Atlas

di Eugenia Fattori
atlas - recensione film David Nawrath

Rainer Bock è un attore dal talento impossibile da ignorare, che non a caso è entrato quest'anno nel prestigioso (e dal livello attoriale difficile da eguagliare) cast di Better Call Saul. Ed è su Bock, sulla sua recitazione creata solo con gli occhi e la sua faccia comune segnata dalla vita, che si basa quasi per intero il valore di Atlas, primo lungometraggio di David NawrathIn bilico tra noir e affresco sociale, il film ha anche potentissimi echi narrativi di tragedia greca e come ogni tragedia che si rispetti pone la famiglia al proprio centro, i padri e i figli, il peso che i primi imprimono sui secondi e la tara sociale di una mascolinità che ingabbia, che si ripresenta indesiderata ogni volta che si cerca di scacciarla e che condiziona ogni azione futura, di uomo in uomo.

Al centro della vicenda c'è Walter, traslocatore ormai anziano dotato di una straordinaria forza fisica, che però ormai lo sta abbandonando, uomo solo dalla vita monacale e dalle pochissime parole che finisce invischiato suo malgrado in una storia di sfruttamento immobiliare, riciclaggio di denaro e gentrification. Grazie a questa situazione riemergerà un passato da cui Walter è stato allontanato (o ha voluto consapevolmente allontanarsi, o forse entrambe le cose) e che gli offre ora una seconda occasione di “essere uomo” e rimediare ai propri errori.

In apparenza perfettamente inserito in un ambiente che consente uno scarsissimo margine di umanità, e che sembra per questo il guscio perfetto per proteggerlo, Walter nel corso del film prende vita a poco a poco nella potenza della performance di Bock: i gesti ripetitivi e rassegnati nascondono una carica di energia repressa che quasi letteralmente traspare dallo sguardo dell'attore, un'energia ferale ed empatica insieme che si esprime attraverso silenzi e gesti improvvisi.
L'andamento del film si regge sulle spalle di questa performance, attorno alla quale viene a crearsi una tensione crescente all’interno di una struttura solidissima che trasforma in thriller la malinconia di una quotidianità disperata, e che porta la tragedia ad un inaspettato lieto fine, in cui si evoca la possibilità della rottura di un ciclo tossico di violenza e impotenza, affidando la risoluzione alla famiglia stessa, che da maledizione diventa ancora di salvezza capace di redimere e perdonare.

Un ottimo esordio, che nonostante la debolezza del cast che circonda Bock (con la notevole eccezione di Thorsten Merten), non sbaglia un dialogo e ci regala un'ottima variazione sul tema del drama contemporaneo.

 

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David Nawrath Rainer Brock Albrecht Schuch Thorsten Merten 99 minuti
Germania 2018
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Dovlatov - I libri invisibili

di Samuele Sestieri
DOVLATOV

Nel mettere in scena la storia di Sergei Dovlatov, uno degli scrittori russi più importanti del ventesimo secolo ostracizzato dalla censura sovietica, Aleksej German Jr. allestisce tutta una serie di riflessi. Dovlatov è anzitutto un film sulla scrittura: il vero scrittore è fisiologicamente inattuale, non converge mai con la propria epoca. Dubita di se stesso e del mondo che lo circonda, abita la crisi come una frattura fra Storia e individuo, regime e persona, censura e libertà di espressione.

Invisibile come i suoi libri, quello di Dovlatov è un atto di resistenza nei confronti della norma e della dottrina. Intorno a lui un universo spento e desaturato, virato in seppia, quasi un film in bianco e nero in cui il colore risulta costantemente umiliato.

Il film segue sei giorni della vita di Sergei datati 1971: il tempo non scorre mai, come rinchiuso in una bolla ermetica. Il mondo esterno penetra clandestinamente tramite operazioni di contrabbando mentre la madre Russia, con i suoi grandi scrittori, osserva e commenta, attrice di uno spettacolo che non conosce più. Le scenografie di questo spettacolo sono solo luoghi oscuri ed asfittici: la redazione del giornale, i locali freddi e fumosi, le strade che non presentano mai un’apertura ma sembrano ennesimi, claustrofobici interni.

Dovlatov cammina inquieto: si agita, si ferma poi ricomincia a vagare, ma sembra sempre bloccato in una dimensione che lo respinge. Troppo negativo, troppo critico, troppo sfuggente per il pensiero positivo sovietico (lo scrittore si trasferirà poi negli Stati Uniti e non conoscerà il successo che arriverà solamente postumo).

Il film di German, straordinariamente attuale, si apre a tutti gli emarginati, a tutti gli artisti inesistenti, a tutti i pensatori scomodi, alle gallerie di outsider che salvano il mondo. Con i riflessi direttamente puntati sulla Russia contemporanea, su un presente dove la Storia rischia di ripetersi. Eppure, senza troppi indugi o compromessi, l’artista riesce a sopravvivere. Umiliato, deriso, allontanato: abita i campi totali, le focali corte in cui Dovlatov può confondersi con il popolo, essere uno di loro. Senza classismo, senza separazioni fra intellettuali e gente comune, ma uomo in mezzo ad altri uomini, immerso nelle tragedie quotidiane del suo paese.

Si ha quasi la sensazione che la macchina da presa utilizzi Dovlatov come veicolo per esplorare gli altri, slittando continuamente l'attenzione dal suo soggetto per avvicinarsi al resto del mondo. German è attratto dalla vita che scorre ai margini, dalle voragini e dalle derive della narrazione. Con il riflesso più evidente di suo padre Aleksej, immenso regista ostracizzato dal regime con solo sei film prodotti nel corso di un'intera carriera, di cui l’ultimo Hard to be a God, sembra la versione visionaria e deforme di questo Dovlatov.

“Prima o poi le cose miglioreranno” dice la moglie allo scrittore, gettando un’ultima speranza sul futuro dell'uomo, della Russia...del nostro tempo.

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Aleksey German Jr. Milan Maric Danila Kozlovsky Elena Lyadova Svetlana Khodchenkova 126 minuti
Russia, Polonia, Serbia 2017
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Pretenders

di Attilio Palmieri
Pretenders di James Franco - recensione film

Pretenders era uno dei film più attesi della trentaseiesima edizione del Torino Film Festival, ennesima opera di James Franco arrivata al Festival torinese in anteprima mondiale.

Prima di vedere un film dell'ex star di Freaks and Geeks ormai ci si chiede come faccia a lavorare così tanto, ad essere sul set di film e serie televisive come interprete e contemporaneamente a realizzare film da regista a una velocità che farebbe impallidire anche coloro che di impegni ne hanno pochissimi. Si ha infatti la sensazione che ci siano poche persone ad Hollywood ad amare il cinema come James Franco, a vivere il fare cinema, davanti e dietro la macchina da presa, con la stessa abnegazione e la stessa inscalfibile voglia di lavorare. Tuttavia quando si produce così tanto la qualità media delle opere tende inevitabilmente a calare, perché l'attenzione e la misura con cui si fanno determinate scelte non possono che scendere a patti con l'urgenza del momento. Dopo la voglia di raccontare la storia della realizzazione di The Room in The Disaster Artist, l'obiettivo di Franco in questo caso è quello di omaggiare l'amore per il cinema, riportando in vita non tanto la cinefilia in sé quanto un certo modo di rappresentarla.

Più che un omaggio ai cineclub parigini degli anni cinquanta e sessanta, Pretenders rappresenta un una rilettura di The Dreamers di Bernardo Bertolucci, presentandosi quasi come una sorta di omaggio dell'omaggio. Riprendendo l'ormai archetipica situazione narrativa dei tre amici, due uomini e una donna, il regista colloca la sua storia tra la fine degli anni Settanta e l'inizio degli Ottanta, provando a realizzare sia il suo personale Jules et Jim e sia a mettere in scena quella irresistibile venerazione per il film di Truffaut e tutta la Nouvelle Vague francese.

Pretenders è diviso in due parti, una ambientata negli 1979 e l'altra nel 1983. Nella prima, nettamente la più riuscita, Franco presenta i personaggi, delinea in maniera non proprio approfondita ma comunque abbastanza efficace la passione di Terry per il cinema francese e per colei che sarà il principale oggetto del suo desiderio, Catherine. Al contempo viene pian piano presentato anche Phil, altra faccia della mascolinità che inizialmente ha il ruolo di figura comica, poi quello di mentore, a tratti quello di antagonista e spesso quello di spalla del personaggio principale. I tre nel primo atto del film mettono insieme una sorta di squadra in cui la passione per il cinema e l'amore per il divertimento sfrenato fanno da costanti relazionali. Parallelamente però emerge anche una sorta di autocritica abbastanza esplicita a questo triangolo, che sottolinea quanto un immaginario fatto di uomini di cultura e donne che sono prevalentemente oggetti del desiderio sia mortificante per le spettatrici di sesso femminile, che vedono sullo schermo sempre e solo il mondo sotto una prospettiva maschile. È come se da una parte ci fossero la fascinazione, l'incanto e la libertà dei seventies, ma dall'altra si volesse inserire in maniera un po' posticcia una riflessione spiccatamente contemporanea.

Se la prima parte di Pretenders risulta in ogni caso godibile e piena di amore per il cinema, nella seconda il film sembra perdere l'equilibrio, mettendosi a giocare su troppi campi contemporaneamente senza riuscire, anche per ragioni di spazio, a portare a termine i suoi discorsi. A partire proprio da quel tema sulla femminilità imprigionata affrontato nel segmento ambientato nel 1979, la parte ambientata dal 1983 in poi riprende in maniera pedissequa quel tipo di rapporto, volendone essere per certi versi una sorta di critica, più o meno esplicita. È come se dopo aver introdotto in teoria il lato oscuro di quel mondo il film ne volesse mostrare l'applicazione concreta, creando un triangolo amoroso simile a tanti altri e caratterizzato dal desiderio di due uomini per una donna bella, affascinante e quasi mai capace di esprimersi in prima persona. A conti fatti però l'operazione risulta abbastanza fallimentare per diversi motivi. Innanzitutto per la potenza e l'efficacia del discorso: se si vuole raccontare la tossicità dello sguardo maschile allora bisogna andare un po' oltre l'aspetto denotativo e aggiungere profondità a una riflessione che invece è abbastanza superficiale; se invece si vuole rispondere in maniera costruttiva cercando di dare ai ruoli femminili quello spazio che da sempre gli è stato privato, allora bisogna procedere in una direzione molto diversa.

A questo proposito è abbastanza evidente che nel 2018, quando la riflessione sulla rappresentazione femminile ha fatto passi da gigante grazie ad autori e soprattutto autrici che al cinema e forse ancora più in televisione hanno raccontato alla perfezione figure femminili con una profondità che un tempo rappresentava una rarità nel migliore dei casi, una scelta come quella di Franco risulta come minimo ingenua. Pur volendo dare il beneficio del dubbio a un'operazione che, soprattutto per come evolve nella sua seconda parte non sembra avere una particolare coerenza, non si capisce perché per raccontare la tendenza all'oggettivazione della donna da parte dello sguardo maschile il regista decida di escludere ogni tentativo di costruire un personaggio femminile in grado di fare da contraltare virtuoso.

Pretenders è un film che dimostra ancora una volta che per James Franco fare cinema è prima di tutto un atto d'amore, ma allo stesso tempo ribadisce come troppo spesso nel suo cinema a fronte di ottime intuizioni non corrisponda un'adeguata attenzione nella realizzazione. A risentirne, in questo caso, sono soprattutto i personaggi, non solo imprigionati in stereotipi ormai usurati, ma anche privi di spessore e legati da rapporti mai costruiti in maniera adeguata.

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James Franco Jack Kilmer Jane Levy Shameik Moore Juno Temple Brian Cox James Franco 90 minuti
USA 2017
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Il vizio della speranza

di Saverio Felici
Il vizio della speranza  - recensione film De Angelis

Trovare un codice visivo nuovo, inconfondibile, al cento per cento personale, è un definitivo segno di maturazione per un regista. Edoardo De Angelis, al quarto film, è ormai padrone assoluto della propria estetica. È stato un percorso graduale, per tasselli: Mozzarella Stories, l'inevitabile commedia da esordio; Perez., camorra-movie di evidente matrice gomorriana; Indivisibili, bizzarro e incatalogabile, premiatissimo dall'establishment italiano. Un passo dopo l'altro, in direzione di questo Il vizio della speranza: vincitore alla Festa del Cinema di Roma, è un film controverso, imperfetto, con alcuni prevedibili difetti (che a questo punto il regista napoletano sembra desinato a portarsi dietro a vita). Ma soprattutto è un film di Edoardo  De Angelis, senza dubbio alcuno. Da questo momento, confondere l'autore con un qualunque imitatore del Garrone più lo-fi (autentica scuola manierista italiana a cui troppo frettolosamente era stato associato), non è più possibile.

L'impianto de Il vizio della speranza è quello del noir classico (d'altronde c'è Giorgio Scerbanenco citato già nel titolo): l'individuo in rivolta personale contro un sistema opprimente, che si auto-condanna alla fuga e alla lotta per la sopravvivenza. Maria (Pina Turco, compagna del regista, strepitosa) si occupa di gestire una rete di prostitute africane per conto della madame Marina Confalone. Nel tempestoso delta del Volturno, il suo compito è condurre a partorire le ragazze rimaste incinte: il neonato sarà portato via dall'organizzazione e venduto a chi pagherà. Alla notizia di aspettare un bambino lei stessa, Maria aiuterà una delle ragazze a fuggire e si darà alla macchia. Con un cappuccetto blu sulla testa e un pitbull che la segue ovunque, fuggirà tra la melma e la pioggia di una Campania sfigurata da un Natale mai così squallido. Braccata dagli sgherri della sua "padrona", in fuga tra sfollati e baracche di immigrati, determinata a dare alla luce un bambino che, a quando dicono i medici, potrebbe costarle la vita.

Il vizio della speranza pianta lo sguardo addosso ad un mondo che, da un punto di vista cinematografico, siamo ormai abituati a conoscere. Ha dell'incredibile allora la capacità di De Angelis di trasfigurare il (solito) universo provinciale-periferico meridionale, sprofondato nella povertà e nella criminalità, in qualcosa di mai visto.
Nel neo-neorealismo italiano di camera a mano e colori in grigio, da un decennio abbondante la poetica dello squallore periferico è terreno di facili spunti per una schiera infinita di registi. De Angelis porta il discorso estetico a un livello inedito per potenza immaginifica. Il lurido delta di questo Volturno-Mississippi non somiglia a niente di quanto visto in altri mille lavori con storia e ambientazione simili. E' un film grande, quasi epico. I piani sono larghi, i campi lunghi o totali: le sponde del fiume sembrano distanti chilometri, immerse tra canneti, paludi, popolate da mostri e serpenti. La gente vive in prefabbricati e baracche fragili, quasi sul punto di essere portate via dalla  corrente e dalle inondazioni. Il direttore della fotografia Ferran Paredes Rubio allarga insistentemente il campo (l'opposto esatto della cifra garroniana), inquadra i luoghi alla fine del mondo come in uno scenario da Sud USA. Arriva quasi a ricordare certe tendenze estetiche contemporanee alla True Detective (o alla Re della terra selvaggia, seminale e semi-dimenticato film del 2012). E al centro di tutto, il gusto dell'orrore: orrore non inteso come paura, ma come repulsione ossessiva e affascinata. L'estetica dell'orrido di De Angelis raggiunge qui l'apice, un mondo in cui tutto è deforme, malato, in qualche modo sfigurato. Da vezzo auto-compiaciuto ad autentica cifra: un universo chiuso di fango e rifiuti, acqua e sopraffazione. Stupro e tensione razziale. Il Southern Gothic italiano.

Dall'altra parte dello spettro, si ripresentano invasivi i classici difetti di De Angelis. L'attitudine fiabesca già mostrata in Indivisibili torna alla ribalta anche qui, annacquando l'esistenzialismo del noir con l'idealismo di chi il vizio del titolo non riesce a perderlo. Nel mondo oscuro che De Angelis ritrae con cura quasi ossessiva, i buoni sentimenti non annegano ma prosperano. Emerge allora nel terzo atto una certa attitudine parrocchiale alla  retorica spinta, metafore religiose reiterate, l'ideale di una "grazia" femminile salvifica non sempre raffinata come l'autore vorrebbe. Il titolo ne dà indizio chiaro: nella melma eterna che sembra aver ricoperto il mondo intero, a De Angelis piace cercare la luce, il buono. Ma i buoni non sono interessanti come i cattivi, e le redenzioni non sono mai credibili come le dannazioni. Appoggiandosi a un facile con lieto fine tra i "buoni reietti" del mondo, Il vizio della speranza stempera quella potenza brutale che lo sospingeva. L'estetica c'è, la poetica può essere affinata. Già così, il quarto film di Edoardo De Angelis è uno dei titoli italiani della stagione.

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Edoado De Angelis Pina Turco Massimiliano Rossi Marina Confalone Cristina Donadio 90 minuti
Italia 2018
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Happy New Year, Colin Burstead

di Samuele Sestieri
Happy New Year

In principio era Kill List - il suo secondo e miglior film - e con Ben Wheatley fu subito folgorazione. Una di quelle rare opere realmente imprevedibili, stranianti e multiformi. Non sapevi dove potesse andare questo strambo cineasta inglese, che partiva da scene di un matrimonio, si insidiava in traiettorie lynchiane e finiva nei territori oscuri di un sabba. Negli anni successivi si creò un’autentica Wheatley-mania, nonostante il regista andasse gradualmente a perdere quell’alone di mistero e originalità che permeava il suo titolo di culto. Basti pensare ad A field in England, film intrappolato nell’estetica b/n “da festival”, compiaciuto fino al midollo, che si apriva a squarci visionari forzati e, quantomeno, di dubbio gusto estetico.

Con Happy New Year, Colin Burstead arriva prontamente la domanda: cos’è rimasto dello strepitoso regista di Kill List? Qualsiasi vecchia politica autoriale viene a mancare: siamo – ancora! – nei territori del vittenberghiano Festen, nel ritrovo di famiglia dell’ennesimo nucleo disfunzionale. L’evento questa volta non è un compleanno ma il capodanno da passare tutti insieme in famiglia (ed è la solita pessima idea!). I fuochi d’artificio saranno i duelli all’ultimo sangue dove le tensioni accumulate finiranno per esplodere.

Fratelli che non si sopportano, genitori in crisi, debiti,  risentimenti, sfoghi e mancanze. In mezzo qualche momento felice, profondo perché rarissimo. Macchina a mano di dogmatica memoria, scrittura piccante e molto british, cinismo che alla fine fa rima con nichilismo. Il set è la lussuosa tenuta in piena campagna, gli attori sono i burattini in balia dell’intelligenza di chi scrive. Programmatici, freddi e funzionali. Tutto scorre, come sulla carta, peccato che il buco nero sia l’emozione (eccetto che, guarda caso, quando uno dei fratelli si emancipa dalla trappola familiare e finisce ad urlare in riva al mare: lì, finalmente, intercettiamo tracce di dolore autentico). Alla fine si assiste a un film mortifero, costantemente appiattito dallo zelo sofisticato della messa in scena. A questo punto verrebbe quasi da consigliare A casa tutti bene, l’ultimo interessante film del sempre bistrattato Muccino, dove la tensione si alimenta inquadratura dopo inquadratura e non ci si vergogna mai di far trasparire un po’ di emozione. E dove, soprattutto, lo spazio non è scenografico e bidimensionale, ma diventa parte integrante del racconto.  

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Ben Wheatley Sarah Baxendale Asim Chaudhry Joe Cole 95 minuti
Gran Bretagna, 2018
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High Life

di Andreina Di Sanzo
High-Life-recensione film Claire Denis

«L'imperitura fede degli amanti e dei poeti nella potenza dell'amore capace di vincere la morte, quel finis vitae sed non amoris che ci perseguitava da secoli era una bugia. Una bugia vana e tuttavia ridicola. Ma rassegnarsi a essere un orologio misurante lo scorrere del tempo, alternativamente rotto e riparato e nel cui meccanismo, appena messo in moto dal costruttore, cominciavano a scorrere disperazione e amore?» Solaris - Stanisław Lem

Claire Denis fornisce pochi indizi per ricostruire i fili di questo imperscrutabile viaggio, High Life, la vita su una navicella spaziale in una galassia lontana dal nostro sistema solare. Tossici (l’high del titolo si riferisce forse anche alle loro precedenti dipendenze) e delinquenti usati come cavie per un esperimento che probabilmente darà una speranza alla razza umana. Ma sappiamo poco di quello che è successo in questo futuro imprecisato se non dai ricordi sfilacciati di Monte, un Robert Pattinson statuario e glaciale e così tenero con la sua piccola figlia, ultimo bagliore della deriva umana.

High Life, disturbante e magnetico, ci pone di fronte a molteplici piani di interpretazione e questioni: la fine della nostra razza, l’ecologia e la salvaguardia dell’ambiente in cui viviamo, la riproduzione e così la memoria e i ricordi, ma soprattutto l’aridità, intesa non solo come sterilità ma annientamento dei sentimenti. La dottoressa Dibs, interpretata da una sensuale Juliette Binoche, è a capo dell’esperimento: la riproduzione a ogni costo. Non c’è però nessun contatto, nessuna interazione fisica tra i condannati: solo un cubo (fuckbox) come stanza utilizzata per il piacere, mai condiviso, solo la masturbazione come sfogo e momentaneo appagamento. La voracità di una ninfomane e il suo sfrenato desiderio cannibale di Cannibal love - Mangiata viva vengono qui annientati completamente da una Medea e Lilith del cosmo che castra la pulsione delle sue cavie. Ma il desiderio irrompe, sempre, e provoca la disgregazione di questo piccolo microcosmo deviato. Bisogna riprodursi senza toccarsi: ci si sveglia, si fa attività fisica, la dottoressa raccoglie lo sperma e lo insemina quasi a tradimento in quelle donne utilizzate solamente come corpi, uteri che dovranno accogliere il seme, ma che difficilmente riusciranno a portare avanti la gravidanza.

«Il n'y a pas de rapport sexuel», direbbe qualcun altro.

Denis opera per suggerimenti e visioni, la voce narrante di Monte ci porta nelle immagini del suo passato traumatico che la regista sceglie di girare in 16 mm: una Terra lontana, un bambino, un cane. La navicella come zona per avverare il grande desiderio del concepimento. La vegetazione misteriosa, l’acqua e il suo rumore ci rimandano direttamente al cinema di Andrej Tarkovskij. Monte come lo Stalker è una guida verso l’ignoto e porta il marchio sui suoi capelli, la macchia bianca che contraddistingue gli stalker, unici detentori di quella conoscenza misteriosa. Claire Denis, omaggiando il regista russo, sceglie di darci delle rapide illuminazioni, ora con la dilatazione, ora la con frammentazione del tempo, sottraendo alla narrazione e concentrandosi sull’esperienza visiva. Gli ambienti freddi e rarefatti della navicella, la serra come oasi dove poter ancora toccare la terra umida e ricongiungersi con ciò che si è perso, la magnifica e disturbante sequenza della dottoressa Dibs e le torsioni orgasmiche nella fuckbox - bellissime le scenografie dell’artista Ólafur Eliasson.

Tentare di rispondere ai tanti interrogativi o ricostruire per causa-effetto non è certamente il punto del film. Come per L’Intrus, la sua opera più radicale, l’invito della  Denis è a perdersi in quel movimento incessante che è il cinema, il suo cinema.
La navicella spaziale dove Monte e sua figlia sopravvivono è immersa nell’infinito moto dell’universo, schermo primordiale, teatro di un’eterna Odissea, tra le musiche oscure e ipnotiche di Stuart Staples. La bimba concepita nello spazio diventa donna e fertile, la fiducia in quel volto con il quale il film si chiude è la fiducia nella visione, vero interrogativo del film intriso di quella morale che restituisce ancora l’assoluta speranza nel ricongiungimento con l’immagine. In un mondo che gradualmente perde il contatto con l’altro, prediligendo l’erotismo freddo e solipsistico con lo schermo, High Life crede ancora nella potenza della visione come condivisione e contatto. Come la Hari di Solaris, il ricordo inafferrabile e mutevole di  quell’immagine-mentale tornerà teneramente a tormentarci.

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Claire Denis Mia Goth Robert Pattinson Juliette Binoche André Benjamin 110 minuti
Francia, Germania, Gran Bretagna, Polonia, Stati Uniti 2018
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Troppa grazia

di Riccardo Bellini
Troppa grazia - recensione film zanasi

Con Troppa grazia - presentato quest'anno al Festival di Cannes come film di chiusura della Quinzaine des Réalisateurs - torna il cinema di Gianni Zanasi e la sua umanità instabile, irrisolta, fragile e bizzarra, sospesa tra i propri fallimenti esistenziali e quelli di un’Italia in mano ad affaristi meschini e loschi imprenditori, un’Italia in cui, come dice il sindaco Paolo (Giuseppe Battiston), è difficile puntare il dito contro qualcuno perché, stando alla legge, tutti bene o male siamo corrotti.
Torna Zanasi e tornano le sue storie sui generis, attraverso cui filtrare le ben note miserie morali del Belpaese, preservando al tempo stesso l’unicità di uno sguardo personale. Uno sguardo che questa volta adotta il registro del fantastico per raccontare la storia di Lucia (Alba Rohrwacher), geometra specializzata in rilevamenti catastali nonché madre single, idealista ma dalla vita caotica, scelta dal sindaco senza scrupoli per un progetto edilizio che potrà giovare alle casse del comune. Lucia scopre che i rilevamenti condotti sul terreno del cantiere segnalano un’imprecisata anomalia, ma viene infine convinta dalla paura di perdere il lavoro a non dire nulla. Un giorno, durante un rilevamento, le appare la Madonna in persona, che prima la invita e poi la costringe (con la forza!) a boicottare i progetti del sindaco, con il proposito di edificare una chiesa sullo stesso luogo.

Con la sua folle sceneggiatura - scritta a otto mani insieme a Federica Pontremoli, Giacomo Ciarrapico e Michele Pellegrini - Zanasi ci ricorda che di fronte al dilagare dell’indifferenza generale prendere posizione è un atto non solo doveroso ma decisivo, che deve necessariamente passare attraverso un momento di rottura di cui purtroppo siamo sempre meno capaci. Santi e madonne (ergo quel poco di bene che rimane della nostra coscienza) non sono qui a pregarci gentilmente ma hanno il compito di prenderci a schiaffi e di tirarci per i capelli finché non li ascoltiamo. Non esiste possibilità di cambiamento senza traumi. Troppa grazia parte così dal mero pretesto del culto mariano per intessere una storia di assoluto laicismo sull’Italia del nostro presente, e parlarci di una spiritualità che non ha nulla di teologico né di dogmatico, la spiritualità di chi riesce a ritrovare se stesso negli altri e nel rapporto con le piccole-grandi cose del mondo. Il film ripone la sue speranze nell’immaginazione salvifica dell’infanzia, in cui si crede ancora ai mostri e alle favole - come facevano un tempo Lucia e l’ex compagno Arturo (Elio Germano) - piuttosto che nella religione come riscatto. Ed è questo il pregio di un’opera che al tempo stesso sfrutta e ribalta, asseconda e rilegge sotto una luce diversa quei presupposti di partenza ancorati al nostro retroterra culturale, con il consueto sguardo leggero ma non per questo disimpegnato.

La fotografia stessa, molto esposta e dai colori saturi, si tinge di una sognante leggerezza da riscoprire come arma di attacco, più che di difesa, contro le brutture del mondo. Peccato invece per il mancato approfondimento del sindaco Paolo, non il solito faccendiere abituato a cadere sempre in piedi bensì un penoso piccolo arrivista non immune dal fallimento, al quale però la sceneggiatura non riesce a fare del tutto onore, lasciandolo troppo sullo sfondo. Troppa grazia, già vincitore a Cannes del premio Label di Europa Cinémas, segna un ritorno sentito e vitale da parte di Zanasi, che riconferma così il proprio piglio autoriale, trovando al tempo stesso nuove declinazioni per il suo cinema.

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Gianni Zanasi Alba Rohrwacher Elio Germano Giuseppe Battiston Valerio Mastandrea Hadas Yaron 110 minuti
Italia, Spagna, Grecia 2018
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Homo Botanicus

di Samuele Sestieri
homo botanicus

Una lettera d’amore, un diario sentimentale, un viaggio naturalista nei meandri della foresta amazzonica colombiana: Guillermo Quintero realizza una preziosa opera di esplorazione, un film d’avventura  che assume le forme di un atlante sentimentale, di una mappa di passioni, amori e incontri fuori dal tempo. 

Il regista colombiano, spinto da un afflato simil-herzoghiano, segue il botanico Julio Betancur e il giovane allievo Cristian Castro nella natura vigorosa della foresta tropicale. Con pudico affetto, inquadra il loro rapporto: la passione peregrina e la generosa dedizione di Julio, lo sguardo fedele ed ingenuo di Christian, il loro raccontarsi nel corso del tempo e dello spazio tra orchidee, fiumi e fiori. Il film, prima ancora di perdersi nel verde della foresta, indaga gli sguardi dei due uomini, legge l’entusiasmo e la luce nei loro occhi alla scoperta di ogni nuova specie vegetale. Per questi due moderni avventurieri le piante sono come persone care a cui tornare ogni volta o, al contrario, nuovi amici da conoscere e da scoprire. Homo Botanicus vive nel sogno di un’unione totale tra gli uomini e la foresta, nell’armonia che dà voce ai discorsi amorosi dei due esploratori.

Julio e Cristian si muovono tra le piante amiche, classificano le specie, danno nome alle cose. Schedare, catalogare, nomenclare, distinguere qui significa intraprendere un discorso, trovare una nuova forma di linguaggio e di comunicazione: conoscersi e dunque amarsi, nient’altro che questo. Perché anche se tutta la foresta scompare, giorno dopo giorno, la sua storia e quella di chi l’ha scoperta rimangono impresse in questa relazione. Tra il botanico e la pianta si crea una simbiosi, un campo-controcampo che li rende un’unica essenza. Raccontare la storia delle piante significa raccontare la propria storia: Homo Botanicus, per l’appunto. “Una pianta” dice Betancur “è un poema in una lingua sconosciuta”.

Quintero interpreta questo poema, tra camminate, visioni caleidoscopiche, immagini d'archivio e campi lunghi che svelano paesaggi estatici. Scopre il cinema più antico del mondo perdendosi fra le orchidee, trova tra rami, piante e alberi le radici di ogni storia d’amore. In fondo questo piccolo, splendido film non inscena altro che il più atavico dei gesti, quello sentimentale. Un’infatuazione forse non corrisposta, perché le piante non rispondono con la stessa voce degli uomini. Ma Julio è come l’innamorato-semiologo che interpreta i segni, legge la storia delle sue innamorate, le salva – le preleva – dal loro tempo. Il botanico diventa allora un cartografo, l’inventore del grande libro con cui raccontare nuovi viaggi sentimentali, dalla foresta all’Erbario dell'Università della Colombia dove, da qualche parte, esistono storie ancora non scritte: quelle di tutte le specie mai classificate, delle piante sconosciute, delle storie d’amore che ancora non conosciamo. Migliaia di specie, migliaia di narrazioni, ma l’ignoto rimane sempre davanti a noi.

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Guillermo Quintero 88 minuti
Colombia, Francia 2018
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Red Zone - 22 miglia di fuoco

di Marco Compiani
Red-Zone-22-Miglia-di-fuoco - recensione film berg walhberg

You know nothing
James Silva

Peter Berg è uno degli autori più interessanti del panorama americano.
Senza tirare in ballo l’ambigua definizione di “blockbuster d’autore”, che sembra quasi chiedere scusa nel dover legittimare la propria natura commerciale, il cinema di Berg ha la lucida capacità di utilizzare i generi cosiddetti di serie b per indagare l’epica contemporanea del suo Paese. Pensiamo agli ultimi tre film prima di Red Zone - 22 miglia di fuoco: Lone Survivor, Deepwater - Inferno sull'oceano e Boston - Caccia all'uomo prendono tutti spunto da tragedie reali che hanno segnato l’immaginario del popolo americano, seguendo però una costruzione che predilige il genere action come motore trainante della narrazione. Come a dirci che la retorica della finzione, pur prendendo spunto da una ricostruzione dei fatti a cui il regista cerca di essere fedele (senza comunque rinunciare a iperboli retoriche), è l’unico modo per cauterizzare quel senso di fragilità, di insicurezza e di vulnerabilità, figli del post 9/11. Questa minaccia dà presto spazio a una situazione di crisi costante da survival movie, nella quale l’individuo viene responsabilizzato da un  forte senso comunitario che si fa collante di tutta la Nazione. Proliferano i punti di vista, la tecnologia può apparentemente monitorare tutto fino a decifrare il Male più nascosto, ma, a conti fatti, l’ultimo passo spetta all’umanesimo eroico esercitato dal singolo.

Pur non prendendo spunto da fatti realmente accaduti, Red Zone è l’ulteriore tassello di questa filmografia.
La rabbia e la nevrosi controllante che caratterizzano il protagonista – nuovamente interpretato da Mark Wahlberg, vero e proprio feticcio del regista – invadono fisicamente il film, ne dettano il ritmo in modo compulsivo.
Nella convinzione che svuotarsi delle emozioni ed evitare ogni contatto con il privato sia l’unica strategia di sopravvivenza nelle missioni operative, Silva fa un passo falso, perde di vista il lato umano, ostentando una sicurezza nel sistema che miete vittime a loro volta pericolose, fatali. Da qui ritroveremo il protagonista, nelle frequenti sequenze in flashforward, afflitto dal dubbio, la sua ricostruzione del Passato (da leggere proprio con la lettera maiuscola) è permeata da più di un interrogativo. Certo, Red Zone è anzitutto un thriller dal ritmo serrato e molto godibile, ma la riflessione storica e la messa in discussione delle proprie scelte, da parte poi di un Paese che ha definito la propria identità soprattutto attraverso la politica estera, sono un segno nitido delle rivisitazioni morali tipiche del presente. Ecco perché liquidare Berg solo come regista reazionario celebratore dell’intelligence americana è una prospettiva più faziosa della stessa politicizzazione che si vorrebbe criticare. Certo, questo regista è senza dubbio un celebratore patriottico, spesso ridondante, ma la sua posizione non è da limitare a una semplice etichetta ideologica.

Tornando a riflettere sul genere, la presenza di Iko Uwais è invece l’elemento mainstream su cui buttare un occhio di riguardo. Stella in ascesa del cinema orientale, lanciato alla ribalta dal seminale The Raid (film che ha rivoluzionato la messa in scena delle arti marziali optando per un sanguinolento iperrealismo), l’attore indonesiano funziona come una vera e propria infiltrazione nel tessuto di Red Zone; un agente esterno, che penetra la matrice classica della spy story e porta inevitabilmente con sé un insieme di aspettative sulle sue abilità nell’arte marziale del pencak silat. Il ruolo funziona, con un montaggio convulso che aumenta l’isteria e la velocità dei suoi colpi letali. Ma ci troviamo comunque in una prospettiva che vede l’indonesiano essere l’uomo della caccia, supportato da una squadra della CIA che viene assediata da forze governative locali che non vogliono far uscire l’uomo dai confini territoriali.

Dal ritmo caotico ma dall’anima classica, debitore della maestria à la Mann (la sparatoria/assedio lungo la strada), con sequenze di grande tensione (l’home invasion iniziale), Red Zone – 22 miglia di fuoco è un film che fa il suo sporco lavoro, unendo l’intrattenimento a una riflessione essenziale che rende sempre più chiaro il lato psicotico e vacillante di alcuni (anti)eroi contemporanei.

Categoria
Peter Berg Mark Wahlberg Iko Uwais John Malkovich Lauren Cohan 94 minuti
USA 2018
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Un paese di Calabria

di Carmen Albergo
Un paese di Calabria di Shu Aiello e Catherine Catella

C'era una volta Riace, un Paese (quasi del tutto disabitato) di Calabria.

Qui erano custodite due preziose statue di bronzo, rinvenute dopo un naufragio di molti anni or sono. Da ogni dove giungevano visitatori di passaggio per ammirare questi autentici tesori raffiguranti la bellezza della persona umana in tutta la loro perfetta riproduzione. Finchè un giorno approdarono sulle stesse sponde dei naufraghi, profughi scampati prima alle angustie e alle miserie di terre lontane e poi alle intemperie del mare, e di nuovo Riace, come nel mito biblico, salvò dalle acque, ma questa volta uomini in carne ed ossa, autentica umanità toccatale in sorte, non per essere contemplata, ma per essere realizzata in un disegno di accoglienza diffusa, che portasse speranza di prosperità continua, sia al luogo ospitante che ai nuovi volti e alle nuove braccia ospitate in quelle case e botteghe abbandonate. E mentre il mare continuava a  sospingervi barconi d'uomini da attraccare, un crogiolo di lingue e culture si radicava alle originarie tradizioni, le mura di pietra s'impregnavano di nuove e feconde memorie. Ancor più Riace divenne meta d'interesse, "modello" di ripresa economica solidale. Nel bene e nel male, Strategia di Vita.

Come narrare  (come avrebbe narrato Calvino per esempio?) un luogo diventato invisibile, perché abbandonato da abitanti partiti in cerca di fortuna e poi di nuovo ripopolatosi perché esso stesso divenuto approdo di dignità per uomini e donne anch'essi scampati a sventure e disgrazie? Come narrare di questa utopia dell'accoglienza fatta di ospitalità in libertà e non di ostilità burocratizzata? Ovvero dell'atavica conflittualità dell'etimo "Hos", nell'ambivalente accezione di oste e straniero, chi riceve e chi dà accoglienza (...ancor più nel risvolto di accettare e gradire!) di contro al labilissimo margine di sconfinamento in "Hos-t", straniero come nemico, pregiudizio imperante? Come e quanto fantasticare sulla ri-generazione dei luoghi, nel senso letterale di bambini venuti a rianimare non tanto strade e scuole, quanto gli sguardi anziani, le menti intontite e irrigidite, svigorite dalle separazioni, gli affetti lontani e perduti, quotidianità di passi vuoti e silenti?

Di questa realtà di fatti, da quasi un decennio, s'è fatto carico un certo cinema, purtroppo coerentemente coi fatti stessi, marginale, eterogeneo rispetto alle consuetudini produttive e distributive, di fatto esistente e di cui Un paese di Calabria, diretto dalle registe italo-francesi Shu Aiello e Catherine Catella, per le case di produzione indipendenti Tita Productions, Marmitafilms, Les Productions JMH e BoFilm (unica italiana),  è l'ultimo titolo. La docu-fiction del 2016, come la filmografia che la precede sull'argomento ( Il Volo, cortometraggio di finzione di Wim Wenders per Sky Cinema, 2010; Il Sogno a Mezzogiorno, documentario incompiuto del regista calabrese Fabio Mollo, 2009) incontra e raccoglie le testimonianze della popolazione locale, registra  la celebrazioni sacre (i battesimi interreligiosi di intere famiglie) e politiche (consigli comunali, campagne elettorali), nonchè i più latenti e contraddittori stati d'animo gettati alla mercede dis-orientabile dei mass-media, e sul plot liricizzato della rievocazione delle migrazioni di massa dal Meridione all'estero, conclude la propria narrazione ignara e ben prima che il "Modello Riace" diventi la "Questione giudiziaria Riace" dei giorni nostri, sedicente criminalizzazione e abuso delle pratiche di accoglienza e solidarietà, ai confini dell'interpretazione delle leggi precostituite. Un discorso sull'immagine, come reputazione e consenso di opinione comune (in primis antropologicamente dell'uomo su se stesso e il suo simile), attraverso le immagini, dunque (se con elissi quasi Kubrikiana) si salta dalla scultura ellenica allo stop inferto alla lavorazione della fiction Tv dedicata al luogo, sopraggiunto in seguito all'arresto del sindaco in carica Mimmo Lucano lo scorso Ottobre, sotto l'accusa di favoreggiamento dell'immigrazione clandestina, proprio all'interno della medesima gestione dell'accoglienza che lo aveva portato agli onori esemplari delle istituzioni internazionali. E più l'immagine attraverso le immagini prende ad essere oscurata e travolta da faziosità, speculazioni, macchina del fango, più le immagini si dimenano e svincolano dagli schemi e schermi canonici  attraverso la mobilitazione distributiva che risale dal basso e dalla rete, per fare rete e resistenza. Un paese di Calabria (c'è da dire visto da quasi 40.000 spettatori in Francia, secondo fonti ufficiali) poggia in parte sulla circuitazione della piattaforma MovieDay e sulla coordinazione nazionale di centri d'accoglienza, per sbarcare volutamente e gratuitamente sul Web, attraverso uno streaming di 48 ore a sostegno della campagna di solidarietà "Riace non si arresta". Stesso dicasi del regista su citato Fabio Mollo che attraverso il proprio canale Vimeo ha reso definitivamente pubblico e legale il proprio lavoro documentario per le medesime ragioni.

Il Sud è niente, recitava il titolo dell'opera prima di Mollo, storia di una adolescenza combattuta nel Sud delle mafie occultate e delle sparizioni spontanee o violente, "Il Sud è niente... e niente vi accade" recitava  a conferma della cecità omertosa. Ma le immagini cinematografiche, che ingannano la retina e vi si inchiodano, documentano il contrario, a Sud qualcosa accade, accade il ritorno, accade la rinascita, accade la possibilità dell'alternanza al modello unico multiculturale. Accade un futuro. Accade che se la perfezione del modello resta l'utopia (I Bronzi di Riace) la sua perfettibilità uman(itari)a può attecchire ancora e altrove, ben al di là di un solo "Paese di Calabria".      

     

Categoria
Shu Aiello Catherine Catella 90 minuti
Francia, Italia, Svizzera, 2016
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