Black Mirror - Quarta stagione

La serie di Charlie Brooker raggiunge un significativo punto di svolta, confezionando una stagione tematicamente omogenea e dall'alto livello qualitativo.

La quarta stagione è un punto di svolta per Black Mirror, in molti modi, non ultimo il fatto che grazie al passaggio su Netflix siamo arrivati ad avere tante stagioni “americane” quante sono quelle inglesi, e questo è un dato più importante di quanto possa sembrare. Si è raggiunto una sorta di equilibrio, tanto per la serie nel suo complesso – con una storia futura ancora tutta da scrivere, a metà tra le due sponde dell’Oceano – quanto per la struttura interna di ogni stagione. Se la terza annata era risultata fin troppo orientata al cambiamento, portatrice di una svolta tematica e di tono (di cui San Junipero, con il suo spirito retromaniaco, pop e ottimista, è probabilmente il simbolo) che a molti era sembrata un po’ troppo brusca, la quarta riequilibra i toni, gestisce meglio il bilanciamento tra le due “anime” della serie e confeziona almeno cinque episodi decisamente brillanti, seppur non esenti da difetti.

Iniziamo però dall’episodio meno riuscito, quel Crocodile diretto da John Hillcoat (già regista del mediocre adattamento di The Road) che cade nuovamente nell’errore che aveva funestato la terza stagione, ovvero la messa in scena di un racconto distopico fine a sé stesso, che utilizza i generi soltanto come pretesto per appropriarsi dei loro meccanismi narrativi, mancando così di una caratterizzazione forte dei personaggi e dimenticando per strada coerenza narrativa e motivazioni. Oltre a questo siamo in una variazione su un tema già fin troppo esplorato dallo show, quello della memoria dei dispositivi che fa emergere la colpa del singolo, disposto a tutto pur di conservare i propri segreti in un universo in cui la privacy delle coscienze è sempre negata.

Tuttavia Crocodile è sorretto da una coerenza tematica interna alla stagione che è forse la vera novità di quest’anno: ognuno degli episodi è centrato su una variante di quella che potremmo definire come la condivisione delle menti, le conseguenze del connettere il proprio cervello a un device o ad un archivio condiviso, abdicando alla libertà di utilizzo del proprio cervello per soldi, per amore, per bisogno o per semplice abitudine.

In Hang the DJ, episodio gemello di San Junipero ma molto più debitore alle atmosfere delle prime stagioni, è la ricerca dell’amore che fa arrendere i protagonisti al controllo esterno della propria vita. Forse, si tratta dell’episodio più pesantemente contemporaneo, ricco di riferimenti al cambiamento nelle relazioni che le dating app hanno creato, arrivando quasi a rivoluzionare il modo in cui si forma una coppia: come anche Aziz Ansari nel suo brillante saggio Modern Romance (scritto insieme a Eric Klinenberg) ha sottolineato, il web ha trasformato la sostanza delle motivazioni per cui si sceglie con chi passare la propria vita, facendoci passare in pochi anni da una predominanza di coppie formatesi per prossimità – compagni di scuola, vicini di casa, amici di amici – a una crescente quantità di coppie che si basano sulla comunanza di interesse, indipendentemente dalla distanza geografica, culturale o anagrafica. Hang the DJ immagina le estreme conseguenze del ruolo di Cupido che abbiamo attribuito agli algoritmi che riescono ad accoppiarci sulla base dei nostri gusti e preferenze, scegliendo di utilizzare una app di incontri come metafora dell’impossibilità di prevedere matematicamente l’amore. Sarà addirittura la stessa app ad utilizzare l’imprevedibilità del cuore umano come elemento di selezione a posteriori e la ribellione alle proprie stesse regole come la prova di un sentimento che va oltre qualsiasi calcolo. La messa in scena e le ottime prove attoriali aiutano a rendere credibile una struttura narrativa quantomeno improbabile, situata in un futuro imprecisato in cui i protagonisti sono intrappolati in quella che a tratti sembra una prigione, a tratti una simulazione, senza impedire una fortissima identificazione con le problematiche relazioni che ciascuno di noi ha vissuto almeno una volta nella propria vita.

Anche la madre al centro della vicenda di Arkangel (brillantemente diretto da Jodie Foster) cede ad una macchina il controllo della coscienza, non della propria ma di quella di sua figlia; anche qui c’è una critica evidente al presente, nello specifico alla mania del controllo nella genitorialità contemporanea, che gestisce il senso di colpa per la mancanza di tempo da dedicare ai propri figli cercando di controllarne non solo l’educazione ma il futuro e la mente stessa. C’è molta differenza tra una scelta vaccinale o alimentare estrema, adottata nei confronti di un bambino molto piccolo in base alle proprie convinzioni, e la scelta di controllare ciò che vede e ciò che prova? Probabilmente sì, ma alla base di tutto c’è sempre una mania di protezione che va ben oltre qualunque modalità educativa che un genitore contemporaneo abbia sperimentato su sé stesso. E se il buon senso qualunquista ci dice da sempre che una madre farebbe qualsiasi cosa per proteggere i propri figli, la realtà ci dice che molti genitori faticano a riconoscere i propri bambini come individui separati, caricandoli di aspettative e configurando per loro (in Black Mirror anche letteralmente) un futuro sulla base di desideri personali che non tengono conto della loro individualità. Arkangel non si discosta con forza dalla media dello show, inserendosi al suo interno perfettamente ma senza nessun particolare picco stilistico o guizzo ideativo, riuscendo però a non far rimpiangere le prime due stagioni e la loro forza drammatica pur all’interno di una confezione produttiva, registica e attoriale di altissimo livello.

Forse l’episodio dal contenuto più inquietante del sestetto è però USS Callister, una sorta di sfrenata fantasia sulla mascolinità tossica dei maschi nerd e sulla difficoltà di relazione reale che sembra trovare una soluzione all’interno di una realtà virtuale che si rivela però null’altro che una fantasia onanistica di potere. Chiunque abbia frequentato un ambiente classificabile come fandom a predominanza maschile sa bene come le dinamiche di potere siano spesso invertite rispetto al mondo reale, e come i dominanti all’interno dei gruppi virtuali siano spesso maschi che nella realtà non trovano una realizzazione nella mascolinità convenzionale. Dei perdenti, per dirla con una sintesi piuttosto superficiale, al gioco del potere maschile fatto di soldi, fascino e successo con le donne, che nel momento in cui si trovano a condurre il gioco in una comunità virtuale non fanno altro che usare il potere all’interno del gruppo per sfogare la propria frustrazione. Il protagonista di USS Callister (interpretato da un ottimo Jesse Plemons), dominatore nella virtualità del proprio personale regno, debitore dell’universo di Star Trek, va naturalmente oltre ogni limite nell’appropriarsi delle menti altrui senza permesso, creando un mondo di terrore che sovverte le situazioni del reale applicando però lo stesso meccanismo tossico che governa la realtà.

Un piccolo regno virtuale per ogni frustrato al mondo, questo è quello che molti vedono nella rete e questo è il concetto che Charlie Brooker ha spesso utilizzato per caricare di inquietudine la sua creatura televisiva, spesso finendo per sfiorare il didascalismo in una visione pessimistica e populista della tecnologia (pensiamo a The Waldo Moment, ad esempio). Tuttavia in questa quarta stagione spesso questa visione è stemperata dalla freschezza di un’ironia sempre meno celata, sempre più debitrice dello spirito delle fantascienza e dell’horror a episodi di tradizione americana, da Tales From The Crypt ad Amazing Stories o The Twilight Zone.

In tal senso Black Museum, come Playtest lo scorso anno, è l’episodio che mostra più chiaramente il tentativo di utilizzare il contenitore antologico anche come puro divertissement, ma al tempo stesso non distoglie lo sguardo da questa visione della virtualità come potenziale arma impropria nelle mani di individui privi di scrupoli, capaci di considerare la mente umana, l’anima forse, come un mero spazio di archiviazione. Il gestore del Black Museum, Rolo Haynes, accompagna la sua ospite in una galleria che parte come wunderkammer di meraviglie per svelare ad ogni passo il proprio orrore. Come un Barnum tecnologico, Haynes ci conduce in una galleria di mostruosità non del corpo ma della mente e come i proprietari dei freak show detiene la proprietà dei propri casi umani, ben oltre la loro morte fisica. Black Museum è un episodio che dimostra la potenzialità di Black Mirror di elaborare le nuove influenze produttive in una forma ibrida e sperimentale, che tiene conto delle necessità di una dimensione più ecumenica del racconto per incontrare i gusti di un pubblico più ampio, ma riesce a non snaturare la propria vocazione originaria bensì crea qualcosa di inedito, riuscendo anche a citare sé stesso senza scadere nell’autocelebrazione.

Si tratta di un’idea di struttura così vincente e ben inserita nel complesso dello show che sarebbe potuta anche essere serializzata all’interno della serie stessa, così da sfruttare un formato narrativo che si presta già di per sé alla creazione di un’antologia nell’antologia, da inserire in diverse stagioni allontanandone il più possibile la conclusione. Occasione persa, forse, per dare una sferzata di novità e orizzontalità di cui la serie probabilmente non potrà fare a meno per evitare di ripetersi e conquistare la longevità di cui il progetto a questo punto ha un disperato bisogno, avendo mostrato già la corda da un punto di vista di scrittura in più di un’occasione.

Menzione d’onore, anche in senso di uno spirito di rinnovamento necessario, merita l’ultimo episodio (quinto, nell’ordine di visione creato da Brooker), avventura di pura azione ambientata in un universo post-apocalittico da qualche parte nel Regno Unito. Poca importanza ha la trama vera e propria perché per la prima volta Black Mirror si concede il lusso di evitare il didascalismo delle backstories e ci introduce in medias res, mettendo un scena la lotta per la sopravvivenza di un essere umano (e molto si potrebbe dire anche dell’importanza, in termini di freschezza del racconto, dello scegliere un’eroina femmina, una donna di mezza età della porta accanto) che cerca di sfuggire a una macchina di morte, presumibilmente progettata fin troppo efficientemente da un altro essere umano. Con pochissimo dialogo e un montaggio serrato, una regia che si concede moltissimi virtuosismi che non risultano mai fini a sé stessi, Metalhead rappresenta senz’altro il meglio che il Black Mirror di oggi ha da offrire. Un racconto di genere in cui la distopia si inserisce alla perfezione in un meccanismo narrativo asciutto, senza sbavature e inutili orpelli, che visivamente ha tutta la raffinatezza del bianco e nero scelto da David Slade, in cui l’orrore e il sangue si stemperano nei toni ma l’angoscia emerge vivissima così come il richiamo all’horror britannico tradizionale della Hammer Films. Un bianco e nero in cui anche un orsetto giocattolo, seppur colorato in origine, diventa involontaria autocitazione di quel White Bear che era un’altra parabola da incubo sulla paranoica ricerca della sicurezza da parte della società borghese contemporanea.

Autore: Eugenia Fattori
Pubblicato il 08/01/2018

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