Ralph Spacca Internet

di Matteo Marescalco
Ralph Spacca Internet - recensione film Johnston e Moore

Anche ai margini del Regno delle Principesse Disney c'è vita. Lo aveva dimostrato, 7 anni fa, Ralph Spaccatutto, l'antagonista di un videogioco arcade impegnato a provare ai suoi colleghi che sono le imperfezioni, i glitch e i disturbi nel sistema a strappare il cielo e a fornire vie di fuga in grado di aggirare i percorsi precostituiti. A dar vita alle nuove avventure di Ralph e Vanellope in Ralph Spacca Internet sono Phil Johnston e Rich Moore, lo stesso duo alle spalle di Ralph Spaccatutto e di Zootropolis. E si ritorna ancora in una sala buia o nel retrobottega di qualche bar, in cui pulsano le luci di tanti videogiochi che offrono ore e ore di divertimento a 8-bit. Questa volta, però, c'è una novità. A causa di un incidente al volante del suo arcade, Vanellope rischia di rimanere senza vita. L'unica soluzione è uscire dalla gabbia della sala giochi e immergersi nell'infinito universo di Internet, reso raggiungibile dalle autostrade virtuali inaugurate dall'arrivo del wi-fi. L'obiettivo è raggiungere Ebay, uno strano magazzino che vende oggetti in gran parte usati, e ordinare un articolo di ricambio per il videogame di Vanellope. Ma su Internet ogni cosa ha un prezzo, e quest'avventura potrebbe costare cara al forte sentimento di amicizia che lega Ralph e Vanellope.

Uno dei principali pregi di Ralph Spacca Internet è aver trasformato il mondo del world wide web in qualcosa di tangibile e di fisico. Come accaduto in Inside Out, anche il film di Johnston e Moore prova a rendere palpabile l'impalpabile. Nel film Pixar, toccava alle emozioni primarie e ai labirinti dei sentimenti assumere un volto e un aspetto; qui, il gigantesco universo di Internet è rappresentato come fosse un aeroporto del futuro. Metropolis, Blade Runner, la catena di montaggio Ford e King Kong sono i primi spettri referenziali che vengono in mente. Il caos nevrotico dell'universo digitale è riprodotto in ogni sfumatura. Infatti, a trovare spazio è sia Oh My Disney, il sito ufficiale del colosso americano rappresentato, ovviamente, come un gigantesco castello-parco di divertimenti che ospita al suo interno tutte le creature Disney, sia l'anfratto periferico del darknet, popolato da pop-up e malware con felpe e cappuccio.

Insomma, a scapito di un'elaborata costruzione narrativa, a far da padrone è l'elemento visivo. L'esplosione di colori e di tridimensionalità della CGI vanno a braccetto con il design dei personaggi secondari che popolano il mondo dei videogiochi arcade. Il nitido fulgore delle immagini si appoggia ad un racconto costruito su svolte prevedibili ma orchestrate in modo tale da agire sui giusti accordi emotivi di grandi e piccoli. Ma il luogo ideale in grado di elettrizzare maggiormente lo spettatore è proprio Oh My Disney, dove trovano posto i membri del Marvel Cinematic Universe e di Star Wars, Biancaneve, Cenerentola, Merida, Woody, Buzz e persino i pinguini di Mary Poppins. Come un Ready Player One di casa Disney, Ralph Spacca Internet abbatte ogni confine spazio-temporale e riallaccia le linee e i flussi costruiti nell'arco di quasi 100 anni per i propri spettatori.

Costruendo una memoria interna, il film riavvolge la propria cosmogonia di riferimento e la affida al sostrato del linguaggio universale per eccellenza. Il tema della ricerca di identità è comune a tutte le fiabe e l'universo Disney è chiamato in causa per aiutare Vanellope a trovare la propria via. Il coming-of-age della principessa sui generis chiede di accettare il tempo che passa come parte della propria identità e non come una torre che isola da un mondo distante e ormai divenuto incomprensibile. È in questo senso che Ralph Spacca Internet consente la convivenza di un nuovo contesto e delle sfide epocali Disney in cui si muove ciò che è eterno.

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Phil Johnston Rich Moore John C. Reilly Sarah Silverman Gal Gadot 112 minuti
USA 2018
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Lost in Space

di Mattia Caruso
Lost in space - recensione serie tv netflix

Non ci fossero stati in mezzo un lungometraggio (discutibile) e la rivoluzione seriale più importante di tutti i tempi, parrebbe quasi venire direttamente dal passato un prodotto come Lost in Space, serie originale Netflix ispirata all'omonimo telefilm di culto del 1965.
Perché, se è vero che l'odissea spaziale della famiglia Robinson – tra schianti su pianeti sconosciuti e inospitali e una lotta per la sopravvivenza sempre più simile, episodio dopo episodio, a una corsa contro il tempo – non è certo priva di attrattiva, a partire dal suo solido impianto visivo ed effettistico, è altrettanto vero che la continuità con il passato leggero ed edulcorato della serie andata in onda per tre anni sulla CBS è garantita dal senso stesso di un'operazione che ha dell'archeologico, riesumazione spiazzante di un mondo riportato alla luce senza eccessivi strappi o stravolgimenti.

È proprio da quel passato intriso di conservatorismo che la serie reboot creata da Matt Sazama e Burk Sharpless e prodotta da Neil Marshall decide infatti di ripartire, accantonando gli esiti infelici del film di Stephen Hopkins del 1998 (Lost in Space – Perduti nello spazio) e aggiornandosi alla serialità ai tempi di Lost, pur mantenendo intatto il suo nucleo fortemente tradizionale.
Che il cult di J.J. Abrams abbia fatto, d'altronde, da modello principale alla vicenda di questi naufraghi spaziali – dall'impostazione corale al gusto per il mistero, dai flashback rivelatori ai colpi di scena – è evidente sin dal principio, ma è altrettanto chiaro come questo modello rimanga un'ispirazione di facciata, che la serie è incapace di portare a fondo limitandosi ad imbastire risvolti e percorsi narrativi costantemente abbozzati e mai realmente approfonditi.

Il risultato è uno sci-fi diluito e stemperato nei toni del family drama e nelle logiche di un politicamente corretto imperante, in cui tutto, dalla scrittura superficiale dei personaggi (tra cui spiccano il capofamiglia del Toby Stephens di Black Sails e, soprattutto, l'inedito Dottor Smith di Parker Posey) allo svolgimento (quasi sempre) lineare degli eventi, sembra partecipare a questa visione estremamente tradizionale e poco complessa.

Nell'anno di Annientamento e di un'idea di fantascienza “alta” e lungi dall'essere conciliante, Lost in Space va così nella direzione opposta, mostrandosi per quello che è (o per quello che vorrebbe essere): un'epopea avventurosa e ben curata per tutta la famiglia, senza quegli elementi di criticità o disturbo che la (apparente) confezione di sci-fi contemporanea farebbe supporre. Un obiettivo, quello di farsi prodotto confortante e sicuro per famiglie, che la serie però non centra appieno, presentando un'idea di intrattenimento in cui, paradossalmente, è proprio l'azione a latitare in una vicenda che vorrebbe emulare apertamente l'estetica e le dinamiche del più classico dei blockbuster ma che, proprio come i suoi personaggi, non riesce a uscire dal ristagno in cui è intrappolata.

Lineare e bidimensionale, Lost in Space arranca così per dieci episodi dagli intrecci elementari e dai colpi di scena spesso inconsistenti, riservandosi solo nel finale di stagione un cliffhanger degno di nota. Un salvataggio in extremis, per una serie datata che, tra una quotidianità simulata e posticcia e un universo (narrativo) abbandonato per lo più a se stesso, non si rende conto di esser nata fuori tempo massimo, lontano oramai dai gusti di quella famiglia ostinatamente inseguita e posta al centro della sua narrazione.

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Toby Stephens Parker Posey Ignacio Serricchio Molly Parker 1 stagione da 10 episodi
USA 2018
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Old Man & the Gun

di Saverio Felici
Old Man and the gun - robert redford recensione film

Succede che certi film finiscano tolti dalla potestà del proprio regista e consegnati ai posteri come prodotti personali di un attore. In pochi, in occasione del suo anniversario, hanno ricordato che era stato John G. Avildsen a dirigere Rocky, e non Stallone stesso. Succede. Quando l'immedesimazione tra personaggio e interprete è così marcata, così evidente, diventa impossibile pensare che quella storia non sia parto dalla mente del suo stesso protagonista. David Lowry, regista e scrittore di Old Man & The Gun, è un tipo particolare, “autore” come lo si intende in America (cioè: creativo intellettuale e indipendente, almeno finché non gli viene offerto il remake disney di Elliott il drago invisibile), e personalità quantomeno interessante, tra quelle emerse in questo decennio. Ma questo film non gli appartiene. Dalle prime immagini promozionali, dalle voci dal set, fino alle presentazioni per i festival di mezzo mondo e l'uscita americana, Old Man  & The Gun è stato annunciato essere l'ultimo film di Robert Redford. Ed è diventato il suo.

La storia del sessantenne Forest Tucker (Redford), affiancato da una coppia di geriatrici complici (Danny Glover e Tom Waits), che dopo una vita passata ad evadere di prigione si dedica alla rapina in banca “di classe” (senza sparare, senza urlare, consolando le cassiere terrorizzate) non poteva avere nessun altro volto se non quello dell'eterna simpatica canaglia d'America. Robert Redford, l'uomo che non ucciderebbe mai, che non può essere cattivo, che a ottant'anni non chiede altro che di imbarcarsi in un'altra storia d'amore con Sissy Spacek. Ma all'ennesima evasione, Tucker sentirà il peso degli anni, la voglia di fermarsi, la stanchezza. E dovrà decidere.

Come in una sorta di comunione di intenti, Lowry e Redford invertono il tono che si potrebbe aspettare da un caper movie con anziani (un genere più proficuo di quanto non sembri). Poca commedia, niente azione. Old Man & The Gun è un film di saluti, di bilanci finali: si ascrive con stile e abilità in un'ottica di cinema crepuscolare da terza età, in  cui  lo sguardo  è perennemente rivolto all'indietro, a quello che i personaggi hanno fatto prima, al loro rapporto con questi fantasmi. L'indagine di Casey Affleck è uno strumento narrativo, non è di questo che parla il film. Come lui, così tanti altri pesi massimi come Glover e Waits (ma anche caratteristi leggendari come Keith Carradine e Isaiah Whitlock) finiscono  messi da parte.

Il film è tutto Redford. Che lo cannibalizza, lo fa suo, lo plasma a sua immagine e somiglianza relegando tutto il resto del comparto creativo (attori e regista) al ruolo di spalle. Ed è proprio questo che distingue Old Man & The Gun da, per dire, Vivere alla grande di Martin Brest. Il film di Lowry si trasforma sotto i nostri occhi in un'operazione esplicitamente metacinematografica, con  spazio per immagini di repertorio, ringiovanimento digitale, rimandi visivi espliciti a mille film, da Butch Cassidy a Tutti gli uomini del Presidente. E ovviamente la metafora: l'uomo che tutta la vita ha derubato banche grazie solo al sorriso e all'eleganza è in fondo il vecchio divo, che ha sempre recitato davanti a un pubblico, e come lui sente avvicinarsi il momento di farsi da parte.

Old Man & The Gun è dunque un poliziesco a metà. Come il suo hemingwayano titolo lascia supporre, non vuole tenere gli spettatori sulla punta della sedia con il racconto di una rapina ad alto rischio (il pericolo non si sente mai), ma spingerli a fare i conti con l'avvicinarsi della fine, del come affrontarla. Con tanta piacioneria americana (il suo protagonista è un buono a tutti gli effetti, senza traccia di ambiguità: d'altronde, è Robert Redford!), ritmi lenti, e tono da commossa festa di pensionamento tra amici.

Tutto in Old Man & The Gun vive per il suo divo. Sembra che tutto il progetto, in realtà in produzione da anni e tratto da un celebre articolo-inchiesta del 2003, non sia mai in fondo esistito se non come elegia della sua star. Vedere Old Man & The Gun senza curarsi di cosa rappresenti per Redford è possibile, ma viene a mancare una parte essenziale della visione. È un film di congedo, che pure si chiude con una nota beffarda, che sembra rimandare ancora una volta a un prossimo colpo, un  prossimo film, come se la fine non debba arrivare mai, e ci sia sempre un'altra prigione da cui evadere, un'altra pallottola da cui guarire e un'altra famiglia da lasciarsi alle spalle. Redford potrebbe alla fine ripensarci, al suo ritiro (ci ha ripensato Clint Eastwood, a ottantotto anni). Ma il suo epitaffio lo ha scritto qui.

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David Lowery Robert Redford Casey Affleck Danny Glover Tom Waits Isiah Whitlock jr. 94 minuti
USA 2018
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Tre volti

di Alessandro Gaudiano
Tre Volti - recensione film Panahi

Dopo Taxi Teheran, il regista iraniano Jafar Panahi torna al volante per un nuovo viaggio in auto, una nuova incursione oltre il divieto di creare e mostrare. Questa volta, Panahi si spinge fuori dalla capitale, tra le alture del nord-est e verso la periferia di un paese immenso e ricco di ambiguità. Tre volti si accende con un piccolo mistero, con l’intenzione di parlare d’altro: di uomini e soprattutto di donne, di vita quotidiana e lotta altrettanto quotidiana, di vite e di prigioni.

Attraverso l’inquadratura tremolante di uno smartphone, le prime immagini del film sono quelle di una ragazzina impaurita. Marziyeh registra un video dove confessa la propria disperazione: la famiglia non le permette di studiare e diventare un’attrice. Dopo la confessione, la ragazza mette in scena il proprio suicidio per impiccagione.
Riemerso dal formato verticale e dalle immagini sgranate del telefonino, lo spettatore scopre che il destinatario del video è una nota attrice iraniana, Amin Jafari (Amin Jafari), a cui la ragazza fa appello. Un mistero da risolvere, un senso di colpa da fugare: il suicidio è vero o simulato? Ed è vero che la ragazzina ha provato più volte a contattare Amin, senza successo? A partire da queste domande, Amir e il regista (Panahi che interpreta ancora una volta se stesso) partono in auto alla volta del villaggio.

Tre volti è un film in viaggio, se non “di” viaggio: l’auto è una cabina di regia mobile, un luogo di incontro, uno spazio di reclusione forzata a partire dal quale l’autore costruisce un film giocato su barriere, muri e confini. Il viaggio esplode in un gioco narrativo dove tasselli documentari e di finzione sono accostati senza soluzione di continuità e dove emerge, prima del desiderio di tessere storie, quello di testimoniare.

Questo è il quarto film di Panahi da quando il governo iraniano gli ha vietato di realizzare film o viaggiare all’interno del paese o all’estero: un confino su cui il regista riflette attraverso le sue immagini e la sua messa in scena. Panahi riesce a trasformare i vincoli e i divieti in un’opportunità: Tre volti è ambientato quasi esclusivamente dentro e attorno il veicolo, che l’autore trasforma, volta per volta, in teatro di posa, spazio mentale, camera oscura da cui costruire un’immagine del mondo esterno. Oppure, a volte, un’auto è soltanto un’auto: un veicolo ingombrante, inadatto alla strada a senso unico che conduce al villaggio e che costringe a complessi rituali di segnalazione con il clacson per evitare tamponamenti e conflitti. Il futuro, tra le montagne, arriva solo a fatica, e quando arriva non è sempre equo: gli abitanti del villaggio si lamentano del fatto che ci sono più antenne che medici, e che la gente di città si fa viva solo quando ha bisogno di qualcosa e mai per dare loro una mano.

Dalla sua postazione di guida e di regia, Panahi interroga la tradizione e le paure del paese, dove le donne sono tenute sotto lo scacco del patriarcato: Amin, Marziyeh e anche l’anziana Sharazhad, stella dei tempi d’oro del cinema iraniano che l’autore immagina come esiliata al limitare di questo villaggio sospeso nel tempo, isolata e scacciata come una strega ma ancora orgogliosamente artista. Tre volti e tre generazioni che il regista immagina danzare insieme, all’ombra di una lanterna, protette dall’oscurità della notte e dal giudizio degli uomini che hanno stabilito i rigidi paletti delle loro vite.

La distanza tra Teheran e il paesino di montagna è anche temporale: la capitale è immersa nel caos del traffico e del rumore, è il calderone ribollente dove la ragazza vuole studiare cinema e andare incontro al futuro. Il viaggio verso le montagne riporta, invece, ad un passato tribale e tradizionale, sospettoso verso l’avvenire e legato ad un misticismo quasi pagano.
Quello di Panahi è, letteralmente e allegoricamente, un viaggio nel tempo, e Tre volti è da intendere, innanzitutto, come uno zibaldone di appunti, poesie, note di colore e fulminante bellezza. Con lo stile agile che gli è proprio, Panahi ci accompagna oltre la soglia di un Iran irriducibile a etichette e aggettivi perentori, invitandoci ad osservare e capire. Anche se è difficile immaginare un futuro roseo per Marziyeh, non tutto è perduto: l’autore sembra suggerirci che la ragazzina non è sola e che il desiderio di libertà è più forte di una lunga storia di repressioni e paure.

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Jafar Panahi Behnaz Jafari Jafar Panahi Marziyeh Rezaei 102 minuti
Iran, 2018
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Capri-Revolution

di Matteo Berardini
Capri - revolution recensione film

«Se ricerchiamo la vera origine della danza, se ritorniamo alla natura, troviamo che la danza del futuro è la danza del passato, la danza dell'eternità, che è sempre stata e sempre sarà la stessa. […] Solo i movimenti del corpo nudo possono essere completamente naturali. L'uomo, giunto al termine della civilizzazione, dovrà ritornare alla nudità: non alla nudità inconsapevole del selvaggio, ma a quella conscia e riconosciuta dell'uomo maturo, il cui corpo sarà l'espressione armoniosa della sua vita spirituale. […] Per questa ragione l'arte dei greci non è un'arte nazionale o tipica, ma è stata e sarà sempre l'arte di tutta l'umanità e di tutti i tempi. Quando allora io danzo a piedi nudi sulla terra, mi vengono spontanei gli atteggiamenti greci, proprio perché sono semplicemente atteggiamenti della natura»
Isadora Duncan – Lettere dalla danza

 

Spesso del Decamerone di Boccaccio, complice uno studio scolastico affrettato e instradato sui soliti binari, ci si limita a ricordare alcune novelle assieme agli elementi basilari della cornice: una dozzina di giovani di bell’aspetto e alto lignaggio, fuggiti da Firenze per evitare l’orrore della peste, decide di trascorrere il suo tempo recitando novelle di svariati argomenti, così da riempire le giornate e allietare i pensieri di tutti. In realtà il capolavoro del maestro fiorentino è qualcosa di decisamente più ambizioso, è una rifondazione ideale della società messa in atto intessendo tra loro le molte narrazioni condivise, un processo di creazione collettiva nato non tanto per sfuggire alla malattia quanto per erigere un nuovo mondo di cortesia e nobiltà da opporre a quello assoggettato alla crisi morale del suo tempo. In quanto narratori, i protagonisti di Boccaccio sono i creatori di un modello alternativo di società che entra in diretta opposizione con le macerie che ne circondano il rifugio. Incarnazioni di un’utopia di palingenesi da esercitare attraverso l’arte, vivono un sogno simile a quello perseguito dalla comune attorno a cui ruota Capri-Revolution, solo che al posto della narrazione Mario Martone pone la danza come cardine di questo processo rigenerativo.

Ispirato dall’esperienza storica della comune fondata a Capri dal pittore tedesco Karl Diefenbach, Martone chiude la propria riscrittura della giovane nazione Italia lavorando sui corpi e sui volti di una gioventù idealistica e romantica nella cui danza si iscrivono le preghiere e le immagini di un nuovo mondo, lontano tanto dalla macchina bellica che sta per cibarsi dell’Europa alle soglie della Prima Guerra Mondiale, tanto dalle utopie ideologiche che corteggiano l’uomo a cavallo dei due secoli, le sirene del Positivismo scientifico da una parte e quelle dell’insurrezione internazionalista dall’altra. Capri-Revolution si svela così un film intimamente legato all’esperienza de Il giovane favoloso, di cui conserva la matrice letteraria rilanciandola lungo un orizzonte universale capace di contenere avanguardie e suggestioni proprie di tanta arte e riflessione artistica del Novecento.
Non a caso le basi etiche ed estetiche della comune provengono per gran parte dal pensiero di Joseph Beuys, artista e teorico dell’arte le cui idee, parole e performance si innestano nel film come schegge provenienti dal futuro. Gli anni Sessanta infatti sono il periodo che vede nascere le idee di Beuys in relazione all’energia spirituale del calore, alla portata rivoluzionaria di ogni uomo e ogni gesto d’arte, al valore capitale che questa e la cultura e la sensibilità possono avere in una nuova economia immaginata a misura d’uomo. Il sincretismo temporale tentato da Martone abbraccia ogni aspetto artistico della comune fondata dal cristologico Seybu, compresa proprio quella danza che vediamo esplodere e rinnovarsi libera attraverso i corpi nudi dei ballerini, ma che dovrà verso la fine del suo percorso trovare una forma, sostituendo la struttura di un palco alla spontaneità della foresta, affinché possa essere comunicata, condivisa, moltiplicata (ma di conseguenza mercificata).
Sbilanciato e irregolare come mai prima, Martone riversa in Capri-Revolution l’ambizione sfrenata di raccogliere enigmi, contraddizioni e speranze del Novecento, tornando a contatto con la tradizione teatrale attraverso il corpo scenico, quei corpi nudi, illuminati, naturali, che assorbono nelle loro movenze la complessità delle grandi utopie del secolo con uno slancio che sfalda il racconto e cattura magnetico lo sguardo.

Per dare forma ad un gesto cinematografico tanto grandioso, Martone e la sua sceneggiatrice Ippolita Di Majo pongono al centro del racconto la bella Lucia (bravissima Marianna Fontana), figlia e sorella di pastori che si ribella al suo destino famigliare spinta da una fame di libertà e scoperta. Lucia infatti finisce preda del fascino di Seybu e della sua comunità di artisti e intellettuali, uomini e donne che si sono ritirati tra gli anfratti più nascosti di Capri per condividere assieme l’utopia di una vita lontana dai dettami della società moderna. Al polo opposto del suo orizzonte di crescita, della sua fuga da un mondo contadino ancorato al rigore della tradizione, Lucia troverà Carlo, un socialista che esercita la professione di medico e professa l’interventismo appassionato, illuso che la grande macelleria bellica possa rivelarsi il palco ideale per l’affermarsi di nuovi equilibri sociali.
Costruito su illusioni politiche o ideologiche, chiese laiche o spirituali, Capri-Revolution è il film di Martone che più si apre alla fede, alla necessità umana di credere in qualcosa, terrena o metafisica che sia. Lucia diventa così la similitudine dell’Italia tutta, una nazione ancora giovane e ingenua che oscilla tra razionalità e spiritualità. In questa scissione però il film tenda a svelare la sua natura schematica, progettuale, di cui pagano il prezzo i personaggi, privi di psicologie e identità proprie. E tuttavia è difficile non farsi coinvolgere dal coraggio messo ancora una volta in campo da Martone, l’unico regista italiano capace oggi di far propria la tradizione didattica di Rossellini per applicarla all’immagine televisiva RAI, delle cui logiche questa trilogia storica evidentemente si nutre ma come un tarlo dall’interno, sovvertendone i meccanismi per arrivare ad una forma altissima di cinema ontologicamente nazionalpopolare, efficace, colto e quanto mai importante.

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Mario Martone Marianna Fontana Reinout Scholten van Aschat Antonio Folletto Donatella Finocchiaro 122 minuti
Italia, Francia 2018
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Noi credevamo

di Pietro Masciullo
Noi credevamo - recensione film Mario Martone

«L’albero è stato piantato, con delle radici malate, ma è stato piantato».

Scrive così Cristina di Belgiojoso al deluso repubblicano Domenico, in quel fatidico 1862, l’alba della nazione. Prima, però, c’è stata tutta la “credenza” e la disillusione di un sogno lungo quarant’anni che ha attraversato l’Italia: il Risorgimento visto come rivoluzione mancata e scintilla di libertà ammansita. Noi credevamo è uno dei film italiani più importanti e decisivi del XXI secolo: quattro atti per un’opera-mondo che racchiude istanze e sentimenti, erranze e narrazioni, passioni e riflessioni, documenti e monumenti di un’intera generazione di repubblicani e monarchici, politici e politicanti, ideologi e insurrezionalisti, letterati e teatranti. Liberamente tratto dall’omonimo libro di Anna Banti, il film di Mario Martone si distacca volutamente da qualsiasi agiografia sulle tappe fondamentali del Risorgimento per incunearsi subito nelle pieghe degli eventi, illuminare le zone buie, mettere in ellissi le grandi suture storiche e far luce sulle grandi fratture sociali relegate all’oblio dalla storiografia ufficiale. Un film coraggiosissimo nell’insistere con fiducia sul paradigma della complessità in un tempo (il nostro) così attratto dalla semplificazione perenne del passato.

1828. Si inizia dall’incendio di Bosco, nel Cilento, dove alcuni rivoltosi vengono decapitati dall’esercito borbonico che per vendetta incenerisce il paese. L’episodio spinge tre ragazzi del posto (Salvatore, Angelo e Domenico) ad affiliarsi alla Giovine Italia di Mazzini e contribuire al suo sogno rivoluzionario... da quel momento in poi seguiremo i loro destini nei successivi quattro decenni. Martone immerge i suoi protagonisti nel dibattito politico in atto, li rende automi spirituali intrisi di istanze politiche, sociali, culturali, declamate con impeto intimamente teatrale. Nel contempo però (in una straordinaria contaminazione) supera ogni sovrastruttura con la potenza delle emozioni prime, con il dato reale del set e con l’insistenza dei primi-piani sul paesaggio dei loro volti. Proprio come nella splendida sequenza dell’incontro tra il “figlio del trappitaro” Salvatore e la “leggenda” Giuseppe Mazzini: un incontro decisivo che sottende un attentato al Re Carlo Alberto, risolto però sugli occhi del ragazzo che scrutano il volto di Mazzini in un mix di paura e devozione, tensione e candore, stupore e sospetto.

Il tempo passa. Dal Cilento a Parigi, da Torino al carcere di Montefusco, da Londra a Roma… durante il cammino dei suoi tre personaggi fittizi Martone ci fa incontrare figure storiche come Cristina di Belgiojoso, Carlo Poerio, Sigismondo Castromediano, Felice Orsini, Simon Bernard, Antonio Gallenga, Francesco Crispi, l’ombra di Giuseppe Garibaldi e poi ovviamente Mazzini. Una maschera di cera rosa dai rimpianti e dalla responsabilità che puntella il film come anima fiera e ferita. Le musiche di Giuseppe Verdi, Vincenzo Bellini e Gioachino Rossini innestano umori d’opera in questa paradossale gestione rosselliniana degli spazi del set. Martone, quindi, assorbe e restituisce con straordinaria naturalezza la memoria cinematografica di 1860 di Blasetti (citato nella sequenza iniziale), di Senso e Il Gattopardo di Visconti, de La pattuglia sperduta di Piero Nelli, poi di tutto il Rossellini didattico delle biografie televisive, per concludere con echi del Bertolucci di Strategia del Ragno o Novecento. Un film vertiginoso, sì, che nell’enorme lavoro sul fuori campo trova la sua più alta mediazione estetica: Martone relega alla memoria ufficiale dei “libri di testo” ogni evento saliente della storia patria per concedere al cinema il privilegio di indagare “solo” le contrastanti e ambigue passioni umane. Ossia la credenza primigenia e pura di Salvatore, quella malata e violenta di Angelo (che verrà condannato per il fallito attentato a Napoleone III), infine quella sofferta e riflessiva di Domenico, che diventerà lo sguardo (dis)illuso del nostro film. Liberamente or piangi

Il sogno di un’Italia libera(ta) e repubblicana si trasforma pian piano, con l’intervento dei Savoia e di Cavour, in Italia unita ma monarchica. Dal 1828 al 1862 la riunificazione del Paese segnerà la progressiva separazione degli ideali originari dalla realtà politica imponendo scelte di compromesso e relegando ogni memoria privata all’oblio della storia. Ma il cinema si ribella: l’uomo col canarino, omaggio a Il cardillo addolorato di Anna Maria Ortense, getta un ponte ai successivi film di Martone in una magnifica trilogia ideale (con Il giovane Favoloso e Capri-Revolution) basata proprio sulle persone e sui sentimenti come motore nascosto della storia. Un film di impressionante lucidità e urgenza, dove le pulsioni vive e contrastanti che hanno generato (e generano ancora) l’Italia si coagulano nell’inesorabile declinazione all’imperfetto di ogni ideale originario. Noi credevamo…

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Mario Martone Luigi Lo Cascio Valerio Binasco Francesca Inaudi Edoardo Natoli 170 minuti
Italia 2010
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February – L’innocenza del male

di Gian Giacomo Petrone
February - l'innocenza del male - recensione film perkins

Il variegato universo horror è sovente abitato da film che tentano di aggredire percettivamente lo spettatore, per vellicarne le emozioni più immediate e per stimolarne le reazioni psico-fisiche che ne sostanziano la natura di essere umano. Tuttavia, capita talvolta di imbattersi in titoli che, differentemente, agiscono a un livello più recondito, apparendo magari come corpi estranei rispetto al genere: in apparenza pigri e assorti, a volte resi asettici da un’astrattezza ai limiti del metafisico, essi possiedono – nei casi più riusciti – la rara capacità di scivolare impercettibilmente sottopelle, crescendo lentamente inquadratura dopo inquadratura, visione dopo visione, e toccando quelle medesime emozioni, anche se in modo più sottile e insinuante.

February – L’innocenza del male, esordio alla regia di Osgood “Oz” Perkins (primogenito di Anthony Perkins), si colloca senza tentennamenti su questo secondo versante, delineando una vicenda dagli incerti contorni narrativi, priva di forzature psicologi(sti)che e caratterizzata da un’attenzione certosina ai dettagli visivi e sonori. Ne emerge una partitura in levare, costruita su ritmi lenti, talora trasognati, sull’interazione fra gli attoniti personaggi e un ambiente spoglio e invernale, su una recitazione che agisce per sottrazione e in cui l’intonazione vocale (che scandisce poche ma sempre significative parole), l’espressione facciale e la postura corporea esprimono l’efficace lavoro sotterraneo svolto dagli e sugli attori.

Il racconto procede attraverso lo sviluppo di due storie in apparenza simultanee e non collegate fra loro; un finale spiazzante ricollocherà le tessere del puzzle in un disegno radicalmente diverso, sia dal punto di vista temporale sia da quello dell’identità dei personaggi e del significato delle loro azioni.
In un collegio religioso ai confini dell’area metropolitana di New York, gli studenti si preparano al break invernale di febbraio, salvo due studentesse, la giovanissima Katherine (Kiernan Shipka) e la più matura Joan (Lucy Boynton), visto che i genitori di entrambe, per motivi diversi, risultano in preoccupante ritardo nel recupero delle figlie, che rimangono perciò bloccate nell’edificio. Altrove, una giovane donna, Joan (Emma Roberts), in fuga da un ospedale psichiatrico e diretta nella località dove è situato il collegio, viene soccorsa da una coppia di coniugi di mezza età (Lauren Holly e James Remar), che le offrono un passaggio in auto.

Se la dimensione più prettamente horror è affidata da Perkins a una soluzione di possessione “demoniaca” (delineata più esplicitamente con Katherine, in modo più strisciante e oscuro con Joan), con un approccio meno banale di quanto sia lecito supporre, visto l’abuso del tema, il vero fulcro della vicenda è costituito dalla solitudine, dal terrore dell’abbandono, dall’incombere di un mondo vuoto di umanità, in ogni senso. Del resto, la possessione potrebbe essere chiarita proprio come un sintomo delle problematiche testé esposte. Ecco allora che le due vicende parallele e in apparenza  non comunicanti (quando, in realtà, parecchi indizi lasciano ipotizzare verosimilmente che l’una sia il preludio dell’altra) risultano collegate dal fil rouge della deriva esistenziale, segnata dalla fragilità soggettiva nel fronteggiare un mondo costitutivamente invernale. Figli e genitori, giovani e adulti sono i duali attorno a cui ruota l’approccio antropologico e psicologico del regista, che focalizza la propria attenzione in particolare su una gioventù costretta dalle circostanze a misurarsi con l’incombere di una prematura e opprimente maturità. Perkins, in tali fragili rapporti, marcati da mancanze, distanze, ritardi (tutto appare inesorabilmente fuori tempo nel racconto: il dialogo, l’apertura all’altro, l’abbraccio consolante della presenza, l’elaborazione della morte e del lutto), inserisce sottilmente anche una dolorosa nota autobiografica, legata al difficile rapporto col celebre padre scomparso prematuramente.

D’altro canto, il procedere lento, dilatato, quasi a-patico degli avvenimenti aiuta il crescere sotterraneo della tensione e fa emergere con crudele efficacia la dissonanza degli scoppi di violenza, di cui si rendono protagoniste Katherine e Joan, una violenza ottusa e meccanica, operata da figure svuotate di ogni barlume di umanità e tuttavia massimamente fragili, in quanto (anche) vittime. La possessione diabolica da cui entrambe (l’identità delle due ragazze costituisce il coup de théâtre di un intreccio comunque dipanato in modo ellittico e oscuro) paiono dominate è uno dei molti punti di forza nel tratteggio dei due personaggi, nonché il veicolo dell’inquietudine di cui sono latori, soprattutto a causa della loro innocenza, essendo tramiti di un Male che, più che infero, appare immanente al mondo.

Perkins cesella un suggestivo impianto audio-visuale (con l’ausilio delle musiche elaborate dal fratello Elvis), attraversato da un fitto (e sagacemente “invisibile”) reticolo di soggettive, semi-soggettive e nobosy’shots, e fondato sul contrasto – simbolico prima ancora che percettivo – fra il territorio innevato e “indifferente”, l’edificio del college letteralmente disumanizzato, perciò vuoto, cupo e silenzioso, e i personaggi, sorta di sonnambuli in cammino verso il (o in attesa del) nulla. È un cinema ai limiti dell’astrazione, non privo di ambizioni autoriali forse premature e, certamente, non adatto a tutti i palati, ma se lo si lascia sedimentare nella coscienza, potrà insediarvisi per lungo tempo.

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Osgood Perkins Kiernan Shipka Emma Roberts Lucy Boynton Lauren Holly James Remar 93 minuti
Canada, USA 2015
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La regina di Casetta

di Riccardo Bellini
La regina di Casetta, Feserico Fei

Gregoria Giorgi è l’unica ragazzina di Casetta di Tiara, frazione di Palazzuolo sul Senio, sull’Appennino tosco-emiliano, che ancora resiste allo spopolamento cui è destinata con i suoi dieci, orgogliosi abitanti. Se Dino Campana avesse incontrato Gregoria forse l’avrebbe inserita, accanto alle ostesse faentine o alle opulenti matrone bolognesi, nel novero delle visioni femminee che popolano la sua poesia, ognuna regina e custode della propria città di cui incarna memorie ancestrali. Anche Casetta dunque ha la sua giovane sovrana. Ma la ragazza sta per concludere le scuole medie e tra dodici mesi dovrà abbandonare il paesino sperduto per iscriversi alle superiori. La regina di Casetta, ultimo documentario di Francesco Fei vincitore come miglior film italiano al 59esimo Festival dei Popoli, segue appunto l’ultimo anno di Gregoria nel borgo natio, muovendosi tra l’entusiasmo tipico dell’adolescenza verso una (nuova) vita che comincia e la nostalgia per un presente sempre più simile a un lontano passato.

La caccia al cinghiale, le nevicate, i giochi al fiume e i pettegolezzi delle serate estive con i «vecchini» del paese: la vita di Gregoria a Casetta trascorre scandita dai rituali di stagione di un mondo dove è ancora possibile trovare, come direbbe Campana, «La sanità delle prime cose». I versi del poeta di Marradi, - che nel 1916 proprio a Casetta consumò l’idillio amoroso con Sibilla Aleramo, tornando al borgo più volte da solo, - accompagnano qua e là il passare dei mesi, riscoprendo sotto la naturalezza di una vita semplice, un sentire diverso. Ma Fei non mitizza la vita di Casetta e quella della sua giovane abitante. Non trasfigura, come in Campana, la realtà comune attraverso il filtro dell’arte - soprattutto pittorica - e la visionarietà del poeta orfico. Al contrario, lo sguardo del regista si fa il più discreto possibile, lascia che siano le cose, la natura e le persone, il tempo e i suoi cicli a parlare di sé, osservando nel suo dipanarsi quotidiano la comune eccezionalità di una storia giunta a un momento cruciale del proprio percorso.

La regina di Casetta è infatti una riflessione sul tempo e sul cambiamento, che intreccia abilmente la vicenda del paesino toscano alla storia unica e al tempo stesso universale di Gregoria, costretta a confrontarsi con le paure ma anche le speranze - come il sogno di diventare chef di una nave da crociera - connaturate alla delicata transizione dall’infanzia all’adolescenza. Un film non a caso costellato di continui riti di passaggio, in cui aleggia la consapevolezza che, all’arrivo del prossimo autunno, per Gregoria - e un giorno non molto lontano anche per tutta Casetta - nulla sarà più come prima. Grazie alla delicatezza di Fei, al rispetto dimostrato nel non forzare mai eventi e situazioni, lo spettatore entra a far parte del mondo di Gregoria a poco a poco, partecipando ai suoi turbamenti e alle sue gioie, alla vita serena di un mondo quasi perduto che si dischiude in tutta la sua magica prosaicità.

La storia di Gregoria, grazie soprattutto al modo con cui La regina di Casetta sceglie di raccontarcela, ha la forza di parlare a tutti con l’immediatezza di un occhio sincero e attento alle piccole, importanti cose della vita. Una storia, infine, di luce e di ottimismo, un percorso di maturazione nella consapevolezza che ad una realtà che lentamente scompare - in quanto protesa all’immaterialità chimerica di campaniana memoria - succeda una vita capace di trovare la propria strada nel mondo, nel farsi coraggio per le sfide che l’aspettano.

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Francesco Fei 79 minuti
Italia, 2018
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Bohemian Rhapsody

di Matteo Marescalco
Bohemian Rhapsody - recensione film Synger

Annunciato nel 2010 e girato a partire dal 2017 (in mezzo è da registrare anche l'abbandono del progetto per divergenze creative da parte di Sacha Baron Cohen), Bohemian Rhapsody, iniziato da Bryan Singer e terminato da Dexter Fletcher, si è affermato come uno dei film dal processo produttivo più travagliato degli ultimi tempi. E, in effetti, è possibile affermare che questi continui saliscendi e le spinte centrifughe a cui è stata sottoposta l'operazione siano quanto mai in linea con l'esistenza del personaggio che il film omaggia.

In un certo senso, tutto inizia e tutto termina con la leggendaria performance di 20 minuti in occasione del Live Aid del 1985. Quattro canzoni bastarono per mandare in visibilio il pubblico dei presenti e dei telespettatori di tutto il mondo e per abbracciare l'immortalità del mito. Il Freddie Mercury portato in scena nel biopic di Singer era già Freddie Mercury quando ancora non si faceva chiamare in quel modo. Nel percorso di vita di Farrokh Bulsara, è inscritto il più tradizionale percorso che caratterizza lo schema di un biopic: infanzia modesta, trauma, l'ascensione con una serie di conseguenze da pagare, la caduta, la rinascita con redenzione e, infine, la morte improvvisa. A questo schema si aggiungano una fisionomia quanto meno singolare, la divina estensione vocale di quattro ottave e la galoppante energia, unita al gusto per l'eccesso e lo spropositato - aspetti che hanno trasformato Mercury in uno dei più grandi performer di tutti i tempi - per dare adito ad una serie di ottimistiche speranze nei confronti della buona riuscita del film.

Bohemian Rhapsody inizia con un flashforward, come se la prima sequenza fosse una premonizione divina, e ingrana ufficialmente a partire dal 1970, comprimendo, all'interno del suo racconto, i 15 anni di vita della band fino al Live Aid di Wembley. Dal primo incontro con Roger Taylor e Brian May in poi, il film costruisce un percorso edulcorato e agiografico che procede per accumulo di situazioni e non riesce mai a slanciarsi e a superare le tappe del biopic costruito per trionfare ai Premi Oscar. Il Freddie Mercury interpretato da Rami Malek è una tradizionale rockstar, con i suoi eccessi leggendari, che, tra cadute e risalite, desidera semplicemente sentirsi parte di una famiglia. Dopo una serie di errori, rinsavisce e prosegue sulla retta via. L'urgenza comunicativa esplosiva del vero Mercury, il suo volto dionisiaco e la sua energia poderosa, pur impossibili da riprodurre, nel film di Synger non vengono nemmeno sfiorati.

Piuttosto, ogni vignetta appare ossessionata dalla riproduzione millimetrica della forma del reale che racconta e rimane vittima dell'aura del personaggio che porta in scena. Ogni tentativo di fuga dai canoni è appiattito e addomesticato e il risultato è quello di una storia che si concentra unicamente su un personaggio trattato superficialmente e mai sviscerato. Il film non riesce mai ad assurgere al livello di rito collettivo sui demoni di Mercury, nemmeno quando la forsennata colonna sonora risveglia antiche sensazioni. Senza parlare, poi, di una serie di licenze in fase di sceneggiatura, che avrebbero anche giovato al film se fossero riuscite a piegare gli errori storici in punti di forza atti a creare un insieme spettacolare e narrativamente coinvolgente. Al contrario, la superficialità e l'assenza di immaginazione e di una ricostruzione storica più vera del reale sono il prezzo più duro che Bohemian Rhapsody si è ritrovato a pagare.

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Bryan Singer Rami Malek Lucy Boynton Gwilym Lee Ben Hardy Aidan Gillen Mike Myers 134 minuti
Regno Unito, USA 2018
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L'odore del sangue

di Domenico Saracino
L'odore del sangue - recensione film Martone

Un corpo nudo cammina su una striscia scogliosa immersa nel mare turchese. Pochi istanti. Poi lo vediamo nuotare, sott’acqua, e riaffiorare, mettersi supino, il viso e i seni verso il sole. Si fa strada, con difficoltà, tra la solidità delle rocce ricoperte di alghe e i tratti liquidi, avanza carponi verso un altro corpo nudo, maschile, disteso in posizione fetale, il capo poggiato sulla pietra asciutta, il cinto e le gambe abbandonate. I due amanti si stringono a sé, avviluppati in un abbraccio che ne fa un solo corpo. Il mare, sullo sfondo, è un gorgo limaccioso di alghe e smeraldo, torbido e impastato, come miscuglio di tempere. L’incipit di L’odore del sangue, film che Mario Martone dirige sei anni dopo Teatro di guerra, trasponendo liberamente un romanzo postumo di Goffredo Parise, ha tutto il fascino di quella compenetrazione panica che poi sarà elemento preminente in Capri-Revolution, ultimo lavoro ad oggi del regista napoletano.

Una comunione, quella tra uomo e natura, su cui Martone da sempre indaga, sensibile com’è all’influenza quasi geo-psicologica dell’ambiente sull’essere umano, condizione indispensabile per (ri)trovare equilibrio, sincerità, sentimento ed ispirazione (si veda anche il Leopardi de Il giovane favoloso). Ed è emozionante vedere come i due innamorati – Carlo (Michele Placido) più grande di Lù (Giovanna Giuliani) di almeno trent’anni – esprimano fisicamente, energicamente, tra ruzzolate nell’erba e rincorse nei boschi, l’impeto della passione e la spensieratezza dell’amore, sulle note di quella ballata struggente, senza tempo, che è Amore che vieni, amore che vai, in cui De Andrè ne canta tutta la mutevolezza e labilità.
Ma l’idillio bucolico dura poco, pochissimo. Una telefonata riporta Carlo in città, a Roma, dove lo attendono una stanca vita borghese, frutto del suo successo come giornalista e scrittore, e la moglie Silvia (Fanny Ardant), con cui vive da separato, in un rapporto aperto fatto di reciproche concessioni e conseguenti rivelazioni sulle proprie frequentazioni extraconiugali. Se Carlo frequenta Lù, una ragazza di campagna dal fisico androgino e dalla vitalità dolce, Silvia si è invaghita di un giovane muscoloso col “culto della forza”, un violento fascista (di quelli «che hanno ammazzato Pasolini», dice Parise nel libro, ambientato negli anni Settanta, a differenza del film) di cui per tutto il racconto non vedremo mai le fattezze. Una presenza misteriosa e minacciosa che riaccende la gelosia del marito e lo porterà verso una deriva che sembra ineludibile, al pari di quella del matematico napoletano Renato Caccioppoli, protagonista del primo film di Martone.

Ossessionato, anche di notte, dalla ricerca di un’immagine da associare ad un rivale cui non può neanche dare un volto, Carlo chiede ripetutamente a Silvia di descriverglielo in tutti i suoi particolari, soprattutto quelli più intimi, sessuali, trascurandone tragicamente gli aspetti psicologici e la pericolosità, come se il ragazzo esistesse soltanto in funzione fallica. Ne viene fuori il ritratto di una borghesia romana dalla sessualità perversa, persa nell’edonismo e nel voyeurismo più sfrenato, contrassegnata da una inerzia e vacuità esistenziale già abbondantemente portate sullo schermo da Antonioni (e a lui rimanda, inequivocabilmente, la scena ambientata tra i blocchi cementificati di Burri nel Grande Cretto di Gibellina).

Nonostante Silvia viva in prima persona la violenza, la prepotenza e l’inadeguatezza del giovane a cui si concede, da lei stessa definito in più occasioni «disadattato, confusionario, malato, ignorantissimo», non riesce a sganciarsi, masochisticamente, da questo rapporto imprudente e sembra anzi eccitata ferinamente dall’odore del sangue, della gioventù, di una brutalità vitale testosteronica. Una parafilia che arriva a mostrare chiaramente la propria natura sadica quando Silvia propone a Carlo di fare l’amore, perché «adesso sarebbe tanto più bello», dopo che lui ha provato a strangolarla per mettere fine ad una situazione diventata ormai insostenibile.

Alla fine, però, a mancare è proprio il dolore, quello vero e non finalizzato al semplice eccitamento sessuale. Una sofferenza che sia genuinamente sentimentale, ma anche semplicemente viscerale, qualcosa insomma che inneschi una reazione fisiologica, indirizzata ad abbatterne la fonte. A dominare è l’apatia grigia e consunta di una coppia finita, fatta di individui altrettanto svuotati di spirito (ri)costruttivo. Non è un caso che Martone scelga di raccontare tutta la vicenda, dai momenti più sereni e amorosi a quelli più melodrammatici, senza grandi variazioni di stile e trattamento registico. L’amore, quello vero, tra Carlo e Lù, è tutto nei primi, intensi minuti di L’odore del sangue, prima della telefonata che introduce il giovane contendente, prima che la gelosia e le pulsioni di morte prendano progressivamente il sopravvento, facendo svanire, come un ricordo d’estate, l’amore che venne, l’amore che andò.

Categoria
Mario Martone Michele Placido Fanny Ardant Giovanna Giuliani Sergio Tramonti 100 minuti
Italia 2004
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Larghezza massima
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