Il primo re

di Arianna Pagliara
Il primo re di Matteo Rovere

Tra l’esigenza di coinvolgere un pubblico ampio attraverso un linguaggio che sia anzitutto corporeo e istintuale e quella di esprimere la propria visione autoriale svincolandosi da prevedibili aspettative imposte da un soggetto tanto eloquente (la leggenda, il mito di fondazione) sta il nodo che è al centro dell’operazione complessa e faticosa, ma coraggiosa e avvincente, dell’ultimo film di Matteo Rovere. Film che muove, insomma, da presupposti che vivono un equilibrio assai precario e si impernia dunque su una sfida di non facile risoluzione. Per audacia e radicalità si oscilla qui tra l’indimenticabile Valhalla Rising (più astratto, onirico e introspettivo), l’estenuante e disperato Revenant e – per certi aspetti - il crudele e spettacolare Apocalypto. Ma sono input e suggestioni, quelle offerte dai film citati, che Il primo re assorbe e rimescola abilmente in un riuscito amalgama assolutamente nostrano.

L’epica, la leggenda, gli eroismi vengono – a un primo livello - rigettati per lasciare il posto al racconto della quotidiana lotta per la sopravvivenza dei protagonisti, che si muovono in un mondo inospitale e selvaggio dove gli Dei sono presenza minacciosa e incombente, il fuoco si teme e si adora, la spiritualità è angosciosa superstizione e le foreste sono infestate da spettri oltre che popolate da tribù bellicose e spietate. Remo è un semplice pastore improvvisatosi condottiero di un manipolo di uomini rabbiosi e logorati dalla fame, assieme ai quali, attraverso boschi e paludi, fugge dai cavalieri di Alba in cerca di una terra dove fondare una nuova città.

In breve Rovere restituisce, in un racconto felicemente essenziale, un universo primitivo e feroce in cui la violenza è l’unica soluzione per la sopravvivenza e ogni relazione – uomo-natura, uomo-Dio, uomo-uomo – è inevitabilmente scontro, opposizione, lotta. Se epica ed eroismo ci sono, non sono mai il presupposto ma sempre e solo la conseguenza di un agire – quello di Remo, continuamente chiamato a mettere alla prova la propria forza fisica e morale – estremo, extra-ordinario.

Sorretto dalla presenza magnetica di Alessandro Borghi, la cui esibita fisicità è strumento espressivo/comunicativo, dall’eccezionale fotografia di Daniele Ciprì (tutta penombre, riflessi di fuoco, giochi luce che filtra tra gli alberi) e dalla scelta, indovinatissima, di far parlare i personaggi in un protolatino cupo e masticato, Il primo re è un film sfacciato e intrepido, capace di rischiare tutto e – nonostante qualche perdonabile difetto – di vincere a pieni voti. Non teme il ridicolo nell’esaltazione e nella reiterazione della violenza come (auto)affermazione vitalistica, nella celebrazione della forza virile, nella descrizione del delirio di onnipotenza di Remo, perfetta rappresentazione di quella hybris che spesso accompagnava le gesta degli eroi del mondo greco. E tuttavia, allo stesso tempo, non mente: perché i corpi che qui vicendevolmente si aggrediscono e si straziano non sono (per fortuna) quelli levigati e tutti identici degli spartani di 300, ma sono corpi imperfetti, sporchi, spossati. E il Lazio non è più il territorio ameno e bucolico di un immaginario ampiamente diffuso, ma uno spazio sconosciuto e ostile, fatto di acquitrini insidiosi e foreste fitte e nebbiose, così come il (proto)latino non è ancora la lingua del nomos – la legge - ma piuttosto quella della physis, una natura arcaica e astorica che l’uomo non ha ancora, neppure lontanamente, assoggettato.

E’ innegabile, insomma, che al netto di qualche assolvibile squilibrio narrativo (la tensione si perde nella seconda parte, complice forse una sceneggiatura “già scritta” dal mito) l’ultimo film di Rovere risplenda per ambizione, forza e limpidezza.

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Matteo Rovere Alessandro Borghi Alessio Lapice Tania Garribba 127 minuti
Italia, Belgio 2019
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Glass

di Domenico Saracino
 Glass - Recensione film Shyamalan

Non poteva che chiudersi così, questa iperteorica, metalinguistica trilogia su quel grande, emblematico, contenitore di archetipi, mitologemi, che è il fumetto, avviata da M. Night Shyamalan nel 2000 con Unbreakable e proseguita poi, di recente, con Split. E cioè con un’opera finale che porta bene impresso il (sopran)nome del coniatore, del creatore. Quello figurato, mise en abyme, del signor Glass (e non certo quello in carne ed ossa, dall’altra parte dello specchio). Perché senza Elijah Price, l’uomo dalle ossa di vetro, destrutturate dalla osteogenesi imperfetta, non ci sarebbe stata trilogia alcuna, giacché a mancare sarebbe stata la dialettica stessa, il dibattersi delle forze: l’eroe ricalcitrante David Dunn (Bruce Willis) e la Bestia antagonista dalle multiple personalità (James McAvoy, ancora più ineffabile, nella sua abilità mutante, in quest’ultimo capitolo).
Mr. Glass è sempre stato il centro di tutto, punto di partenza e d’arrivo, colui che ha originato, innescato, messo in scena; il grande manovratore dalle ossa rotte ma dalla mente galoppante, ché all'immaginatore (e all’immaginario) non servono gambe muscolose ma occhi spalancati, fulminanti, che percorrono e sondano, vaporosi come fantasmi, la realtà. Facendola propria, fantasmagorizzandola appunto, trasfigurandola nel pensiero e nell’immagine con spirito infiammato di desiderio (ecco perché nessuno meglio di Samuel L. Jackson, con quei suoi sguardi folgoranti, avrebbe potuto interpretare l’uomo di vetro).

Glass è il regista, lo scopritore e il demiurgo, colui che plasma, attivamente, le storie, le scova nel reale a costo di fargli violenza, al prezzo di sacrifici inenarrabili, a rischio di perdere la propria umanità per l'unico, grande scopo di ridare all'uomo la cosa più importante di tutte: la fede. Che è fede nelle storie, prima di tutto. Fede nella loro capacità di dire a noi (e soprattutto alle nostre madri, proiezione dei nostri desideri più infantili, naturali e indecenti, impudici, quindi autentici, gutturali) che "no, non siamo stati un errore". Che avevamo ragione a credere. Ai fantasmi, al sogno, al mito. Che c’era davvero qualcosa di più grande ad accomunarci, preesisterci, sopravviverci. Ecco allora il fumetto come segno, codice, sistema crittografato; testimonianza, come visionariamente vagheggiato da Elijah, lasciata in eredità agli uomini per ricordar loro quanto possano essere potenti.

Le storie di Shyamalan sono sempre state metanarrazioni, storie che parlano del raccontare storie, dell’importanza che l’atto del parlare, del fabulare, riveste nella ritessitura delle nostre vite sgualcite. Storie che generano e rigenerano, feriscono e guariscono, come per Prairie Johnson e il gruppo di misfits che si riunisce per ascoltarla e aiutarla in The OA, altro esperimento, in questo caso seriale, in cui due autori di indiscussa personalità (Brit Marling e Zal Batmanglij) riflettono su quella che Arturo Mazzarella chiamerebbe la «potenza del falso». E del resto anche in Lady in the Water, film di Shyamalan del 2006, c’era un luogo, un residence, The Cove, in cui un gruppo di persone a vari livelli infrante, ignare di avere un dono, doveva fare la propria parte per salvare Story, creatura acquatica e dal nome piuttosto esplicito proveniente da un mondo altro, dimenticato. Tutti i protagonisti dei film di Shyamalan sono in fondo esseri alla deriva, che annaspano alla ricerca di senso, liquefatti dal fallimento personale e riforgiati dal racconto, dall’impulso ad articolare un processo di autocomprensione, e quindi autoguarigione, radicale.

Ciò che può rinvigorire gli eroi e ammorbidire i villain di Shyamalan non è la violenza spettacolare e redentrice, che infatti rimane fuori da tutti i film della trilogia, compreso Glass, ma la comprensione e l’accettazione pacifica della tortuosità della propria parabola esistenziale, la sensazione di avere ancora un ruolo da ricoprire sulla scena del mondo. Per sentirsi finalmente meno soli, frammentati, perduti, grazie soprattutto al recupero o alla (ri)scoperta di dinamiche famigliari, lato sensu (la centralità della famiglia nell’intera filmografia dell’autore è cosa nota). Persino una belva, allora, come la creatura che ha preso il posto di Kevin Wendell Crumb per proteggerlo dai traumi di un’infanzia straziata da terrificanti crudeltà materne, può tornare, anche soltanto per pochi istanti, al vero sé, nel tepore di un abbraccio.

Glass non è quello che qualcuno, ingenuamente, avrebbe potuto aspettarsi – sulla scia dei tanti cinecomics che proliferano nelle sale – ovvero la roboante resa dei conti fra tre creature dai poteri sovrannaturali, ma una tenzone, uno scontro tra prodotti del pensiero. Prima di essere corpi, David Dunn e l’Orda sono idee, modelli, scovati dalla mente di Elijah tra le maglie del mito, dei comics. Shyamalan porta avanti la tesi che i fumetti (e, per estensione, i media popolari) siano strumenti culturali con un compito ben più rilevante che quello di intrattenere. Ecco perché sovverte le aspettative degli spettatori che attendono di vedere lo scontro annunciato sul grattacielo («A true marvel») e invece devono accontentarsi di un combattimento non particolarmente spettacolare in un parcheggio. Svincolati dall’ossequio alle regole di genere, gli eroi possono liberare tutta la forza delle storie di cui sono portatori, per permettere a chi li eleva a guida ideale di affrancarsi dagli inquadramenti sociali, dalle dottrine, dalle coercizioni, dalle tirannie. E in quanto tali non possono che essere combattuti dal potere (la pseudoscienza della psichiatra Ellie Staple, interpretata da Sarah Paulson), che cerca in tutti i modi di normalizzarli, delegittimarli, smitizzarli.

Sta qui il messaggio politico, intriso di humanitas, di Shyamalan, che all’autoriflessione sul mezzo cinema e sull’arte popolare in generale ha sempre affiancato, come Zemeckis e Spielberg un genuino interesse per anime e spiriti (e le ultime opere di questi due immensi registi confermano, per l’ennesima volta, la loro capacità di miscelare sapientemente padronanza tecnica, istanza metalinguistica e attenzione all’elemento umano). Che in tempi di CGI sovrabbondante, SFX sfrenati e budget stellari non è mai scontato.

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M. Night Shyamalan Bruce Willis Samuel L. Jackson James McAvoy Sarah Paulson 129 minuti
USA 2019
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Dove bisogna stare

di Paolo Di Marcelli
Dove bisogna stare di Daniele Gaglianone

Che quello dei migranti sia un falso problema, in Italia, oggi, è un fatto. Almeno non il principale, dato che istruzione, lavoro e i salari tra i più bassi d’Europa rappresentano un allarme ben più significativo. C’è da fare i conti, tuttavia, col problema della percezione della realtà, travisata da una parte dell’elettorato (modesta, se rimaniamo sui risultati delle urne; preoccupante, secondo gli ultimi sondaggi) per colpa di pseudo ministri e media leghisti a caccia del capro espiatorio. E allora dagli al negro, “che se ne torni a casa che qui non c’è posto che anche qui stiamo messi malissimo”.

Dove bisogna stare tenta di fare chiarezza. Daniele Gaglianone sceglie di seguire le vite autentiche, comuni e tuttavia audaci di quattro donne coinvolte nell’assistenza ai profughi, i quali non compaiono quasi mai e quando entrano in campo si nascondono. Il lavoro, appunto, perché aiutarli è, intanto - tentando kafkianamente di rispettare la legge - una professione tra le più nobili. “Arricchente”, come afferma una delle protagoniste. Ma ci vuole anche una certa cultura, una visione del mondo cosmopolita che presupponga un’etica esemplare e la conoscenza profonda della complicata burocrazia che regola i flussi. Capiamo che però l’impiego di Jessica, Lorena, Georgia ed Elena è soprattutto una missione, perché di soldi se ne vedono pochi e la loro è più che altro un’umanissima abnegazione. Come ha affermato il regista, “la posizione dello Stato è quella, paradossale, di un assenza sempre presente”.

Presentato al festival di Torino e da poco in programmazione in pochissime sale (a Roma, in questi giorni, è all’Apollo 11), l’ultimo lavoro di Gaglianone si concentra sulle persone, piuttosto che sull’iter legislativo o sulle implicazioni sociologiche, perché sono queste a fare davvero la differenza. Se il problema dell’Italia non è l’immigrazione “clandestina” e se il fenomeno, in ogni caso, genera spesso attriti e malumori nelle collettività locali (come i bivacchi alla stazione di Como, cavalcati mediaticamente da Salvini senza dare la minima spiegazione delle cause), si evince dalle preziose testimonianze del documentario che i motivi sono da ricercare nella mancanza strutturale di una macchina organizzativa realmente capace di affrontare la questione.

L’eccessiva semplicità dei punti di vista (quattro donne, quattro generazioni, quattro provenienze e mansioni diverse) potrebbe rappresentare il grande limite del progetto, a prima vista incapace di affrontare la questione in tutta la sua complessità. In realtà, le parole, i volti, la quotidianità e le lacrime delle protagoniste arrivano più lontano di un’analisi organica ed eterogenea perché centrano in pieno il senso dell’assistenza, quello per cui esseri umani aiutano altri essere umani e tutto il resto rappresenta una sovrastruttura talvolta insufficiente. “Dove bisogna stare” è proprio lì, in quegli uffici, nei centri sociali e nelle case occupati o aprendo la propria casa a ragazzi in difficoltà ma è anche il triste imperativo prima di uno Stato e poi di un mondo alla rovescia che impedirebbe di muoversi liberamente al suo interno.

Nonostante la portata invisibile dell’operazione (che il cinema documentario in Italia non arrivi quasi mai al grande pubblico è un altro fatto), Dove bisogna stare possiede, dunque, una vocazione mainstream insospettabile proprio per la capacità di parlare alla pancia e al cuore del pubblico, evitando un discorso filmico particolarmente elaborato e lasciando invece fluire liberamente i racconti delle intervistate. Non è un caso, infatti, che i titoli di coda rivelino la collaborazione, oltre che con Medici Senza Frontiere, con Rai3-Doc3 e quindi, probabilmente, il passaggio sulla tv generalista e la successiva permanenza sui canali on demand. Ecco allora che l’estrema accessibilità dell’opera si iscrive nella precisa volontà di ristabilire la giusta percezione del fenomeno migratorio ricordando che l’aiuto umanitario si fonda soprattutto grazie a (uomini e) donne nei quali è facilissimo rispecchiarsi.
 

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Daniele Gaglianone 98'
Italia, 2018
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Rosso sangue

di Arianna Pagliara
Rosso sangue di Leos Carax

Ero un bambino stranamente silenzioso dicevano, stavo sempre in silenzio…ma non è vero, è il silenzio che sta dentro noi.

Anarchico, potente, disperato, Rosso sangue è una lezione di stile e assieme una meditazione sull’amore che qui è pulsione implosiva, che brucia la pelle, destinata ad autoannientarsi. Il protagonista Alex – ancora una volta Denis Lavant, quasi un alter ego del regista – è energia allo stato puro, che cresce, divora e distrugge. L’oggetto dei suoi sguardi, Anna – una giovanissima e incantevole Juliette Binoche, non ancora pittrice clochard sul Pont-Neuf – è una musa silenziosa, il cui volto è un paesaggio dolcissimo al quale accostare campiture di colore in forma di fazzoletti di carta stropicciata, per asciugare un pianto inarrestabile che è “come un’emofilia”. Giallo/blu/verde/rosso, mentre lui fa giochi di prestigio per ingannare il dolore di lei, che però è e resterà innamorata soltanto di Marc (Michel Piccoli).

Il plot da gangster movie fantascientifico non ha importanza, è un pretesto per raccontare una Parigi notturna e bollente – il clima impazzisce per il passaggio di una cometa – pericolosa e angosciante – una malattia mortale contagia tutti quelli che fanno l’amore senza sentimento. E’ il pretesto, ancora, per far camminare i personaggi sul filo del rasoio e metterli davanti alle proprie paure (Anna, il vuoto e il lancio con il paracadute), ai propri fantasmi (Alex, l’ombra del padre appena assassinato, il tentativo lacerante di sottrarsi a un destino già scritto) e ai propri desideri (l’amore soltanto vagheggiato tra Alex ed Anna, quello consumato e poi rinnegato tra Alex e Lise).

Tra i film di Leos Carax, spesso sovraccarichi, debordanti e perturbanti, Rosso sangue (nell’originale francese Mauvais Sang, sangue cattivo) è probabilmente il più limpido e fulminante. Se nell’episodio Merde del trittico Tokyo (ancora con Lavant) l’imperativo sarà la provocazione attraverso il disgusto, qui un Carax più giovane e forse meno disilluso sembra voler provocare attraverso la ricerca audace e disinibita della bellezza, una bellezza sempre sovversiva, ora tagliente e ora ruvida, che appartenga tanto ai modi della rappresentazione quanto all’oggetto rappresentato. La forma per la forma insomma ma, paradossalmente, senza andare a discapito dei contenuti che sono, in ultimo, universali (la volontà di autoaffermazione, l’amore e il desiderio, la seduzione del rischio, la morte). Privo di indugi nel ritmo denso e sostenuto (diversamente da quanto accadrà in Pola X e Holy Motors) Rosso sangue è autentica poesia visiva, ed è in questa sua sfacciata libertà espressiva che risiede la sua forza dirompente, che  fa di esso un eccezionale esempio di cinema oltre il cinema, oggetto luminescente e meraviglioso al cui fascino intrigante, nero e sanguigno è impossibile sottrarsi.

In questa Parigi di fine millennio già proiettata verso un futuro velenoso e ostile è molto facile morire - sui binari della metro oppure con un proiettile nella pancia - è impossibile stare fermi, perché c’è sempre qualcuno da inseguire o dal quale scappare – una ragazza sulla moto, una vecchia gangster americana, la polizia, o semplicemente la propria sorte avversa – ed è difficile non pensare all’amore - quello che tormenta Lise, strappata dal suo Eden con Alex (vedi le scene nel bosco) e rigettata in un universo metropolitano caotico e respingente, o quello che nutre il cuore di Alex di fronte ad Anna, che è in ultimo mera contemplazione estatica, tiepida traccia di speranza a illuminare le notti.

Pochi film possiedono, al pari di questo, tale immediatezza e al contempo tanta disinvoltura linguistica. Rosso sangue è intimamente notturno, con sprazzi di blu elettrico e rosso vivo a interrompere il buio (la predilezione di Carax per i colori primari è degna di un dipinto di Mondrian); primissimi piani e dettagli – occhi, mani, labbra, una sigaretta che viene accesa – sono sintagmi di un discorso che la macchina da presa isola, lentamente, uno alla volta, parcellizzando la realtà in un mosaico perfettamente calibrato, nel quale ogni frammento è un elemento autonomo che estromette il resto e tuttavia, al contempo, pungola il desiderio dello sguardo a cercare quel fuori campo tagliato. Una lacrima, un sorriso, una smorfia, poi una carrellata a inseguire la danza folle di Alex, quasi una corsa sulle note di Modern Love di David Bowie – forse una delle sequenze più avvincenti, e giustamente più note, dell’intero film.

Al suo secondo lungometraggio Carax è insomma già un maestro della geometria, del colore, del movimento, della relazione – qui spesso disgiuntiva, perché inoltre Alex è un ventriloquo – tra immagine e suono. Nel suo tormentato protagonista inscrive, a chiare lettere, l’attrazione fatale per l’abisso, la stessa che lo dominerà una volta “rinato” – stesso nome, stesso attore – nel successivo Gli amanti di Pont-Neuf.

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Leos Carax Michel Piccoli Juliette Binoche Denis Lavant Julie Delpy 116 minuti
Francia, 1986
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Boy meets girl

di Andreina Di Sanzo
BOYMEETSGIRL

Sans autre lieu que la nuit.

Alex, giovane anima perduta, vaga nella notte parigina, per i ponti della Senna osserva i baci degli amanti, con gli occhi pieni di un’inquieta illusione. Sognante alter ego di Leos Carax (al secolo Alex Christophe Dupont) e interpretato da un Denis Lavant agli albori, Alex è un aspirante regista, un cinéphile ostinato, tradito e abbandonato dal suo amore Florence.

Boy meets Girl, 1984, è il prodigioso esordio del ventiquattrenne Carax, inclinazione punk del lascito della Nouvelle Vague e votato al nero surrealismo dell’amato Georges Franju, un film che è un evidente atto di amore sullo sguardo. Alex non smette di essere spettatore: della città, dei suoi fallimenti, dell’amore impossibile con Mireille, di quella magica realtà notturna che lo trascina verso la tragedia.

Gli stacchi improvvisi, le cantilene sussurrate, il bianco e nero contrastato e le corse, quelle corse nella Parigi dei film del cuore, sono manifestazione dell’inevitabile influenza di Godard che qui diventa agitazione e caos del protagonista. Un giovane che non riesce a venire a patto con ciò che lo circonda. La notte è la sua casa e nella notte incontra Mireille, un’altra vagabonda, ormai orfana di amore che nella disperazione sceglie di ballare, sulle note di Holiday in Cambodia.

E la notte accarezza il surreale oblio dei due protagonisti: anche Mireille è stata abbandonata, due figure specchio coscienti di non poter fare altro che vagabondare in quella città-simbolo. Alex decadente e romantico, tratteggia la topografia dei luoghi memorabili del suo amore perduto. Ma l’incontro con Mireille è la presa di coscienza dell’inattuabilità dei sentimenti. Carax, assoluto nell’immaginazione, assoluto nell’espressione, cattura in una sequenza meravigliosa i dettagli dei volti che si parlano, non più personaggi ma occhi, labbra, pelle in un dialogo incessante seguito da un silenzio innaturale. I due innamorati, consapevoli della fine, viaggiano sull’autobus notturno verso ciò che già si aspettano, mentre il volto di lei incorniciato da un velo guarda al cinema di Dreyer.

Il primo film del regista e primo della trilogia a cui seguiranno Rosso Sangue e Gli amanti del Pon-Neuf, segna indelebilmente il suo percorso, quasi un tassello che anticipa il capolavoro Holy Motors, sintesi e morte del cinema. Alex come Monsieur Merde vuole perdersi per ritrovarsi, Merde nei personaggi che interpreta, Alex nella follia di quel vagabondare senza meta. Leos Carax si interroga sull’’irrealizzabile, il futuro della coppia è già scritto e forse l’unico amore possibile è quello narrato, quello delle parole che il ragazzo pronuncia quasi meccanicamente a Mireille.

Eppure, in questa totale assenza di speranza, Boy meets Girl grida allo stupore, alla magia, alla meraviglia del cinema, una carriera incendiaria che esploderà come i fuochi d’artificio nel suo film maledetto Gli amanti del Pont-Neuf. La fede nel cinema colma l’assoluta mancanza di fiducia dei protagonisti verso il mondo. Nella sequenza iniziale del film delle stelle fosforescenti sono attaccate alla parete, forse la camera di un bimbo, forse proprio quel bimbo che, con voce aliena, recita la filastrocca «Siamo qui, ancora soli. Tutto è così lento, così pesante, così triste. Presto sarò vecchio e tutto finirà, finalmente»
Una frase che sembra concludere qualcosa, una storia, un racconto, una fiaba, apre il film, come l’inizio di un sogno, forse lo stesso Alex che vive la notte allucinata della sua vita.

 

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Leos Carax Denis Lavant Mireille Perrier Carroll Brooks
Francia 1983
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Medeas

di Arianna Pagliara
Medeas di Andrea Pallaoro

Con una riflessione sul suggestivo esordio di Andrea Pallaoro, regista italiano emigrato negli States, andiamo a completare su Point Blank il dittico che costituisce, finora, la sua filmografia. Prima di realizzare Hannah, implosiva sinfonia fatta di dolore e solitudine tutta fondata sulla magnetica presenza attoriale di una eccezionale Charlotte Rampling (Coppa Volpi a Venezia 74), l’autore sceglie di confrontarsi nientemeno che con Euripide: una sfida coraggiosa e insolita per il suo debutto dietro la macchina da presa, splendidamente risolta con un’opera ammaliante e allo stesso tempo austera, dove il cinema è puro sguardo sull’interiorità lacerata dei protagonisti, raccontati – con un sentire quasi malickiano – anche nella loro profonda relazione con un paesaggio che non è sfondo ma specchio e, soprattutto, cassa di risonanza emotiva.

Prima di Pallaoro ci sono stati, tra gli altri, Pier Paolo Pasolini e Lars Von Trier (quest’ultimo con un’opera televisiva poco ricordata e invece straordinaria nella sua ricerca fotografica e cromatica, per altro basata su una sceneggiatura di Carl Theodor Dreyer). Ma il regista italiano – invero, saggiamente – non guarda a loro: sceglie invece un contesto preciso, l’America rurale degli spazi sconfinati, della quiete (apparente) e dell’isolamento, che scandaglia a fondo con un linguaggio che è poesia sofferta nel suo attentissimo minimalismo.

In questo luogo vibrante e assieme nudo, dove tutto sembra immobile e dove tutto invece precipiterà rovinosamente a causa di inarrestabili e devastanti tensioni sotterranee, si consuma silenziosamente la tragedia euripidea, però cambiata di segno: stavolta è un marito tradito, ingabbiato nella severità e nella rudezza del suo ruolo di pater familias fuori dal tempo, che aggredisce e distrugge ciò che crede di amare. E, come Medea, lo fa per vendicare con cieca violenza il disamore inammissibile dell’altro che gli è a fianco. Ma la madre e moglie descritta con tatto e sensibilità da Pallaoro è quanto di più distante dal cinismo e dalla freddezza del Giasone euripideo: è una donna che soffre dignitosamente un isolamento penoso, causato da una sordità che gli impedisce anche di parlare. Il suo amore e la sua dolcezza materna passano unicamente attraverso il corpo e la gestualità, e con le stesse modalità si esprime e si consuma la sua relazione clandestina che è disperato tentativo di fuga ed evasione ma al contempo ostinata dimostrazione di attaccamento passionale e viscerale alla vita e al mondo (tuttavia) indifferente e svuotato che la circonda. Il corpo dell’amante diventa allora la sponda contro cui si infrangono energia e desiderio assieme al senso di insoddisfazione che sembra opprimere la protagonista, una giovane donna che non può e non vuole sublimare l’irrisolto in una maternità pur vissuta con serenità e armonia.

Ma se nel personaggio femminile, benché mutilato nelle sue possibilità di contatto e comunicazione con l’esterno, l’interiorità – che è in fondo una traiettoria amorosa, un bisogno di dare e ricevere - riesce a sgorgare in qualche modo all’esterno, questo non accade per il protagonista maschile. La sua impossibilità a uscire da se stesso, la convinzione di dover aderire a una certa immagine di sé, la distanza che si allarga sempre di più tra lui e la moglie saranno la causa - ben prima del tradimento di lei - di un disagio rabbioso e angoscioso che si tradurrà, inevitabilmente, in una volontà di azzeramento, distruzione e autodistruzione. I cinque figli, vittime sacrificali, resteranno presi nella rete di ostilità e rancori che lega fatalmente e silenziosamente i due coniugi.

Parente prossimo dell’ipnotico e struggente Stellet Licht di Carlos Reygadas – per ambientazione e tensioni drammatiche ed erotiche sempre sottaciute – Medeas di Pallaoro possiede una perfezione e una raffinatezza stilistiche stupefacenti per un esordio (composizione delle inquadrature, fotografia, montaggio), unite a una penetrante capacità di osservazione tanto del mondo dell’infanzia – vedi le lunghe sequenze dedicate ai bambini – tanto dell’universo burrascoso e abissale dei sentimenti in senso lato.

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Andrea Pallaoro 97 minuti
USA, Italia
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Escape at Dannemora

di Leonardo Strano
Escape at Dannemora recensione miniserie

Nella carcassa di un realismo svuotato di epica Escape at Dannemora fa battere il cuore del suo racconto. La miniserie prodotta da Showtime, diretta da Ben Stiller e creata da Brett Johnson e Michael Tolkin, è infatti un’architettura audiovisiva che per organizzare la sua storia non tiene conto del peso di intrecci nervosi, tensioni muscolari e tracce spirituali, e usa solo lo scheletro della sua struttura formale per costruire il corpo della narrazione e la sua essenza e le sue parti. Non è un difetto, anzi, è l’estremo di un’operazione concettuale raffinata che è tutta grammatica e sintassi cinematografica, e che sceglie con coerenza e precisione come trattare il materiale della sua storia: l’evasione realmente avvenuta nel 2015 di due detenuti dal Clinton Correctional Facility grazie all’aiuto di una dipendente del carcere. Storia vera, da poco accaduta, evento di cronaca su cui ragionare a fondo e attraverso cui impostare una riflessione sul ruolo della riproduzione finzionale e sulla posizione della traduzione cinematografica della verità.

Come impostare il racconto del reale? Quale punto di vista utilizzare? Come gestire l’empatia prodotta dall’avventura narrativa? Sono interrogativi simili che presuppongono e anticipano questa scelta formale, e che trovano risposta in una precisa forma di minimalismo, che si adatta alla situazione di riferimento e organizza la narrazione in tutti i suoi dettagli per inseguire la piena verosimiglianza: la regia di Ben Stiller - fondamentale nell’indicare la direzione e distribuzione minimale degli elementi in campo; i personaggi – agenti narrativi in continuo spostamento; gli spazi – palcoscenico in cui concretizzare l’azione. Tutto sembra scarno ma è proprio nelle geometrie scheletriche che si addensa il contenuto del racconto e la riproduzione assume i connotati del realistico.

L’evasione di Richard Matt e David Sweat assume puntata dopo puntata le forme di una sinfonia lenta e apparentemente senza centro, ma in realtà coordinata per essere un corpo unicamente e organicamente teso alla riproduzione dei fatti, alla fattuale, fredda e congelante verità delle cose che sopravvive oltre le riflessioni sull’empatia e sul sentimento, sulle controversie etiche e sulle fragilità morali. Lo spettatore è turbato e affascinato dall’interpretazione mefistofelica di Benicio del Toro (Matt), dal portamento sofferto di Paul Dano (Sweat) e dal corpo viziato di Patricia Arquette (la dipendente basista Tilly) non per la natura finzionale della loro partecipazione ma per la credibilità presente nelle pieghe dei loro volti, dei loro corpi stanchi e sfatti, emblemi così evidenti della mitologia spiccia di un white trash che non è oggetto di farsa ma soggetto del dramma sociale. Le straordinarie prove attoriali non mimano il vero ma lo attualizzano nei gesti piccoli, nelle inezie, negli occhi e nell’azione. Azione che scorre in due spazi differenti e viene esaminata nelle zone dell’evidenza – i luoghi comuni della prigione – e rivelata nelle zone dell’inconscio – il labirinto di tubi che veicola la fuga, lo sgabuzzino della sartoria. Gli spazi sono attraversati con delicatezza dalla regia, che riunisce sotto la sua attenzione gli elementi dello spartito, in un crescendo di aderenza al reale che culmina nella volontà di non staccare mai e quindi di affondare nelle prospettive e nelle profondità della storia attraverso continui piani sequenza che provocano vertigini attraverso l’esposizione orizzontale e sintetica della cronaca che rovescia la potenziale analisi verticale – fatta di riflessioni sulle gerarchie, sulla classe, sull’impianto sociale – con un inseguimento che come linea retta unisce tutti verso il punto di fuga.

Escape at Dannemora evita di raccontare l’evasione come complessa e articolata vicenda sociale, rendendola cronaca lineare persa tra le sbarre di una cella qualunque. La complessità e l’intelligenza di questa serie risiede non a caso nello scarnificare l’evento da qualsiasi aggancio empatico, pur avendo alcuni raffinati momenti di introspezione psicologica. Il tutto senza patetismi, afflati glorificanti o ricatti emotivi, bensì grazie a un controllo maniacale sull’immagine e sugli interpreti, in virtù di un arco drammatico capace di riprodurre un evento realmente accaduto scegliendo validi punti da cui esaminarlo: legando piedi e mani degli spettatori di fronte alla violenza spoglia di effettistica, forzature e estetizzazioni; tagliando il fiato della finzione con un seghetto banale, usa e getta, brutale.

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Ben Stiller Benicio del Toro Paul Dano Patricia Arquette Miniserie da 7 episodi
USA 2018
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Leos Carax - Mirate al sesso!

di Samuele Sestieri
Leos Carax

Naked Eyes: una donna nuda mostra il seno, al posto dei capezzoli ha due occhi grandi che ci guardano. Siamo nel 2009, Leos Carax, regista maudit per eccellenza del cinema francese, non gira un film da dieci anni (se si esclude il cortometraggio Merde! del film a episodi Tokyo). Nei quaranta secondi di Naked Eyes è racchiuso il mistero del cinema caraxiano. Che è un cinema di sguardo e d'amore, di occhi nudi spalancati che ci riconoscono senza più filtri o mediazioni. Che siano gli occhi umidi di Juliette Binoche, quelli tristi dell’alter-ego Denis Lavant o perfino l’occhio di vetro bianco di Mr.Merde, lo sguardo dei suoi protagonisti vacilla sino a invocare la lacrima. Corpi liquidi, bagnati, traghettati dalla limousine/macchina da presa del suo cinema. Occhi scintillanti, traditi da un bagliore, da una luce che sembra venire direttamente dal muto.

Strano caso quello di Leos Carax: appena cinque film in poco più di trent’anni e un immaginario denso, gravido di passioni e di vita. Imprevedibile, disorganico e disarticolato, aperto a tutti gli scarti delle immagini, alle deflagrazioni e alle grida del funambolico Denis Lavant, figlio ideale di Buster Keaton e di un cartoon, con quella sua faccia vissuta a furia di interpretare Alex, protagonista della trilogia caraxiana (quella che comprende i suoi primi tre film: Boy Meets Girl, Mauvais Sang e Les Amants du Pont Neuf). Novello Rimbaud su celluloide, invisibile, reticente a concedere interviste, distrutto dal film-monstrum del cinema francese, il leggendario, sciagurato e bellissimo Les Amants du Pont Neuf paragonabile solo al ciminiano I Cancelli del cielo per come ha messo in ginocchio un’intera industria.

 

Mauvais Sang

 

La sua carriera inizia, alla stregua di molti registi cinephiles, tra le sedie della Cinémathèque française: l’imprinting godardiano (regista con cui arriva a dialogare nell'imperdibile corto Sans Titre, una sorta di risposta compendiaria a Histoire(s) du cinéma), la passione per Jean Epstein e le sue teorie fotogenetiche, il culto iniziatico per David Griffith. Il cinema di Carax comincia lì e prosegue con gli otto articoli per i Cahiers du cinéma, passaggio quasi obbligatorio dove perfino il fascino muscolare di Sylvester Stallone si insinua nei suoi occhi. A ventiquattro anni l’esordio, Boy Meets Girl cui segue il folgorante Mauvais Sang. Il cinema diventa un ministero di fantasmi vissuti sulla propria pelle.

Carax, madido di sudore e sangue, gioca a fare film illudendo tutti di essere l’ultimo discendente della nouvelle vague, poi li tradisce con improvvisi inserti pop e con la fascinazioni per il pot-pourri e il collage. Un cinema eterogeneo in continuo movimento, che muta al suo interno senza mai stancarsi di sperimentare. I fantasmi della memoria filmica si trasformano in nuove incarnazioni del desiderio: i primi piani di Lulù (Louise Brooks) rivivono godardianamente nel viso della Binoche. Gli amanti sul battello de L’Atalante diventano le ipotesi di un happy end impossibile di Les Amants du Pont Neuf. Tutto questo non ha nulla a che fare con la citazione o il postmodernismo: Carax ha interiorizzato a tal punto il cinema da farne una categoria esistenziale, un modo di leggere e di interpretare la vita. Le immagini si trasformano, il cinema esplode di rosso sangue, la furia selvaggia si scopre atto d’amore: Carax apre il vaso di Pandora. I movimenti epilettici di Denis Lavant diventano danze radiose e folli, inni al modern love del duca bianco. Il suo cinema traccia l'elegia del caos che ci abita: un musical ininterrotto che alterna estasi cromatiche e derive solitarie in b/n. Non è un caso che sarà Annette il nuovo progetto cui il regista francese sta lavorando da anni: finalmente un musical che è già maledetto, posticipato ogni volta in data da definire.

Noi di Point Blank non potevamo esimerci dal dedicare un dossier al suo cinema: che siano clochard o vittime del sesso senza amore, i personaggi caraxiani camminano, corrono, sbraitano, sbavano tra i resti delle cose. Per distruggerli “Mirate al sesso!” perché lì ritrovano se stessi. Sballottolati qua e là come palline del flipper (“Ho passato due anni davanti al flipper” racconta Carax sulla sua gioventù), lanciati come siluri verso sovrimpressioni, dissolvenze, sdoppiamenti, giochi ottici, sempre in lotta contro la morte, oscillano tra videoclip pop, lanterne magiche ed espressionismo tedesco. Ogni film di Carax riflette sul linguaggio e le sue mutazioni. Ossessionato dall’aurea magica del cinema classico, ne lascia tutti i resti al fuoco per vedere dove vanno le limousine di notte: che fine fanno i film quando non c’è più nessuno a guardarli? Le macchine (di trasporto e da presa) diventano sempre più piccole fino a scomparire. I supporti svaniscono, l’essenziale mira all’invisibile: buio. Così finisce Holy Motors, il più alieno dei film extraterrestri di Carax, una vera e propria bussola per orientarsi (o per perdersi?) tra le immagini del presente.

Infine, affrontare Carax significa riflettere sulle contaminazioni sinestetiche che abitano la sua intera filmografia: pensate alla bidimensionalità fumettistica di Mauvais Sang con tutte le smorfie e la caricature del pastiche. Significa cantare l’amore assoluto che sorge tra le macerie del reale, in una Parigi ricostruita in studio con l’ossessione di irrealizzare le proprie immagini come faceva Sternberg. Come se l’unica realtà del cinema fosse quella dell’emozione che ha bisogno di uccidere i propri padri per trovare tutta la sua verità. In lotta contro i media e le immagini codificate che lo hanno generato, Carax insegue un nuovo punto zero, una nuova dimensione fondativa: come Mr. Merde che l'autore stesso definisce felicemente l’infanzia dell’arte. Oltre ogni morale, non rimangono che la furia e il desiderio: Merde insudicia tutto con afflato anarchico, sputa, sporca, sbava, dichiarando guerra a qualsiasi ordine stabilito. Eccitato, trasforma l’oggetto del desiderio in una nuova Madonna da cui farsi cullare. Così Carax può permettersi di affidare il cinema intero a un’unica canzone, a un ultimo, disperato appello: Revivre!

 

LES AMANTS

 

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Se la strada potesse parlare

di Saverio Felici
se la strada potesse parlare - recensione film barry jenkins

Con Se la strada potesse parlare si può finalmente parlare di poetica per Barry Jenkins. Il regista americano, ora al terzo film, ne ha fatto una missione: partire da una tematica controversa, ed elaborarne la variazione sul tema in chiave soffusa, elegante, morbida come seta. La poetica dell'estetizzazione arty applicata a problematiche sociali complesse.
Il plot che If Beale Street Could Talk prende in prestito - dal romanzo del fondamentale e fino a qualche anno fa pochissimo tradotto autore James Baldwin - è volutamente esile, poco più che una traccia. Nella Harlem dei primi '70 vivono Tish e Fonny. Sono giovani, belli, afroamericani. Si conoscono, si innamorano, lei rimane incinta, decidono di sposarsi. Ma le difficoltà familiari ed economiche che il grande evento porta con sé sono poca cosa in confronto a ciò che li aspetta. Fonny viene infatti accusato di stupro, da una donna portoricana che non ha ragioni di mentire. Di fronte a un sistema penale che non ha nessuna fretta di ascoltare la loro versione, Tish intraprenderà un calvario personale per dimostrare l'innocenza di Fonny.

Dal novembre 2016, Hollywood sente la necessità di presentarsi con nuovi idoli. Le vecchie icone dell'industria cinematografica americana (anziani bianchi pacatamente riformisti) non rappresentano più l'ideale di un Paese con disperata voglia di cambiamento. L'incredibile, rocambolesco trionfo dello sconosciuto Barry Jenkins agli Oscar 2017 è stato il big bang della nuova sensibilità che tuttora guida le regole mediatiche dello showbiz USA. Allora, il “conservatore” La La Land fu sconfitto a sorpresa da Moonlight: giovanile, black, pacatamente progressista. Barry Jenkins era già tutto lì, con la sua estetica levigata, i suoi ritmi dreamy, la sua serenità da santone conscious. Un'opera, forse, la cui importanza sociale superava l'effettiva “caratura artistica” (non che nel cinema una simile distinzione abbia molto senso). In Europa molti, di fronte al film, si chiesero semplicemente “perché”. Se lo chiederanno anche con Se la strada potesse parlare.

Il film è la cartina tornasole di questo autore, eroe di un nuovo cinema civile positivo, che tende ponti e che piace. Non è un caso che questa seconda generazione di cineasti afroamericani così consapevoli del proprio ruolo (e di cui Jenkins è leader insieme a Ryan Coogler e Jordan Peele) piaccia tanto all'establishment. Rispetto alla prima storica ondata dei Mario Van Peebles, John Singleton (indirettamente presente qui grazie al recupero dell'immensa Regina King), e ovviamente Spike Lee, questa new wave non ce l'ha con nessuno. Non mira ad attaccare, quanto a conciliare. Finita l'era della contrapposizione politica, inizia quella dell'empowerment: diamo al nostro nuovo pubblico un prodotto suo, che li dipinga belli, forti, incorniciati in bei colori autunnali. E Se la strada potesse parlare è effettivamente bellissimo, pur secondo la concezione contemporanea un po' superficiale di “bello” applicato al cinema (plastiche inquadrature Instagram, musica sinfonica, attori fotomodelli). Bello, si, ma solo quello. Il cinema di Jenkins è sontuoso, affascinante, ma inesorabilmente debole. Ed è la sua stessa natura conciliatoria a renderlo tale.

Se la strada potesse parlare è un film orizzontale: non c'è una visione forte, un punto di vista, un'urgenza che catalizzi il racconto in una direzione. Necessariamente, finisce per vivere più che altro di singoli momenti, intuizioni. Che qui sono due: il violento e teatrale scontro tra le due famiglie all'annuncio del grande evento (scena magistrale, che avrebbe potuto essere al centro del film: il disprezzo della classista e uncle tom mamma di Tish – con quella parlata fasulla e i capelli piastrati in una disperata imitazione dell'élite bianca – nei confronti della più orgogliosa e proletaria famiglia di Fozzy), e un lungo, angosciante monologo del sempre fenomenale Brian Tyree Henry sulla sua agonia di pregiudicato. Momenti appunto, suggestioni che galleggiano in una lunga sinfonia tanto bella a guardarsi quanto priva di carica emotiva e drammatica. Non a caso i due eroi, Tish e Fozzy, rimangono personaggi a metà, sospesi in una passività inquietante.
L'obiettivo prima di tutto politico di Jenkins sembra quello di costruire in vitro l'estetica di un ideale cinema black-aristocratico: se Spike Lee aveva portato Godard prima e poi Scorsese nella sua Bed-Stuy, Jenkins mira alla legittimazione critica, con i santini di Antonioni e Wong Kar-wai attaccati alla cinepresa. Ma non è nessuno dei due, e al netto dei formalismi, della storia di Tish e Fozzy sembra importare poco a lui per primo.
Ampliando un discorso teorico e formale già sviluppato in Moonlight (che aveva dalla sua un'idea strutturale interessante a supportare il bozzetto di gender study), Barry Jenkins punta alla grandeur classicista e si conferma un autore americano importante. Peccato che i suoi film ancora non lo siano. Rimangono opere decorative, graziose, ma drammaticamente sterili.

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Barry Jenkins Kiki Layne Stephan James Regina King Brian Tyree Henry Colman Domingo Dave Franco 117
Usa 2018
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Cam

di Mattia Caruso
cam - recensione film goldhaber

Bastano i primi minuti di Cam, tra screen view di chat room e ragazze (apparentemente) pronte a tutto, per dimostrarci come l'ultima variazione Netflix (e Blumhouse) sul tema di thriller e tecnologia non sia esattamente quello che ci saremmo potuti aspettare.
Perché, proprio alla maniera della sua protagonista, l'opera prima dello statunitense Daniel Goldhaber gioca con il suo ruolo, si diverte a frustrare le nostre aspettative di spettatori/clienti, facendoci credere, per quei pochi minuti, di trovarci davanti all'ennesimo horror di matrice tecnologica – magari intriso di trovate snuff o splatter – e non, piuttosto, immersi in una storia dove è proprio l'identità (o la sua perdita) a diventare l'aspetto più problematico e cruciale dell'intera vicenda.

Ne sa qualcosa Alice (aka Lola, la Madeline Brewer già vista in Black Mirror e Handmaid's Tale), che a quel mondo fatto di ammiratori (paganti) e camere rosa shocking dedica tutta sé stessa, covando il sogno di scalare il ranking delle migliori camgirl di internet. Questo almeno fino a quando il suo posto non viene preso da una sua copia esatta, alter ego identico eppure molto più bravo di lei, un'immagine svincolata dal peso fisico di un corpo, dalle sue paure, dalle sue inibizioni e, per questo, davvero capace di tutto.

È sempre una questione di sguardo, il cinema, soprattutto oggi, quando si confronta con le nuove tecnologie, uno sguardo spesso negato, contraffatto, ingannato, alla ricerca di un'immagine sempre più difficile da inquadrare. Non è un caso, del resto, che sia proprio l'immagine, con tutti i risvolti e le problematiche che la sua riproduzione tecnica comporta, la principale antagonista di un film come Cam, voyeuristico gioco di specchi dove l'identità si sdoppia, si scompone in mille frammenti digitali, e la discesa nell'orrore si svincola da esempi recenti come Unfriended, Searching o Friend Request (incubi in cui la tecnologia è soprattutto pretesto, motore dell'azione), riesumando, ai tempi di Black Mirror, il tema di un doppio declinato in un presente che non ha bisogno di trovate distopiche e futuristiche per dare luogo ai suoi incubi.

Ecco allora, in una degenerazione depalmiana che pare guardare allo Showgirls di Paul Verhoeven e, soprattutto, a Perfect Blue di Satoshi Kon (con qualche deriva onirica che occhieggia a Twin Peaks e al Refn di Neon Demon), che l'immagine che Alice trova "Attraverso lo specchio” si sdoppia, prende il controllo di vite e detta regole, riscrivendo con toni pop e colorati la storia di una dissociazione – quella tra reale e digitale – ormai inevitabile.

Eppure non sono facili moralismi o apologhi apocalittici quelli di cui Cam, scritto dalla ex camgirl Isa Mazzei, va in cerca, forte di una storia che è, in definitiva, un viaggio di formazione dei nostri tempi, l'acquisita consapevolezza che, nel bene e nel male, è con l'immagine (la propria, prima di tutto) che ci si deve confrontare, imparando, riappropriandosene, a padroneggiarla, cercando (attraverso la carnalità e il sangue) quel briciolo di umanità e autenticità che ancora, tra schermi, chat e videocamere, il suo riflesso si porta appresso. Anche al di là dello schermo.

 

 

 

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Daniel Goldhaber Madeline Brewer Patch Darragh Devin Druid Melora Walters 94 minuti
USA 2018
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