Lone Survivor

Ha ancora senso oggi esercitare una critica che prediliga e sottolinei la dimensione politica dell’oggetto filmico? In poche parole si, certamente, ma in modo inevitabilmente diverso rispetto al passato, rispetto ai tempi in cui anche solo parlare e discutere di cinema all’università era fare politica, attiva e concreta. Perché se è vero che ogni atto cinematografico non può che sottintendere una posizione ideologica nel senso gramsciano del termine, ovvero una visione morale del mondo che è in quanto tale politica, allo stesso tempo nella Hollywood contemporanea il rapporto tra industria culturale e ideologia è ormai evaso da rigide regole di causa-effetto, mentre lo spettatore è sempre più dotato di una consapevolezza filmica che di certo non lo rende una timida preda in attesa di essere plagiata dal messaggio retorico nascosto dentro il film. Tutto oggi è sfaccettato e modellato in base a rapporti liquidi e metafisici che conducono critica e spettatori in altri lidi rispetto al passato. Considerato ciò non può che sorprendere allora, anche con un certo piacere divertito, l’ultimo film di Peter Berg, Lone Survivor, che per la sua posizione politica così ferrea, sfacciata e netta sembra davvero uscire da un’altra epoca, un altro cinema. Anche se un tempo i film di destra li facevano di certo più divertenti, ironici, e capaci di non far morire il discorso filmico dentro quello retorico.

Nel suo voluto e palese anacronismo Lone Survivor è quindi un film che sì, ci dice che a volte parlare in termini di posizioni politiche è ancora funzionale ad un discorso critico. Del resto è il film stesso a volerlo, a calarsi di peso nella dimensione di un’impegnata auto-glorificazione patriottica al cui centro viene posta la figura del soldato, emblema della parte migliore del Paese, quella coraggiosa e incapace di arrendersi, fedele ai compagni e pronta a dare tutto per salvarli. Essendo il regista del fondamentale Friday Night Lights, Peter Berg non è tanto interessato alla patria o alle motivazioni di sicurezza nazionale che ne hanno “giustificato” l’intervento militare; a lui interessa il soldato, in particolare il Navy Seal, confermando così la fascinazione di una certa America per le sue truppe speciali ma declinando tale attenzione nei termini della fratellanza, della squadra. Non per niente il primo sparo di Lone Survivor arriva dopo la prima ora di film, ovvero dopo che lo sguardo di Berg si è soffermato a lungo sulla sua squadra, indagata nel cameratismo delle dinamiche interne e nell’efficienza delle azioni esterne preparatorie alla missione. Nel momento dell’azione poi questa focalizzazione diventa una vera e propria enfatizzazione del corpo del soldato, che si carica di un peso cristologico veicolato dalle infinite ferite procurate nella battaglia ed sottolineate da Berg. Stigmate di corpi pronti a sacrificarsi e soffrire per tutti noi. Del resto è a loro che è dedicato Lone Survivor, contornato da foto reali e didascalie ma intriso di un discorso retorico che, a parte la poco condivisibile ideologia di fondo, finisce per dominare il film rendendolo cinematograficamente vacuo e insopportabilmente enfatico. Oltre che, perché da qui non si scappa, difficilmente digeribile dal punto di vista morale.

Nonostante questi motivi di interesse (il lavoro sul corpo, l’approccio di squadra di Berg), Lone Survivor infatti resta un film in cui i soldati protagonisti si rifiutano di uccidere dei civili non tanto per questione etiche ma per le conseguenze legali e mediatiche del loro eventuale gesto, lamentandosi di come “loro” (chi, i liberali? i democratici? quegli idioti pacifisti delle associazioni umanitarie?) vengano a dire ai Seals come dover svolgere il proprio lavoro. Perché sarà in effetti quella scelta a condannare la quasi totalità della squadra (ne sopravvivrà uno solo, che tornato a casa scriverà l’autobiografia da cui il film è tratto), e ciò Berg, autore anche dello sceneggiatura, lo fa pesare come un macigno. Ma ancora, come se lo spunto autobiografico di partenza potesse giustificare qualunque cosa, il film abbonda di ogni esercizio retorico possibile, dal rallenti alle pose plastiche passando per un numero infinito di inquadrature controluce la cui attenta calibrazione non può che stonare con il supposto realismo di fondo. Berg così si perde negli eccessi, tra accumuli di enfasi e sguardi estetizzanti del tutto fuori posto, confezionando un film che a parte sprazzi bellici particolarmente riusciti (la lunga sparatoria sul crinale della montagna rivela a momenti un mestiere non da poco) affoga nella sua retorica tanto irricevibile quando mal dosata.

Autore: Matteo Berardini
Pubblicato il 16/08/2014

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