universo cinematografico e immaginifico ormai dominato dai supereroi, la Dc lancia un nuovo personaggio destinato a occupare un ruolo di primo piano nella propria scuderia: Aquaman. Il film ripercorre la storia di Arthur Curry (Jason Momoa), metà umano e metà atlantideo nato da una relazione proibita, figlio di Thomas Curry (Temuera Morrison) guardiano del faro di Amnesty Bay nel Maine, e Atlanna (Nicole Kidman) la regina di Atlantide. Già da bambino Arthur scopre di possedere dei superpoteri, sia capacità subacquee che li permettono di vivere nel mondo sottomarino (respirare sott’acqua, nuotare a velocità supersonica, comunicare telepaticamente con la fauna marina) sia abilità sovraumane su cui può fare affidamento in superficie (forza straordinaria, sensi potenziati e pelle impenetrabile dai colpi di arma da fuoco). Una figura invincibile a metà tra due ambienti, tra due mondi, riluttante a vestire i panni dell’eroe ma pronto a diventare una guida nel momento in cui si tratta di difendere le persone a lui care.

Tocca a James Wan – ormai esperto in saghe cinematografiche, dal genere horror di Saw, The Conjuring e Insidious al blockbuster di Fast & Furious 7il compito di resuscitare il DC Extended Universe (DEU), affossato dai disastrosi Batman v Superman: Dawn of Justice e Justice League, opere che avevano reso palesi le difficoltà per il media franchise di stare al passo dei cugini della Marvel. Il film ripercorre un topos narrativo classico ovvero l’eroe che deve confrontarsi con le proprie origini per riscoprire il suo passato  (ritrovare la madre creduta morta e sconfiggere il fratellastro) in una quest atta a formare i caratteri identitari di un personaggio che deve ancora comprendere le proprie potenzialità e trovare un ruolo nel mondo, sia sottomarino che sulla terraferma. Wan decide di non concentrarsi sulla back story di Aquaman, che viene affrontata in apertura di film e attraverso alcuni episodi rievocati da flashbacks, per dedicarsi meglio all’epicità del racconto, all’azione e all’intrattenimento, chiavi del successo del modello Marvel.  In questo modo il film tralascia alcuno scavo psicologico dei personaggi evitando di gettare luci su dilemmi interiori e conflitti repressi, che più che incupire il tono avevano spesso mancato di efficacia e focus nei precedenti film del DEU. Aquaman è un film fatto a immagine e somiglianza del suo protagonista Jason Momoa, plasmato e modellato sulla sua figura, tra bagnino di Baywatch e Conan il Barbaro (li ha interpretati entrambi), petto nudo, muscoli scolpiti, tamarreide a profusione e spirito spaccone ma dal cuore d’oro. Lontano dall’eroe biondo platino e dal viso pulito e candido dei fumetti, il film opta per una rilettura esotica del personaggio, un classico macho-man bidimensionale di origini hawaiiane; la sua controparte femminile è invece Mera (Amber Heard) figlia di Nereus, re degli Xebel, personaggio indipendente e pragmatico che si discosta dalla classica figura della damsel in distress, dal momento che sarà lei a salvare Aquaman in più di una situazione, configurandosi come compagna da buddy movie o spalla per una screwball comedy piuttosto che principessa da salvare.

Un aspetto molto importante del film, su cui i cinecomics focalizzano spesso la loro attenzione, è assunto dal villain. Oltre al personaggio di Black Manta, pirata terrorista che farà di tutto per portare a termine la propria vendetta e uccidere Aquaman, diretto responsabile della morte del padre, il vero antagonista dell’eroe è Re Orm (Patrick Wilson), fratellastro di Aquaman pronto a conquistare il mondo in superficie come punizione contro l’inquinamento del pianeta causato dall’uomo. Se da una parte il cinecomic è stato visto e analizzato, come del resto tutto il cinema americano, alla luce del trauma post 11 settembre, Aquaman, forse più come sintomo che come vero e proprio motore, getta luce su una nuova declinazione eco-traumatica. Sotto accusa infatti c’è la società civile della terraferma, le cui avidità e bramosia di potere hanno portato danni irreparabili all’ecosistema minacciando il regno sottomarino. Nonostante non sia una dinamica nuova quella della natura che si ribella all’uomo – d’altronde è l’assunto base per il disaster movie – il danno che la società compie attraverso l’inquinamento e il mancato sostentamento delle risorse sostenibili si ritorce qui per mezzo di cataclismi perpetrati da un villain, dal momento che questo è in grado di controllare gli elementi e scatenare la furia dei mari sulle coste Statunitensi, colpite da un disastroso tsunami. L’eco-trauma emerge da un paradosso che contraddistingue la nostra epoca. Se da una parte siamo consapevoli del danno che stiamo facendo all’ecosistema dall’altra non riusciamo ad intervenire concretamente, rassegnandoci al nostro futuro, che era poi l’assunto di base di Tomorrowland di Brad Bird. Ecco che in questo scenario, in cui vengono ancora una volta reiterate le immagini di distruzioni e catastrofi, tanto della superficie quanto del regno sottomarino, Aquaman sembra poter assumere il ruolo di paciere, mediatore tra due ambienti, tra due mondi. Un paladino del regno marino e animale pronto, attraverso il proprio coraggio e spirito di abnegazione, a caricarsi una responsabilità e una missione di cui l’essere umano non vuole ancora prendere azione salvare il mondo da una minaccia incombente più che mai. L’eroe di cui abbiamo bisogno adesso o quello che ci meritiamo?

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James Wan Jason Momoa Amber Heard Willem Dafoe Patrick Wilson Dolph Lundgren Nicole Kidman 143 minuti
USA 2018
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Vice - L'uomo nell'ombra

di Riccardo Bellini
Vice - recensione film mckay

«Ho cominciato con il desiderio di raccontare una storia seria. Lavoravo alla sceneggiatura e dopo alcune settimane finii per rendermi conto che tutte le buone idee, tutte le cose verosimili erano ridicole» disse Kubrick a proposito di Il dottor Stranamore. Spesso la realtà è così tragicamente demenziale che diventa difficile restituirla in modo convincente restando seri. Lo sa bene anche Adam McKay, che con il suo ultimo Vice - L’uomo nell’ombra decide di raccontarci ascesa e apogeo dell’ex vicepresidente americano Dick Cheney (Christian Bale) attraverso una satira spiazzante e dissacratoria, in cui i codici del biopic non solo si trovano irrimediabilmente scardinati ma diventano oggetto stesso di discussione. Del resto, la storia di un ubriacone buono a nulla diventato vice presidente di un perfetto idiota (George W. Bush, alias Sam Rockwell) a capo di una nazione molto potente (gli USA), insieme al quale è riuscito a giustificare agli occhi dell’opinione pubblica una guerra in un Paese innocente (l’Iraq), sembra già di per sé il soggetto di una farsa imbecille.

McKay (Anchorman - La leggenda di Ron Burgundy, Anchorman 2, Fratellastri a 40 anni) attinge a piene mani dal suo repertorio comico, con una varietà di invenzioni al limite dello stordente, mescola i registri e talvolta lascia che la tragedia irrompa improvvisa. C’è certa ironia alla Michael Moore, senz’altro, e il rimando a Fahrenheit 9/11 è fin troppo scontato. Ma c’è soprattutto Sorrentino. Con il regista partenopeo McKay condivide il gusto per la metafora di grana grossa (Bush preso all’amo dal pescatore Cheney in Vice, la pecora che muore di fronte ai programmi Mediaset in Loro 1), la rappresentazione dai toni forti e sovente grotteschi del potere, l’immediatezza di certe associazioni (il giuramento al Quirinale di Berlusconi accompagnato dagli scossoni del terremoto dell’Aquila; gli echi delle devastazioni in Iraq mentre Bush annuncia l’invasione alla tv). Ma soprattutto i due registi condividono la consapevolezza che un film su un uomo di potere non può che vivere di immense zone d’ombra, lacune, fatti indimostrabili. Ecco perché entrambi scartano e sovvertono l’idea del biopic, allontanandosene vertiginosamente fino a denudarne quell’arbitrarietà di fondo da riutilizzare intelligentemente. Se dunque non sapremo mai che cosa si sono detti Cheney e la moglie Lynne (Amy Adams) nella loro intimità domestica in un momento di importanza cruciale, e dal momento che ogni biografia non è che un’invenzione, perché non far parlare i due coniugi in versi shakespeariani di macbethiana memoria?

Vice finisce così con l’essere non solo e non tanto un film su un politico bensì un’opera sul potere stesso, sulla sua opacità, sulla sua distanza da chi – noi spettatori compresi – non vi ha accesso (Il divo, Loro). Certo, se con i due titoli sorrentiniani abbiamo a  che fare con due icone del potere, due divi appunto, e dunque con due film sull’immagine, qui al contrario siamo di fronte a un uomo che agisce esclusivamente nell’ombra, che si mostra pochissimo in pubblico, e di certo non ha né il carisma, né l’arguzia di un Andreotti o di un Berlusconi. Vice resta comunque un’allegoria in cui conta più l’immagine dell’opportunismo dilagante nelle maglie repubblicane dopo il Watergate che la storia di Cheney stesso. Ma è anche una spietata e nerissima attuazione del concetto di self-made man americano – e in questo risulta davvero convincente – per cui il sogno americano si trasforma in incubo nel suo stesso farsi.

Purtroppo, una riflessività più attenta avrebbe senz’altro donato maggior spessore a un’opera che rischia di avvilupparsi in un unico e deliberato – per quanto motivato – attacco su posizioni di per sé condivisibili. Le numerose gag, le diverse trovate comiche rischiano di perdere di efficacia proprio perché non supportate da una vera e profonda voglia di approfondimento. Peccato, perché, limiti a parte, Vice si dimostra un’ottima proposta capace potenzialmente di spiccare il balzo sulla maggior parte dei racconti pseudo politici del suo tempo.

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Adam McKay Christian Bale Amy Adams Steve Carell Sam Rockwell Alison Pill 132 minuti
USA, Gran Bretagna, Spagna, Emirati Arabi Uniti, 2018
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The Romanoffs

di Attilio Palmieri
The Romanoff - recensione serie tv weiner amazon

Mad Men è stata probabilmente la serie più amata dalla critica negli ultimi anni, quella più influente sulla produzione a lei contemporanea, quella in grado di vincere per molti anni di seguito i premi maggiori, proprio in un'epoca in cui la proliferazione dei prodotti rendeva sempre più difficile farlo. L'importanza di questa serie, assieme al lavoro fatto nelle ultime stagioni dei Soprano e alla pubblicazione nel 2017 di un bellissimo romanzo d'esordio (Heather, più di tutto), ha contribuito a fare di Matthew Weiner uno dei più apprezzati autori della contemporaneità, colui al quale un player ambizioso e potente come Amazon si rivolge con la convinzione di strappare il migliore alla concorrenza.
Detto in poche parole, The Romanoffs era la serie più attesa del 2018, quella in cui il grande Autore riceveva un'invidiabile batteria di star da utilizzare in piena libertà, insieme a un budget quasi illimitato. Nonostante una trama fino all'ultimo decisamente misteriosa, la struttura portante della serie è stata subito abbastanza chiara: otto episodi antologici che raccontano con un minutaggio iperdilatato le storie dei discendenti o finti discendenti dell'antica famiglia russa che dà il nome alla serie.

Già a partire da queste informazioni si presentano degli interrogativi abbastanza problematici: quale sarà il risultato di tutta questa libertà? Una durata episodica così espansa, che spesso arriva all'ora e mezza, sarà giustificata da necessità narrative precise, oppure si rivelerà solo un modo per mostrare i muscoli? Per quanto si sia voluto fin da subito e con ogni apertura mentale possibile dare credito allo show di Weiner, anche a partire da aspettative legittimamente molto alte, purtroppo le risposte a queste due domande sono state entrambe deludenti, perché in una forma espressiva come la serialità televisiva la libertà totale non coincide obbligatoriamente con la qualità, e soprattutto la durata dei singoli episodi di The Romanoffs non è mai stata in alcun modo giustificata, apparendo in alcuni casi come l'emblema di un progetto autoreferenziale e ombelicale. Del resto, in un panorama televisivo contraddistinto da innovazioni costanti e nuove voci pronte ad arricchirlo, arrivare con la spinta di elevate aspettative può risultare un'arma a doppio taglio, e infatti The Romanoffs ha deluso subito la critica americana a partire dai due episodi iniziali – ovvero il biglietto da visita della serie – che hanno svelato qualcosa di ben lontano dall'opera groundbreaking che ci si poteva legittimamente attendere: la serie esordisce con The Violet Hour, segmento narrativo ambientato in Francia, fatto di dialoghi raffinati ma anche comuni, una trama abbastanza sconclusionata, e che appare soprattutto un esercizio di stile senza alcun mordente; il secondo è The Royal We, forse il segmento più deludente di tutti, una sorta di satira del privilegio piena di problemi narrativi e con una trama che non va da nessuna parte, spiazzante considerato che a firmarla è l’autore di Mad Men; l’episodio, parte degli screener mostrati in anticipo alla critica americana, ha sicuramente contribuito alla forte reazione negativa delle riviste specializzate.

In compenso, ciò che non è mancato a The Romanoffs è senza dubbio l'imprevedibilità, soprattutto grazie a un format che permette di cambiare episodio dopo episodio presentando un'altalena di generi e qualità. Spicca House of Special Purpose, che vede la presenza di Isabelle Huppert e Christina Hendricks; in questi ottimi novanta minuti si percepisce in maniera decisa la scrittura di Mary Sweeney, fidata collaboratrice di David Lynch che in questo caso ha dato vita a un incubo horror sugli episodi di violenza sul set e sui limiti dell'Arte che ha sprigionato tutta la sua urgenza in occasione delle polemiche dopo la morte di Bertolucci. Expectation – quarto episodio – riduce la durata a un'ora abbondante, tagliando le parti superflue e dando ad Amanda Peet la possibilità di interpretare magistralmente una storia che ricorda molto da vicino il miglior Wood Allen. Il punto più alto della serie arriva però con il settimo episodio, End of the Line, che a partire da una gelida Russia racconta la storia di una coppia alle prese con un tentativo molto particolare di adozione che metterà a dura prova il matrimonio dei protagonisti. Per certi versi sembra il seguito di Private Life di Tamara Jenkins e si presenta forse come l'unico momento in cui Matthew Weiner riesce a dimostrare realmente le proprie qualità, forte anche di interpreti eccezionali tra le quali svetta Kathryn Hahn. Infine il sesto e l'ottavo, Panorama e The One Who Holds Everything, sono episodi che vanno da un inutile viaggio a Città del Messico al limite con l'appropriazione culturale ad un racconto biografico sulla transessualità stritolato da un meccanismo narrativo rigido e formulaico, posizionandosi entrambi su un livello di mediocrità che solo a tratti sfiora la sufficienza e che non dovrebbe avere dimora in un’opera che dichiara(va) ambizione a ogni pie’ sospinto.

Siamo infine al quinto (e ultimo episodio in questa ricognizione) Bright and High Circle, per il quale è impossibile non fare riferimento alle accuse di molestie sessuali ricevute dall’autore – specie considerato il fatto che alla vigilia della programmazione della serie non era da escludere di esser lì per assistere al tentativo da parte di Weiner di rispondere alla cosa attraverso ciò che sa fare meglio: raccontare storie. Sotto questo aspetto il quinto episodio è il più problematico di tutti, quello in cui il creatore di Mad Men sceglie di non sottrarsi e ne approfitta per realizzare un'indimenticabile arrampicata sugli specchi che ha comprensibilmente fatto infuriare la critica americana. Bright and High Circle infatti costruisce un discorso sul garantismo che vorrebbe avere una portata generale ma viene sviluppato invece in maniera abbastanza meschina, a partire da un caso molto specifico che coinvolge un omosessuale all'interno di un contesto omofobico. Sfruttando la difficoltà di un protagonista discriminato e per certi versi trattato con pregiudizio, l'episodio pretende di universalizzare il discorso mettendo in bocca a un personaggio molto diverso (maschio, bianco, di mezza età e privilegiato, praticamente l'alter ego di Weiner) un monologo irricevibile, messo in scena, tra l'altro, come una lezione di vita data a due bambini, che in quel momento incarnano il punto di vista dello spettatore (tanto per mettere in chiaro cosa pensava in quel momento l'autore del proprio pubblico). Le parole di Alex hanno un ruolo essenziale perché danno senso all'intera puntata – rendendo tutta la costruzione narrativa eticamente molto discutibile – e avvolgono di vittimismo un discorso dal carattere intimidatorio, che punta a far fare un passo indietro a tutte le vittime di molestie sessuali perché, secondo lui (e di riflesso secondo Weiner), rovinare la reputazione di un uomo sarebbe il peggiore dei mali possibili. Insomma, per usare una definizione di una bravissima giornalista dell'Atlantic: caccia alle streghe in versione estesa da 90 minuti.

In conclusione, se dovessimo analizzare The Romanoffs nel dettaglio e considerando il valore dei singoli episodi, solo tre su otto ne uscirebbero fuori in maniera davvero positiva. Un dato decisamente deludente. Analizzando invece il progetto complessivo emerge un’organicità ben scarsa e l’assenza di un discorso forte portante che faccia da ragione creativa dietro un investimento simile e una libertà autoriale così elevata. È soprattutto questo il motivo principale per cui The Romanoffs costituisce una delle operazioni più deludenti dell'anno, perché proprio nel momento in cui la TV ha pensato di dare tanti soldi e carta bianca a un autore (ovvero il sogno di quelli che credono che più libertà equivalga a più qualità), il risultato si è rivelato tutt'altro che rivoluzionario, bensì un prodotto ombelicale e irrilevante, che molto difficilmente lascerà traccia nella storia della TV.

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Matthew Weiner Aaron Eckhart Corey Stoll Noah Wyle Christina Hendricks Isabelle Huppert John Slattery Diane Lane Griffin Dunne 1 stagione da 8 episodi
USA 2018
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Il primo moto dell'immobile

di Carmen Albergo
Il primo moto dell'immobile recensione film Sebastiano d'Ayala Valva

Il primo moto dell'immobile di Sebastiano d'Ayala Valva è stato il premio speciale della giuria nella sezione Italiana.doc del 36moTFF, motivato dall' "equilibrio solido e curato" nella ricerca d'un artista enigmatico, nonché per la tenerezza di chi affronta la morte da vicino.

Non v'è dubbio infatti sulla suggestione della composizione di certe inquadrature e dettagli, realizzata dall'autore, pur attraverso soluzioni visive semplici, e forse per questo più efficaci nel dare forma e significanza alla complessità di parole e concetti, sovente più ineffabili che silenti. Un silenzio che non è tacere, ma predisporsi all'ascolto di se stessi e in se stessi.

Sebastiano d'Ayala Valva medesimo è difatti voce narrante del suo documentare ed è allo stesso tempo commento esplicativo della voce narrata, oggetto principale d'indagine, ovvero le registrazioni delle memorie di Giacinto Scelsi, il personaggio e la parabola umana che vuol ricostruire e ripercorrere, meno per scopo divulgativo e dichiaratamente come pretesto per saldare il legame col proprio anziano padre, corpo debilitato, al tramonto della vita, che riposa fianco a fianco alla (pre)figurazione di tronco d'albero abbattuto, riverso e inerte. Sondare, quanto e se, sia possibile e percepibile il transito da questa ad altra forma di vita, dall'esserci l'uno accanto all'altro, all'esserci l'uno nell'altro, in un eterno, che è solo passaggio. E se ciò non fosse, molto più semplicemente, tuffarsi nel loro comune immaginario, àncora di salvezza creativa. E dunque, nascita nuova.

L'esposizione prende le mosse da un ricordo d'infanzia dell'autore, il turbamento della prima volta in cui suo padre gli fece ascoltare la musica inconsueta e ostica del compositore Giacinto Scelsi, loro lontano parente. Musica inquietante che suscitò in lui bambino la stessa avversione che ha accompagnato, fatte salve affini eccezioni, tutta la vita musicale di Scelsi. Egli stesso non fu a suo dire un artista-musicista (per lui una degradazione pari a dirsi artigiano, fabbricante senza spiritualità) bensì un medium delle sonorità divine induiste e in quanto tale mai si dichiarò autore delle composizioni manifestatesi tramite le sue mani e le sue intenzioni. Egli imparò a vivere come assenza corporea (solitario, non presenziava ad eventi e non si lasciava mai fotografare, così pure il documentario stesso non ne ricerca l'immagine ma si rimette a giochi d'ombre proiettate sul passato) egli era presenza sonora, genio–strumento disponibile e sensibile all'elettiva ispirazione creativa dell'universo, svincolato dal componimento orizzontale melodico e apollineo confortante, era al contrario proteso alla vertigine della distorsione roboante e magniloquente di una sola nota, alla eco delle profondità viscerali, al dionisiaco primigenio, alle forze del creato, che hanno nel suono per l'appunto il primo moto dell'immobile (quel medesimo "In principio era il Verbo"... o vibrazione). "Scelsi era talmente libero da sembrare matto", così bene lo definisce una delle musiciste, tra gli ultimi e pochissimi suoi collaboratori esecutori, che il regista incontra e intervista per carpire le fascinazioni e le emozioni che Scelsi ha lasciato dietro di sé, segnando indelebilmente non solo i suoi adepti, ma anche il suo autista, che scettico ma speranzoso crede alle parole del nobiluomo quando gli confidò che si sarebbe reincarnato in una maestosa palma.

Così sotto lo sguardo di Sebastiano, il misticismo va a confinare con la cinematica, teoria che studia le forme create dal moto oscillatorio delle onde sonore e le intonazioni gravi e tetre divengono colonna sonora di una sorta di arte ipnotica, quasi un fantomatico cinema Dadaista. Se la storia della musica colta per orchestra e concerto ha sempre guardato con sospetto agli scritti scelsiani, il cinema che oggi gli dedica una pagina probabilmente avrebbe (e potrebbe ancora) meglio apprezzare questa produzione "aliena", non tanto in performance visuali e video arte, quanto proprio nel genere sci-fi, che il corpus scelsiano con le sue gradazioni atonali ricorda d'impatto.

L'intuizione non nasce neppure da questa assonanza spicciola, quanto dal simbolo che identifica l'onda sonora scelsiana, un cerchio bianco dischiuso, che riporta alla mente la scrittura semasiografica al centro del film Arrival (2016) di Denis Villeneuve. La scrittura, che la sceneggiatura vuole coniata da una linguista, proprio per comprendere il messaggio di esseri superiori discesi sulla terra, comportava le estreme difficoltà e le insidie della decodificazione, della traduzione e del fraintendimento, tanto da paventare una guerra planetaria. Ecco perché per vie poi magari non del tutto traverse, la stravaganza di Giacinto Scelsi appare in definitiva, e come lo stesso regista conclude, il monito di una disposizione d'umiltà verso la vita nel suo respiro più ampio, che è ciclo di momenti, coincidenze di inizi e fine, incarnatosi ogni volta in arti e menti illuminate poi davvero mai comprese dai loro pari (altrimenti tali non sarebbero) sempre sovversivi per il tempo storico, vittime della paura dell'ignoto, riscoperte dei posteri. La storia delle arti ne è piena di questi passaggi "di passaggio".

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Sebastiano d'Ayala Valva Sebastiano d'Ayala Valva Franco d'Ayala Valva Michiko Hirayama 80 minuti
Francia, Italia 2018
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Eighth Grade

di Veronica Vituzzi
eighth grade - recensione film

Essere te stesso può essere difficile, afferma Kayla in uno dei video del suo canale Youtube. Anche se è solo una ragazzina, in procinto di andare al liceo, sa bene di cosa parla: a scuola il suo carattere silenzioso la emargina dagli altri compagni, non sa farsi notare e viene ignorata da tutti. Sembra la trama di un film già visto e in effetti Eighth Grade racconta una storia vista mille volte sul grande schermo, provando però a coglierne nuovi aspetti. Se Kayla cerca faticosamente di farsi accettare dai suoi coetanei indossando una maschera più appetibile, anche suo padre, al tempo della scuola, è stato un giovane anonimo e poco considerato: segno che negli ultimi decenni ogni generazione di giovani ha dovuto confrontarsi con le ansie e gli smarrimenti di un’età di metamorfosi. L’unica differenza, di non poco conto, è che la figlia può ora fingere su Internet, tramite selfie e video in cui appare felice, sicura e ben truccata, una serenità che non prova affatto.

È banale uso comune, per chi è ormai cresciuto, mostrare preoccupazione e scetticismo verso i più giovani: chissà perché paiono sempre più incolti, maleducati e stupidi di quel che eravamo noi alla loro età. È però vero che sarebbe da ciechi ignorare la particolare peculiarità dei nati nei primi anni del Duemila, sottoposti a un’evoluzione tecnologica e sociale di portata immensa e repentina.  Essere se stessi diventa oggi una questione raddoppiata, perché la costruzione di un’identità da inserire nella società va affiancata alla creazione di un’identità digitale sui social network. Poiché sta accadendo proprio in questi anni, è ancora difficile valutarne l’impatto mentale sul senso adolescenziale della percezione della realtà. Abituati a scorrere sul telefono ogni giorno un flusso infinito di informazioni e immagini frammentate, frasi banali espresse con un linguaggio semplificato, i giovani spesso rivelano una drammatica soglia di attenzione, benché abbiano già interiorizzato l’esigenza di essere in posa e sembrare felici, se non nella vita reale, almeno su Internet.

 Non che gli adulti siano più svegli e intelligenti; al massimo sono solo neurologicamente più maturi. Il padre di Kayla non manca di possedere un tablet, e malgrado deplori la scarsa attenzione della figlia alle sue parole non ne riconosce il latente disagio e la crede popolare e felice come lui non aveva saputo essere da ragazzino. L’abitudine a filtrare e rielaborare la realtà tramite lo schermo di cellulari e computer sembra rendere piatto e semplice lo stesso modo di interpretare le cose: Kayla, benché vittima di quel pregiudizio adolescenziale che considera degno di interesse chi sa meglio darsi un tono, lo perpetra essa stessa, disdegnando altri “sfigati” come lei per cercare l’attenzione di compagni che hanno saputo crearsi un’immagine più popolare. Certo, l’adolescenza è stata anche in passato sinonimo di immaturità e del desiderio di omologarsi abdicando alla propria autenticità, ma Eighth Grade sottolinea come a riguardo Internet abbia ora un ruolo amplificatore che può deformare il modo in cui i giovani percepiscono se stessi e gli altri. Soprattutto nel sesso. Nell’adolescenza l’appetibilità sessuale è una delle più potenti monete di scambio per acquisire successo con le persone, e applicata ai moderni mezzi tecnologici facilita enormemente l’esposizione degli individui in forma di immagini e video erotici. Incapace di sostenere una conversazione normale col ragazzo per cui ha una cotta, Kayla cerca di accendere il suo interesse parlando delle foto di lei nuda che tiene sul cellulare; questa eccessiva disponibilità, dovuta a nient’altro che una profonda insicurezza, viene facilmente fraintesa e sembra ovvio – e comodo – per molti pensare che l’esibizione di disinvoltura corrisponda a una reale consapevolezza sessuale.

Il film di Bo Bornham cresce di tono drammatico insieme allo smarrimento della protagonista; poi, dopo un’ultima tesa emozione, si scioglie nella sua dolceamara accettazione di sé e della propria solitudine. Bisogna rassegnarsi alla possibilità che l’adolescenza sia una battaglia dolorosa e irta di sconfitte dove si sotterrano i propri sogni infantili, ma ciò non significa che non se ne possano sognare altri. Eighth Grade si conclude in modo ambiguo, appiattendosi sulla formula di uno slogan che sembra una frasetta motivazionale da pubblicare su Instagram con accanto una foto patinata, ma lascia ai margini un senso più ampio di inquietudine per una generazione di cui non sappiamo immaginare il futuro.

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Bo Burnham Emily Robinson Josh Hamilton Elsie Fisher 94 minuti
USA 2018
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Benvenuti a Marwen

di Samuele Sestieri
BENVENUTIAMARWEN

La paura più grande, a Marwen come nel mondo vero, è quella di rimanere soli. Che siano orfani o conigli, naufraghi o bambole, i personaggi di Zemeckis sono alla perenne ricerca di un contact che li faccia sentire parte di qualcosa. L’intero dramma di Benvenuti a Marwen affonda nel terrore della solitudine, nell’altro come pericolo imminente o fantasia da idealizzare e poi sublimare.

Mark Hogancamp è ubriaco d’amore – come Forrest Gump - ma accecato dalla paura – come Eddie Valiant. Il suo alter-ego è un pupazzo, Hogie, eroico pilota di guerra americano animato dalla motion capture tanto cara al regista. Anche lui cade dal cielo, alla maniera di tanti personaggi di Zemeckis. Hogie ha una spiccata attrazione per le scarpe femminili, capaci di catturare l’essenza delle donne. Appena scampato alla caduta, viene sorpreso da alcuni soldati nazisti. “Non parlo nazista” dirà lui, prima di essere deriso e condannato a morte certa. Hogie però ha un asso nella manica, le sue pupe: un gruppo di bellissime bambole guerrigliere che sterminano i nazisti di turno. Nazisti zombie, per giunta. Poco dopo scopriamo che è Mark Hogancamp, il vero Hogie, a mettere in scena i pupazzi per fotografarli. Nel suo guardino ha perfino creato Marwen, un villaggio in miniatura ispirato a un paesino belga.

Sembrerebbe l’ennesimo film sul filo sottile che separa la realtà dalla finzione se non fosse che a generare Marwen è stato un trauma. In principio, infatti, un pestaggio di natura omofoba da parte di un gruppo di filonazisti che dà vita all’amnesia del protagonista. I calci e i pugni azzerano i suoi ricordi, la memoria scivola via per sempre. Mark una volta disegnava, ora non riesce neppure più a scrivere il suo nome.

Con senso del dolore sincero e mai edulcorato, Zemeckis mette in scena la perdita della memoria e degli affetti. Il trauma è una rimozione forzata dell’identità, una schiavitù psicologica che frena il desiderio e la vita. Mark sostituisce il suo passato rimosso con quello storico della seconda guerra mondiale. Marwen non è infatti l’isola felice, la possibilità d’evasione nel mondo dei sogni, ma un villaggio intriso di sevizie e violenze che reiterano ossessivamente la terribile scena madre della sua vita. Solo le donne sono capaci di salvare Mark dagli abissi cui è stato condannato ("Non lo sai che le donne salveranno il mondo?").

In questo senso Benvenuti a Marwen mette in scena un dolente processo psicoanalitico dove la guerra è prima di tutto contro se stessi e le proprie manie: la dipendenza da oppiacei prende le sembianze dell’affascinante strega Dejah Thoris, il sadismo dei nazisti riflette la violenza degli aggressori. Come Flight, Benvenuti a Marwen è un film sullo stress post-traumatico, sul dolore come propellente esistenziale. Mark non può fare a meno della sofferenza quale parte integrante di un processo terapeutico. L’intero mondo di Marwen, del resto, è un precisa messa in abisso della mente di Mark, costantemente sul punto di vacillare.

Ma il desiderio, alla fine, vince la paura.

Crisi di panico che si trasformano in raffiche di proiettili, incubi rossastri, saturi e deformi che sembrano usciti da fantasie lynchiane. E cosa dire della nuova, affascinante vicina di casa subito trasformata nella bambola più bella? Ancora una volta Zemeckis lavora su un incredibile immaginario di ferite e cicatrici con l’afflato umanista che lo rende – forse insieme solo a Spielberg e Eastwood – uno dei più grandi cinenarratori americani contemporanei. Uno dei pochi in grado di unire lo sguardo classico, debitore di Capra e del cinema hollywoodiano che fu, all’anima sperimentale di chi indaga corpi elastici e cartoonizzati come doppi dei nostri desideri e delle nostre paure più recondite.

Ormai il cinema di Zemeckis è così essenziale da non aver più bisogno di nulla: pensate alla figura della vicina di casa. L’enorme dolore di una madre s’insinua subito nei nostri occhi e nel nostro cuore: nessuna parola, solo due o tre fotografie del figlio perduto. Basta un attimo e abbiamo già la morte nel cuore. Ma poi uno sguardo – quello finale che Mark rivolge alla dolce Roberta – è capace di riaccendere il mondo intero.

Peccato che la critica americana scambi la fede incrollabile nei legami umani in retorica pomposa e stucchevole. Risultato? Ennesimo flop al botteghino ed ennesimo film bellissimo di un regista che non sbaglia un colpo. Speriamo che non lo fermino mai: intanto, anno dopo anno, noi ritorniamo al futuro, come fosse la prima volta.

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Robert Zemeckis Steve Carell Leslie Mann Diane Kruger 116 minuti
USA, 2018
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Spider-Man - Un nuovo universo

di Leonardo Strano
Spider-Man - Un nuovo universo recensione film

Spider-Man è forse l'eroe più fisico della Marvel. Non è solo un personaggio che possiede un corpo alterato nei geni e potenziato nelle abilità, ma è anche quello che sviluppa tutte le evoluzioni della sua azione da superuomo flettendo il corpo nello spazio. L’Uomo Ragno è possessore del gesto semiotico del salto: che sia spinta oscillatoria nella cornice scenica di una metropoli, acrobazia circense o atto di interazione con il palco dell’aria, egli è agente di questa abilità, corpo superoistico per eccellenza. La sua storia, anche nella controparte civile di Peter Parker, è legata non a caso allo scarto della pubertà e alla scoperta dell'adolescenza, dei cambiamenti del fisico. Ogni sua origin story si basa su una parabola di crescita che sovrappone l'evoluzione del corpo alla modifica della psicologia, come convenzionalmente conviene ai racconti di formazione. È questo il primo nucleo estetico ed etico della storia di Spiderman, nucleo che questo Spider-Man - Un nuovo universo comprende, accoglie ed espande con molta più agilità e rigore interpretativo rispetto ai recenti adattamenti cinematografici.

Solo Sam Raimi, nella sua trilogia sul personaggio, era stato in grado di restituire visivamente l’importanza del gesto del supereroe, inventandosi una frustata registica che esplodesse di fronte agli spettatori - il lancio con la ragnatela tra i grattacieli che inaugura in qualche modo l’era dei cinecomic - per trasferire attraverso l'arte in movimento del cinema la potenza fisica che dai fumetti poteva essere intesa ma non completamente vissuta. Nei successivi capitoli, tra alti e bassi qualitativi, la corporeità del gesto ha ceduto il passo a molti altri elementi - dalla gommosità del digitale in cui ogni movimento è elastico che mai si strappa, alla comicità a circuito chiuso a favore di vari target - ignorando la tragicità corporea della storia identitaria di Peter. Questo film di animazione (diretto da Persichetti, Ramsey e Rothman e scritto da Lord e Miller), complesso e a un tempo semplice, ridimensiona le precedenti riduzioni cinematografiche agguantando il precipitato concettuale della tradizione semiotica del racconto di Stan Lee e Steve Dikto e mettendoci sopra un accento folle e imprendibile, che è risultato di grandi ragionamenti e prova di una grande capacità espressiva.

La storia non è solo quella del protagonista Miles Morales – ragazzo afroamericano in preda alla giostra liceale con poche certezze e molte goffaggini, morso da un ragno radioattivo e quindi destinato alle ragnatele – ma anche quella di molti altri Spider-Man provenienti da differenti universi: è il racconto delle origini e la sfida al cattivo nel tempo dei mondi paralleli e dei paradossi spaziotemporali, in cui si mischiano realtà differenti, stili di animazione eterogenei, personalità distinte e punti di vista tra loro lontani. È una delle intuizioni del lavoro dei tre registi: moltiplicare l’identità del supereroe in più versioni, in più corpi, grazie a una storia dai presupposti fantascientifici in grado di rifrangere e moltiplicare le complessità del personaggio. Il complessivo arco narrativo che ne emerge riesce ad indagare le difficoltà della crescita nel mondo, le tragedie della vita, il cammino identitario e il bisogno di uno scopo simbolico, attraverso però una forma inedita e creativamente audace che prende strade nuove.

Livellando il racconto su una tecnica di animazione mai vista – che la Sony sta cercando di brevettare –, il film non solo si esalta ma si solleva di peso, raggiungendo lo stato dell’arte per quanto riguarda personaggio e tecnica. Una giustapposizione di computer grafica, animazione a mano libera, grafica dei fumetti e elementi della street art capace non solo di orchestrare una superficie visiva di profondità stordente (fatta di linguaggi differenti e coerenti nell’insieme) ma anche di intessere un ritmo visuale abbastanza vicino alla tradizione letteraria da riposizionare i contenuti sul piedistallo, spostando l’attenzione sulle caratteristiche del corpo e sulle varie forme di fisicità che sono proprie del supereroe, sulla storia delle sue articolazioni, sulla geometria dei suoi muscoli e delle sue volontà.

Il lavoro animato aderisce alla pupilla come una lente straniante che amplifica i contenuti della storia e dona nuova energia a topoi sfiancati dalla ripetizione dei cinecomic, riconoscendo nel linguaggio grammaticale del fumetto una vasca in cui gettarsi per cogliere nuove forme espressive. Il film è una grande vignetta liquida che si offre spontanea, comica, veloce, in cui anche la grande quantità di riferimenti, organizzati con maestria, si allunga senza forzature e senza occhiolini di troppo. Tutto al film riesce in maniera sincera e assistervi è un’esperienza che vivifica e in qualche modo energizza e fa sentire bene, in parte grazie alla bellezza archetipica della storia di formazione e in parte grazie alla potenza della forma che aggrega temi musicali e immagini per continue folgorazioni in crescendo. Riuscendo a superare per certi versi anche Raimi, che da iniziatore aveva tematizzato il salto e il gesto atletico (straniante e assieme sublime per lo spettatore affascinato e inerme), grazie a un racconto che è nella sua interezza un movimento all’insù, un’espressione organica dell’identità di Spider-Man e dei supereroi in senso lato.

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Bob Persichetti Rodney Rothman Peter Ramsey 117 min
USA 2018
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Le terrificanti avventure di Sabrina

di Eugenia Fattori
Sabrina – recensione serie tv netflix Berlanti

Da sempre i generi cinematografici sono stati lo strumento, hollywoodiano e non, per dividere il pubblico in fasce abbastanza precise, ma da tempo queste tassonomie non bastano più perché ad esse va necessariamente aggiunta, in maniera ancora più prepotente nella serialità che nel cinema, l'età degli spettatori, da leggersi come una tra le direttrici principali nella creazione di sotto-generi.
Il target generazionale diventa così uno degli obiettivi primari per l'ibridazione dei generi e il teen horror si è dimostrato ormai da parecchi anni un sottogenere vincente nella serialità; si pensi ad esempio a show longevi e di successo (pur con una qualità decisamente bassa per gli standard attuali) come The Vampire Diaries o Teen Wolf: prodotti che hanno sfruttato il successo di Twilight sul grande schermo per mescolare temi classici dell'horror come il lupo mannaro e il vampiro con la narrazione glamour delle serie teen generaliste e la fanfiction. Non è quindi un caso che parte della diversificazione di Netflix, puntando sui teenager come pubblico da coltivare, si realizzi attraverso Le terrificanti avventure di Sabrina.

La serie è un esempio perfetto dell'ibridazione contemporanea dei generi, dei prodotti e dei pubblici: è al tempo stesso la rievocazione (ma non un remake) di un prodotto di culto dell'ABC, Sabrina, vita da strega, andato in onda dal 1996 al 2003; l'adattamento di una versione fumettistica in veste dark del personaggio stesso di Sabrina, edito nel 2014; un ampliamento dell'universo televisivo della Archie Comics – la stessa casa editrice creatrice di Riverdale, da cui è stata tratta una serie altrettanto di successo della CW – e la serie con cui il teen horror viene ufficialmente promosso ai toni, ai budget e alle prestazioni attoriali e registiche del prestige drama.

Prodotta da Greg Berlanti e Roberto Aguirre-Sacasa (anche direttore della Archie Comics), Le terrificanti avventure di Sabrina ha il budget di un prodotto prestigioso per adulti ma si rivolge a un pubblico misto, puntando sul racconto di formazione in chiave horror e sulla sua declinazione al femminile, nonché su una giovane diva come Kiernan Shipka (la Sally Draper di Mad Men), per raccontare la vita di Sabrina Spellman, una ragazza metà strega e metà umana che vive in un mondo scisso tra la sua vita di ragazzina normale e quella da giovane strega che ha di fronte un apprendistato nient'affatto semplice, immersa al tempo stesso nella quotidianità di una cittadina americana e in un universo orrorifico originale ma anche citazionista, che unisce l’approccio formativo alla Harry Potter con la passione per i freak e la diversità della famiglia Addams e del primo Tim Burton.

Sabrina è un'anti-eroina intelligente e brillante, che quindi finisce come molti anti-eroi per essere preda della propria sete di potere, ma il gender swap e la collocazione generazionale contribuiscono a rendere interessante e in parte rivoluzionario un racconto che poggia le proprie basi su una struttura molto convenzionale da bildungsroman e che si prende moltissimo tempo per introdurre non solo l'universo di riferimento ma la sua stessa protagonista.
Da questi punti di vista Le terrificanti avventure di Sabrina paga il pegno al proprio pubblico ideale di riferimento mantenendo spesso un tono molto esplicativo e quasi didattico, ma affianca a questa semplicità dei notevoli picchi nella scrittura dei personaggi di contorno (le due zie Zelda e Hilda sono costruite con grande precisione e con sprazzi di originalità, e il personaggio di Prudence, nemesi di Sabrina, funziona spesso meglio della protagonista stessa) e una grande attenzione alla costruzione della tensione e dell'atmosfera.

Sebbene a fine prima stagione si abbia la sensazione di aver assistito a una lunga introduzione, e l'episodio di Natale non abbia contribuito sensibilmente a fugare quest'impressione, l'attento world bulding e l'attenzione verso temi molto contemporanei come l'identità di genere contribuiscono a collocare la serie su un gradino piuttosto alto rispetto alla maggioranza dei prodotti teen, ibridati o meno che siano con altri generi, e stabilisce un ottimo presupposto creativo per una seconda stagione che avrà la solidità e lo spazio per osare di più.

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Roberto Aguirre-Sacasa Kiernan Shipka Ross Lynch Lucy Davis Michelle Gomez Miranda Otto 1 stagione da 10 episodi + 1 speciale
USA 2018 - in corso
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Cold War

di Samuel Antichi
Cold War Pawlikowski  - recensione film

Polonia, 1949. Wiktor (Tomasz Kot) e Irena, etnomusicologi a capo della compagnia Mazurek, viaggiano nelle campagne e nei piccoli villaggi del Paese per cercare ciò che resta della tradizione musicale folkloristica, volti, corpi, voci che possano far riscoprire una realtà in via d’estinzione. Nonostante l’intento primario promosso dalla scuola e dai due insegnati sia in linea con una ricerca etnologica atta a preservare e restaurare la tradizione popolare, a seguito del considerevole successo, la compagnia viene ingaggiata dal regime comunista e diventa strumento di propaganda. La ricerca e la riscoperta delle antiche origini e radici identitarie della Polonia si infrange in una fitta rete di negoziazioni e compromessi, che portano allo stravolgimento del repertorio musicale con l’inserimento di canzoni sulla riforma agraria o odi a Stalin e al regime comunista. Questo clima oppressivo e ricattatorio, fa da sfondo, ma anche da motore, alla storia d’amore tra Wiktor e una delle allieve della scuola, Zula (Joanna Kulig).

Dopo il successo di Ida, Premio Oscar nel 2015 per il Miglior Film Straniero, Paweł Pawlikowski torna con Cold War nel proprio paese d’origine (lasciato al tempo per conseguire gli studi in Inghilterra) e racconta una storia d’amore impossibile tra due anime tormentate e dislocate. Le vicende dei due protagonisti, come afferma lo stesso regista, si ispirerebbero, seppur a grandi linee, a quelle dei propri genitori, scomparsi prima del crollo del muro nel 1989. «Erano tutte e due persone forti e meravigliose, ma come coppia un disastro totale», ricorda lo stesso Pawlikowski. La narrazione abbraccia un arco temporale di quindici anni, uno svolgimento sequenziale in cui vengono colte delle istantanee, momenti fugaci, incontri/scontri di questa coppia che non riesce a trovare stabilità in terra straniera. Wiktor ormai è diventato un apolide, fuggito dal proprio Paese  oltrepassando la cortina di ferro, mentre Zula è rimasta intrappolata nelle maglie del blocco sovietico. Pawlikowski rigetta le grandi narrazioni storiche per concentrarsi invece sui mutamenti personali e privati, in stretta interconnessione, tuttavia, con quelli collettivi e pubblici.

La musica assume un ruolo centrale nel film, cogliendo i cambiamenti e le trasformazioni sociali, e assumendo il ruolo di mediatore della memoria, strumento atto a contribuire alla definizione e ridefinizione dei caratteri identitari, dell’immaginario collettivo e della memoria nazionale e culturale – come il cinema, una forma di riscrittura storica e mnemonica. La liturgia del regime provvede alla distruzione, alla manipolazione e alla falsificazione dell’autenticità della memoria culturale.

Come per il suo film precedente il regista adotta il formato 1:1.33 (Academy format) comprimendo l’azione in uno spazio molto ristretto, avvicinando le figure e dando notevole importanza al fuori campo. Tuttavia, a differenza di Ida, Pawlikowski non ricorre a piani sequenza contemplativi con inquadrature fisse ma la macchina da presa viene trasportata dal virtuosismo e dall’energia della musica e dalla protagonista del film. La dialettica tra campo e fuori campo si evince specialmente a livello sonoro, la musica scandisce i momenti di sviluppo narrativi e di contaminazione culturale, dal folklore delle campagne in Polonia al jazz, dal rock dei locali Parigini alla canzone italiana con 24mila baci.

La contingenza storica è comunque presente, tra costruzione e smantellamento, lo spazio suburbano diventa paesaggio fisico, sociale e psicologico riflettendo la crisi dei valori riguardo le relazioni personali di due amanti persi a vagabondare. La memoria personale è anche la memoria del luogo, macerie e rovine del tempo passato, lasciti della tempesta del progresso che confina i protagonisti in una condizione di isolamento. L’erosione e la perdita del senso di appartenenza e identità ad un particolare luogo, così come il sentimento di pericolo e preoccupazione (desolazione psicologica) risulta evidente nella scena finale, dove in una chiesa ormai distrutta dal fuoco della guerra la coppia celebra il proprio (impossibile) amore. Sempre in movimento fuori e dentro l’inquadratura alla ricerca della vista migliore sulla natura delle cose.

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Pawel Pawlikowski Joanna Kulig Tomasz Kot 85 minuti
Polonia 2018
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Lontano da qui

di Veronica Vituzzi
Lontano da qui - recensione film colangelo

Lisa (Maggie Gyllenhaal) è una maestra d’asilo. Lisa ama la poesia, segue un corso di scrittura poetica, cerca di mantenersi ispirata per comporre versi che possano essere apprezzati dai compagni di classe e dal suo insegnante (Gael Garcia Bernal). Un giorno scopre che uno dei suoi allievi, Jimmy, sa comporre spontaneamente brevi poesie di profondità stupefacente per un bambino così piccolo. Colpita dal suo talento, Lisa sente l’urgenza di svilupparlo e proteggerlo dal mondo circostante, indifferente o preoccupato per un’abilità che considera invalidante. In una società che celebra l’impoverimento del linguaggio e della fantasia, incarnata dai figli col viso incollato ai propri cellulari, non c’è orecchio per la poesia.

Diretto da Sara Colangelo, Lontano da qui è il remake di The Kindergarten Teacher, film israeliano del 2014, e affronta due temi tanto celebrati nella forma quanto negletti nella pratica. Il nostro immaginario culturale assegna un valore importante ai concetti di poesia e infanzia: entrambe servono a mantenere uno spazio di innocenza spirituale, uno sguardo non irrigidito o schematizzato sulla realtà dove ci si lascia andare al flusso delle immagini senza pregiudizi. Il mondo è sempre cosa nuova per i poeti e i bambini, ogni oggetto deve essere nominato per la prima volta, le parole non sono ancora consumate dall’abitudine.
Questa dimensione del vivere è affine al carattere di Lisa, che persegue un’esistenza più intensa dove le parole creano esperienze emotive e le immagini stimolano il linguaggio. Ma il mondo va da un’altra parte. Il dono di Jimmy però è troppo prezioso per accettare di vederlo soffocato, pertanto la donna si dedica prima a lezioni private e non richieste di “apertura mentale” verso la realtà, forzando lo sguardo del bambino a cercare immagini inedite del mondo; poi, in una progressiva crociata contro l’altrui disinteresse, lo sequestra e lo porta a recitare le proprie poesie davanti a un pubblico adulto.

È interessante il fatto che Lontano da qui non solo mantenga il carattere urtante e morboso della sua protagonista così com’era descritta nella versione originale, ma che addirittura lo esasperi. Lisa è fastidiosa nel ricercare continuamente il bambino, e ridicola nella sua pretesa di infliggere lezioni di poesia al bambino quando nei fatti è lui quello capace di comporre versi significativi; la sua visione poetica si fonda su un concetto di bellezza piuttosto scontato. Ciò nonostante le persone che la circondano sanno essere ben più feroci nella loro noncuranza. Nella società del piacere immediato, dove è incessante la ricerca di nuove consolazioni per le proprie miserie, un bambino che parli di Dio e della morte è individuo insensato che si condanna a una vita di infelicità; giacché dedicarsi a dipanare il filo complesso delle cose richiede un sistema di pensiero talvolta doloroso per chi lo adopera. È dunque preferibile un linguaggio semplificato, che restringa le maglie della mente allorché non fuoriescano dettagli disorientanti.  Il padre di Jimmy lo spiega bene a Lisa: non vuole che il figlio diventi una di quelle persone che combinano poco nella vita.

Lontano da qui si mantiene all’altezza della complessità dei suoi temi, evita i facili stereotipi e indugia nello sfumare i personaggi senza assegnare ruoli positivi o negativi. Lisa ricerca nella sua vita e nelle persone un’intensità ideale e poco definita, e il suo scarso talento artistico è in fondo figlio di una parziale miopia spirituale. Forse è lei a non vedere davvero i figli che considera inaccessibili e vuoti; forse è solo una grande appassionata d’arte che vuol sentir riconosciuta la propria sensibilità. Jimmy invece non cerca approvazione, non reagisce con particolare entusiasmo alle lezioni poetiche della maestra, ma la segue pacatamente nelle sue iniziative sempre più esagerate senza esprimere giudizi. Difficile capire se egli sia più vittima di una società distratta o di un’autoproclamatesi eroina che vuol crescere un’anima infantile come un fiore in serra. Certo è che il film della Colangelo riconferma la poesia come ideale paradossale entro un mondo che insegue la bellezza ma non vuole confrontarsi con le responsabilità che questa pretende. Un verso può commuovere se possiede il sapore disarmante di ciò che è antico ma inedito per chi lo legge: bisogna saper essere vulnerabili per accettare senza difese le immagini che la vita ci offre.

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Sara Colangelo Maggie Gyllenhaal Parker Sevak Gael García Bernal Anna Baryshnikov 96 minuti
USA 2018
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