You

di Irene De Togni
You - serie tv netflix berlanti

Negli ultimi anni la commedia romantica è stata teatro di (auto)rivolgimenti e ridefinizioni senza dubbio più importanti rispetto a quelli che hanno subito altri generi televisivi. Diversi show (e non pochi davvero ben riusciti) come Crazy Ex-Girlfriend, Love o Forever si sono cimentati piuttosto esplicitamente in una minuziosa e lucidissima decostruzione degli schemi, delle figure e dell’ideologia del genere così come si era consolidato nella sua forma “classica”. La nuova “serie-fenomeno” creata da Greg Berlanti (Riverdale e Le terrificanti avventure di Sabrina, per citare solamente i lavori più recenti) e Sera Gamble (Supernatural, The Magicians) per Lifetime (per poi venire accalappiata quasi istantaneamente da Netflix) sembra voler tenere lo stesso tipo di discorso distorcendo la più classica delle impalcature della rom-com (un ragazzo si innamora a prima vista di una bella ragazza e si ripromette di conquistarla) fino a farla diventare un disturbante thriller psicologico dalle tinte orrorifiche.

Pur prendendo avvio da una fonte letteraria (la serie è tratta dall’omonimo romanzo del 2014 della scrittrice americana Caroline Kepnes, il primo di una trilogia), la serie non ha, invero, nessuna difficoltà (tanto vasto è il suo obiettivo) a trovare nel cinema e nella televisione i riferimenti cui indirizzare il suo commento iconoclasta. You pesca, allora, a piene mani dalle più tradizionali delle situazioni romantiche (dal colpo di fulmine in apertura fra una ragazza e un giovane libraio come in Nothing Hill, alla sindrome di Stoccolma, alla retorica del ragazzo bravo e intelligente legittimato ad inseguire la ragazza “perché sa meglio di lei cosa le serve” tipica di film come 500 giorni insieme) per prendersene gioco e distanziarsene criticamente. Intelligente (e piena di strizzate d’occhio) è anche la scelta del cast, e su tutti sicuramente di Penn Badgley il cui personaggio sembra una deformazione satirica del suo Dan Humpfrey in Gossip Girl – lo stesso si potrebbe quasi dire anche del personaggio di Shay Mitchell rispetto al suo ruolo in Pretty Little Liars – che permette così di far risuonare all’orecchio dello spettatore anche tutto un immaginario legato all’universo del teen drama.

Attraverso la contaminazione dei registri, quindi, e un uso consapevole della voce fuori campo e del punto di vista narrativo, You si prende gioco delle situazioni subito dopo averle inscenate e dei suoi personaggi subito dopo averli introdotti, raccontando la classica fase del corteggiamento nei toni sinistri dell’ossessione e dello stalking e trasformando gli eroi romantici (e i personaggi secondari) in degli antieroi a tutti gli effetti, tutti rigorosamente deliranti nel loro ostinato convincersi di star vivendo una romanticissima storia d’amore. Uno degli aspetti interessanti è sicuramente il fatto che questa postura così esplicitamente decostruttiva e meta-testuale permette di creare un effetto di spaesamento rispetto alla tradizionale narrazione della romantic comedy, uno slittamento che lo spettatore bendisposto può cogliere come un’opportunità di distanziamento per dar vita ad uno spazio di riflessione sui macismi, le violenze ed i sotterfugi del racconto tradizionale.

Tuttavia, per quanto tutti questi elementi rendano il pastiche di You piuttosto interessante e ben cadenzato dal punto di vista tematico e referenziale, c’è anche da dire che, fatta astrazione della sua portata ideologica, non vi rimane, purtroppo, molto da salvare: i personaggi principali sono costruiti essenzialmente come delle esagerazioni, delle caricature o, nel più interessante dei casi, come delle storpiature dei loro modelli di riferimento, ma dimostrano di avere davvero poco da dire al di là della loro funzione metanarrativa e non riescono a dimostrarsi abbastanza carismatici o interessanti da poter reggere da soli i momenti di transizione da un picco di tensione e l’altro; i personaggi secondari si accontentano di venir appena abbozzati o tutt’al più costruiti in modo stereotipato (su tutti le amiche di Beck) ad eccezion fatta, probabilmente, del personaggio della migliore amica la cui parabola sarebbe potuta, però, esser sviluppata meglio (specie guardando al lavoro fatto dal Ryan Murphy di American Crime Story: The Assassination Of Gianni Versace sulla psicosi derivante da un’omosessualità repressa o mal riappropriata); l’intreccio, infine, sembra troppo volentieri sacrificare credibilità o costruzione significativa delle situazioni in favore delle svolte di trama o del cliffhanger facile.

You sembra, in definitiva, perpetuare una tendenza piuttosto ricorrente in una certa televisione recente molto metatestuale e molto politicizzata, ovvero il rischio di appiattire irrimediabilmente l’estetica sull’etica e di subordinare parte degli aspetti più propriamente diegetici di uno show alla coerenza del suo disegno ideologico (due aspetti che non per forza si escludono, come è chiaro guardando, ad esempio, a due prodotti eccellenti come Jane The Virgin o Crazy Ex-Girfriend).

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Penn Badgley Elizabeth Lail Shay Mitchell 1 stagione da 10 episodi
USA 2018
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Pola X

di Simone Sauza
POLAX

Ci sono registi che nella storia del cinema agiscono come fantasmi. Uno di questi è sicuramente Leos Carax. Nonostante l’esiguo successo commerciale, molte delle sue idee visive, della sua maniera di parlare attraverso il montaggio nevrotico “infestano” l’immaginario pop di una parte del cinema degli anni novanta e di inizio millennio (Romeo + Juliet di Baz Luhrmann  ne è un esempio). Pola X esce nel 1999, chiudendo una decade cinematografica e aprendo una nuova stagione del cinema francese. A 13 anni da Mauvais Sang, e dopo il disastro commerciale de Les Amants de Pont-Neuf, Leos Carax sceglie la via dell’autosabotaggio. Pola X è un film caotico, confuso, all’epoca demolito da buona parte della critica (un’eccezione non da poco è quella di un decano come Roger Ebert), ma allo stesso tempo profondamente sentito dal regista francese, che mette al centro le sue ossessioni, venate ora da una cupezza che mai si era respirata nel suo cinema. I suoi personaggi, solitamente romantici e infantili nel loro andare alla deriva, lasciano il passo a una pulsione di morte irrimediabile, come se l’escapismo surreale rappresentato dai due Alex di Mauvais Sang e Les Amants de Pont-Neuf non bastasse più. Non a caso, Pola X è uno dei titoli che apre quella stagione che verrà etichettata come New French Extremity, un’ondata di pellicole francesi che tra la fine degli anni novanta e il nuovo millennio ha provato a rielaborare il cinema della corporeità creando una cruda estetica della psicosi e dell’erotismo, sempre in bilico tra violenza e pornografia (basti pensare ai film di Gaspar Noé o a Base-moi di Virginie Despentes e Coralie Trinh Thi), fino a sfociare in un cinema horror visivamente estremo che ha conosciuto un certo successo con Martyrs di Pascal Laugier e À l’intérieur di Julien Maury e Alexandre Bustillo.

 

Il soggetto di Pola X è tratto dal Pierre; Or The Ambiguities di Herman Melville (le iniziali della novella compongono il titolo del film, mentre la X sta per la decima riscrittura del copione). Comincia tutto con le immagini di un bombardamento: un prologo di distruzione che allude tanto alle macerie delle vite dei personaggi, quanto al tema godardiano della morte del cinema, ripreso 13 anni dopo con la sala di spettatori dormienti nel prologo di Holy Motors. Il Pierre di Pola X (Guillaume Depardieu) è un giovane scrittore reduce dal successo di vendite del suo esordio. Vive con la madre (Catherine Deneuve), con cui ha instaurato uno strano rapporto attraversato da un’ambigua tensione erotica. Una serie di dolly introducono il quadro familiare aristocratico del protagonista. Innaffiatoi, giardini idilliaci, un castello normanno: sono i primi elementi che compaiono sulla scena. La macchina da presa si inerpica su una parete della tenuta per entrare dentro una finestra, come un occhio che penetra nel segreto.
Pola X è strutturato su due dicotomie principali: ordine/caos e verità/menzogna. Conseguentemente, il colore, la luce e i piani-sequenza dominano la prima parte del film (il romanzo di successo di Pierre si chiama, non a caso, A la lumiere – Nella luce). Ma questa impressione di ordine è già da subito pervasa da un senso di tensione, pronta a implodere nel momento in cui nella storia si innesta la figura misteriosa e oscura di Isabelle (Yekaterina Golubeva). È l’inizio della spirale discendente.
Isabelle è un’anti-musa: invece di ispirare l’artista o redimerlo, rivela la fragilità del suo mondo. La donna irrompe per la prima volta sulla scena come uno spettro. Il volto coperto dai capelli neri, nascosta dietro a un albero, come una presenza inquietante in un sogno, mentre Pierre e Thibault parlano al tavolino di un café borghese. Isabelle è l’elemento perturbante che distrugge l’armonia e ne rivela l’illusorietà. Ma è un perturbante che si situa a metà tra le visioni di David Lynch e le nevrosi di Andrzej Zulawski, senza mai sfociare veramente né nel grottesco onirico del primo, né nell’orrorifico surreale del secondo. Più avanti, Isabelle rivelerà a Pierre di essere sua sorella, raccontando una storia che farà collassare l’universo del ragazzo.
La seconda parte del film, che segue la fuga di Pierre e Isabelle in una Parigi ostile, sprofonda allora nei colori cupi, fino a scene di totale buio inframezzate da visioni apocalittiche. Nel passaggio dalla prima alla seconda parte si innesta l’altro tema chiave di Pola X: la famiglia, luogo impossibile di perfezione. In un brano di Pastorale Americana di Philip Roth, uno dei personaggi, in relazione alla casa come alveo di stabilità, afferma: «Tutti ne abbiamo una ed è li che tutto va storto». Così in Pola X ogni superficie ha il suo abisso. Ogni schema costruito ha in potenza il suo sprofondamento. La sequenza del sogno, in cui un canyon che ribolle di una kubrickiana marea rosso sangue, è la sublimazione di un ordine sempre pronto a essere sommerso dall’imprevedibile e dall’irrazionale. Il rapporto ossessivo di Pierre con Isabelle si spinge fino all’incesto: nella scena di sesso, la corporeità dell’atto è pienamente esibita (penetrazione e fellatio sono reali), eppure l’immagine è filtrata da una fotografia talmente scura da lambire il buio totale, in una trasfigurazione anticipata del finale. Se da una parte i continui scambi di ruoli (la madre chiamata sorella, Lucie presentata a Parigi come cugina, Isabelle compagna e sorella) faranno da preludio a quella macchina finzionale di maschere che sarà Holy Motors, dall’altra alcuni elementi del film non quadrano o rimangono sullo sfondo.
A posteriori, il film creerà una sorta di inquietante premonizione. Se da una parte il crollo di Pierre anticipa la vita alla deriva di Guillaume Depardieu (morto a 37 anni), lo sguardo doloroso di Isabelle sarà lo stesso della depressione che accompagnerà la Golubeva (compagna dello stesso Carax) fino alla morte per suicidio a 44 anni.

Anche in Pola X, come era stato soprattutto in Mauvais Sang, Carax non rinuncia a giocare con la Nouvelle Vague, a decostruire quel linguaggio interpolandolo con collage di elementi pop, all’insegna di un cinema in cui l’immagine domina sul testo, lontano da qualsiasi desiderio di compiutezza. Un cinema fatto di squilibri, di violazioni dei codici narrativi, di immagini che, come piccole stelle che muoiono generando esplosioni, si esauriscono all’interno di ogni singola sequenza, incuranti di poter bruciare l’oggetto-film nella sua totalità.

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Leos Carax Catherine Deneuve Katerina Golubeva Guillaume Depardieu 134 minuti
Francia 1999
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Basileus – La scuola dei Re

di Giorgio Sedona
Basileu - La scuola dei Re, Alessandro Marinelli

Ambientato nella scuola Federico Fellini del quartiere San Basilio di Roma, il documenatrio di Alessandro Marinelli, Basileus – La scuola dei Re, racconta un intero anno scolastico di una classe di scuola media. Giovanissimi provenienti da un quartiere popolare e periferico, per certi versi “selvaggio”, sono anime in fiore tormentate dalle difficoltà implicite nell’adolescenza, anime e maschere che percorrono una realtà dove il tragitto di formazione scolastica, per necessità, si interseca con un tragitto di formazione extrascolastica, vissuto in un contesto, familiare, culturale e sociale, a volte molto difficile. Maschere che i giovani ragazzi portano a scuola, maschere che indossano per celare la difficoltà e la tristezza che li attanagliano, maschere da duri, da forti, indossate per non farsi riconoscere, per non manifestare la loro intima fragilità. Il corpo docente impegnato quotidianamente nelle difficoltà derivanti dalle gestioni scolastiche dei ragazzini, sono d’apprima uomini e donne pazienti, prima educatori e solo successivamente anche insegnanti. Basileus, in greco, viene tradotto in re, re dei re, e l’etimologia del nome del quartiere, San Basilio, quartiere di re senza corona, re in potenza, senza scettro e senza pistola, nell’accezione di re di se stessi, consapevoli della propria diversità, del proprio passato famigliare, della propria difficile situazione sociale, re e regine consapevoli del proprio futuro e del proprio presente. E’ proprio questo il messaggio che scaturisce dalle immagini del documentario, Alessandro Marinelli riprende le ombre dietro le pieghe di un complicato presente che si trasporta, perpetuo, sulle spalle come una cartella pesante, fin dentro le aule scolastiche, un macigno da sopportare dietro la maschera di tutti i giorni, dietro al trucco che copre i tratti autentici, in difesa dell’apparenza e dell’appartenenza. Sogni, desideri e lacrime, i giovanissimi in fiore del Federico Fellini sono anime in mutamento, costrette dentro a dei corpi già troppo duri, nascosti dietro a sguardi già troppo consapevoli. E dai percorsi personali dei ragazzi si costruisce il panorama di un quartiere che porta con sé le proprie tematiche, spaccio, droga, violenza, nelle difficoltà di crescita in un contesto perlopiù incentrato sulla sopravvivenza. Percorsi formativi creati su misura per ogni singolo ragazzo, dal parkour per far sfogare la carica fisiologica di un’energia in divenire, e per sfogare la frustazione di crescere nella difficoltà, all’insegnamento della materia partendo dalle casistiche umane di ogni singolo alunno. Una docenza che trascende la conoscenza istituzionale facilitando la conoscenza di se stessi, non perdendo mai aderenza rispetto al programma scolastico. Sono molti i temi sociali che vengono portati in aula, emigrazione, droga, violenza, dolore, emancipazione, deficit, futuro, temi che vengono posti ai ragazzi dal corpo docente, cercando in loro una risposta da confermare, ed assecondare, se socialmente giusta e se fondata sul rispetto altrui, o da sovvertire, con il ragionamento, se incline all’asocialità più che sulla comprensione. Marinelli si muove alla ricerca di porte d’ingresso, pedinando, zavattinianamente, i ragazzi, tra saggi musicali, interventi punitivi, restando sempre dentro le aule, in palestra, al campo di calcio della scuola, inseguendoli negli ambienti che i ragazzi quotidianamente vivono, alla ricerca di soglie di passaggio tra un’identità costruita dall’ambiente sociale al quale appartengono e un’identità soggettiva unica, personale, e teneramente celata.

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Alessandro Marinelli 78 minuti
Italia, 2017
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Oculus

di Saverio Felici
Oculus - recensione film mike flanagan

Oculus è il rigore decisivo nella prima parte della carriera di Mike Flanagan. Nel 2013, a 35 anni, il regista era ancora in fase di ricerca: il corto omonimo targato 2006 era stato per anni il suo biglietto da visita; il pochissimo visto e apprezzato Absentia, il primo faticoso approccio con il racconto da 90 minuti. Nessuno dei due si era rivelato il cult sperato, e per l'occasione vera bisogna aspettare la “convocazione” da parte del demiurgo Jason Blum. La storiella di Oculus è piaciuta: uno specchio stregato che fa impazzire la gente, due ragazzini sopravvissuti ad una strage che, cresciuti, decidono di affrontarlo con le armi del raziocinio. Uno spunto perfetto per la casa di produzione che in quegli anni, grazie al primo trionfo di Insidious, sta imponendo la gloriosa etica no-budget dell'orrore minimale fatto di editing ed effetti sonori. A Flanagan si propone di rifare il corto, con un pugno di attori professionisti e la garanzia della distribuzione. E' l'inizio di un rapporto che lo porterà a dirigere ben tre film (seguiranno Il terrore del silenzio e Ouija 2) e a diventare, insieme a James Wan il regista più rappresentativo del marchio Blumhouse. Il successivo approdo alla scuderia Netflix e l'imminente debutto per la Warner con Doctor Sleep passano anche e soprattutto per questo semi-classico della ghost story anni 2010.

La carriera di un “regista di genere” alle prime armi è per lo più un percorso autarchico, in cui la distanza tra autore e pubblico si annulla e il confronto diretto con gli spettatori è l'unica prova che conti. A differenza del campionato giocato dagli aspiranti auteur d'essai, il giovane regista di genere non ha a disposizione festival importanti, stampa rinomata o in generale grandi spazi critici dedicati. Nell'horror più che mai, un debuttante senza major può solo sperare che il film colpisca le cinquanta (o cinquecentomila) persone che riusciranno a vederlo, e che le cose facciano il loro corso. Anche per questo, l'horror è onesto, e difficilmente mente sulle qualità di un regista. 90 minuti, attrezzatura scadente e un pugno di attori spesso improvvisati: ciò che il filmaker riesce a tirare fuori da questi pochi elementi decreta quasi inequivocabilmente la sua abilità con la narrazione per immagini. Nella ghost story l'economia del racconto e della messa in scena è il fulcro tecnico e tematico, e in questo senso Oculus può tranquillamente definirsi il miglior film di Flanagan.

A livello prettamente cinematografico, Oculus rimane l'esempio migliore delle qualità che il regista americano metterà in luce a correnti alternate nei successivi lavori. Ben lontano, vale la pena chiarirlo, dall'essere un capolavoro o pietra miliare del genere, il film rimane ad oggi tra i più rappresentativi del catalogo Blumhouse: un piccolo manuale tecnico di quanto è possibile fare con sei attori e una scenografia composta da una casa vuota e qualche vaso di piante. E ovviamente, l'uso del montaggio. Mike Flanagan nasce come montatore, e Oculus è praticamente una tardiva tesi di laurea. Il taglio e la transizione è l'unica arma del regista che si cimenti con il cinema dinamico senza le cineprese di Lubezki a disposizione: in ciò, Flanagan è assolutamente straordinario nel disarticolare l'apparente linearità del plot, scombinandola in un trip ritmatissimo e visionario, capace di colpire a livello cerebrale oltre che sui nervi del jump-scare (presenti in versione stranamente ridotta).

Come in una versione ancora più low-cost del 1408 di Hafstrom, Oculus ci sfida a immaginare cosa possa accadere in un piccolo spazio in cui, apparentemente, tutto è illuminato e controllabile. Ovviamente, Flanagan non può giocarsela di Fx: e qui entrano in gioco stacchi e tempi. In Oculus, l'eterna guerra tra ragione e inspiegabile, empirismo e delirio, si combatte su un piano temporale inesistente: un eterno presente in cui le due linee narrative (2001-2012) convivono, e tutto avviene nel qui e ora. Gli errori compiuti dai protagonisti da ragazzi influenzano le loro azioni presenti, che a loro volta dialogano con ciò che è passato. E mentre la fortissima Karen Gillian e l'imbambolato Brendon Thwaites lottano convintissimi per mantenere alta la credibilità emotiva della storia, le coordinate temporali si annullano, e nella vecchia casa dei Russell l'unica, distorta realtà rimane quella percepita dello sguardo infetto.

La dimensione del soggettivo lascia il posto a un'altra grande intuizione di Oculus: il ruolo delle cineprese. Da Vertov a oggi, va detto, il dualismo occhio-obbiettivo è stato declinato in ogni maniera pensabile, e nel parlare di genialità per chiunque riproponga ancora l'ovvia metafora si fa un torto agli autori per primi. Nell'ottica del film, però, il discorso è centrale: portando a livello successivo lo spunto dei Paranormal Activity (telecamere interne che mostrano ciò che l'occhio nudo non vede), le cineprese a disposizione di Kaylie e Tim non sono surrogati dello sguardo, ma degli upgrade quasi cyber-punk delle sue possibilità naturali. Attraverso le fotocamere degli iPhone, che i protagonisti tengono davanti agli occhi come crocefissi nei film di vampiri, è possibile “spiare” la realtà nuda, superando così le prove dello specchio, ingannatore dell'occhio per definizione. Un'altra idea forte di un lavoro forte, fondamentale nello stabilire il ruolo centrale di Mike Flangan nella galassia ghost che ha definito questo decennio.

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Mike Flanagan Karen Gillan Brendon Thwaites Annalise Basso Kate Sackhoff Rory Cochrane 103 minuti
USA 2013
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Sogni di famiglia – Il cinema di Mike Flanagan

di Marco Compiani
Mike Flanagan - cinema recensione

Nel panorama dell’horror contemporaneo Mike Flanagan è senza dubbio una delle figure più incisive.
In soli otto anni è riuscito a delineare un’idea molto personale di genere che, dall’esordio Absentia fino al successo seriale targato Netflix Hill House, mantiene sempre le stesse caratteristiche. Potremmo infatti considerare la filmografia dell’autore di Salem una vera e propria variazione sui temi della famiglia e del lutto, elementi fondanti di un discorso che parte dal dramma umano, dal vuoto lasciato da una mancanza, dal tentativo della mente di risanare un legame strappato grazie all’aiuto dell’immaginario. Perché per Flanagan prima dell’horror e della trasfigurazione a opera dell’inconscio, ci sono i suoi personaggi, il loro combattere e stare uniti per superare il dolore di una perdita famigliare:  il marito Daniel in Absentia, i genitori di Kylie e Tim in Oculus, il piccolo Cody in Somnia, il padre degli Zander in Ouija, la madre Olivia nell’ultimo Hill House.

A dare forza e credibilità alle storie è l’elemento drammatico, la base emotiva su cui l’autore poi colloca la sua sovrastruttura orrorifica. E, trattandosi di famiglia, cosa c’è di più pauroso della Casa? Certo, nulla di nuovo, le quattro mura domestiche sono da sempre il medium preferito dai nostri demoni (interiori), a partire dall’haunted house, l’archetipo per eccellenza della letteratura gotica. Flanagan però è un figlio lynchano, ne segue la lezione sulla percezione soggettiva del tempo e dello spazio, gioca con la meta-narrazione, genera universi dove l’Impero della Mente crea regole perennemente in divenire. Ma lungi dal voler esaurire il discorso e dall’appiccicare al regista l’etichetta a la Lynch, tutt’altro, perché le suggestioni sono molte e l’intratestualità tipica del cinema horror è sempre viva, piena di rimandi, da King a Craven, dal Kubrick a Hooper, senza dimenticare la corrente del J-Horror, tutt’ora tra le influenze più forti. Tuttavia ciò non toglie come già il debutto Absentia richiami i frammenti di INLAND EMPIRE: nella messa in quadro, in certi dialoghi, in parte della colonna sonora, una conferma di quanto il maestro di Missoula sia stato seminale per molti registi contemporanei nel deformare e sovvertire le regole dello sguardo.

Nel cinema di Flanagan a colpire è l’essenzialità della messa in scena che rifugge consapevolmente i virtuosismi della macchina da presa e il ricattatorio  jump scare. Sono i personaggi il cardine della rappresentazione, la loro emotività e solitudine, il loro tentativo di creare un legame e trovare un dialogo verso l’altro. Ecco quindi come il soprannaturale sia intimamente legato a essi, senza bisogno di un fuoricampo o di un taglio di montaggio che spaventi con meccanismi artificiosi. Le apparizioni sono davanti a noi, riflessi ipnagogici che sappiamo con certezza dove trovare, punti di riferimento che, proprio per la loro imprevedibile prevedibilità risultano ancora più inquietanti.
Allo stesso tempo Flanagan gioca con la memoria e il rimosso, la usa come matrice per delineare le strutture narrative; come in Oculus, manifesto teorico del suo cinema che sposa in potenza la teoria della fuzzy trace, dove i ricordi si sviluppano su più livelli e da un evento segnante, traumatico, proliferano un insieme di falsi ricordi. È qui che nasce la tensione: l’elemento sovrannaturale è sì destinato ad assumere una forma interpretativa, come spiegazione ultima del conflitto, ma è il sentire dei personaggi l’elemento vitale del cinema di Flanagan, l’incastrarsi nei flashback delle proprie ossessioni, l’indagare l’irrisolto. Più piani coesistono simultaneamente, è un aprirsi continuo di mondi, dove il pensiero (inconscio) è la forza creativa che può dare forma tanto a visioni affascinanti quanto a creature spaventose. Si pensi al piccolo Cody di Somnia, la cui luccicanza notturna materializza sul piano reale i propri sogni/incubi, o alla creatura (IT) di Absentia, che quando si addormenta permette alle sue vittime di fuoriuscire dalle dimensione parallela dove le tiene intrappolate.

Orientarsi nell’universo di Mike Flanagan è però meno complicato di quanto possa sembrare, perché, anche se ci perdiamo dentro scatole cinesi, anche se il passato-presente-futuro alterano lo spazio e convivono come una presenza collettiva, è l’atto d’amore la vera bussola capace di guidarci verso la comprensione dell’altro e la coesistenza con il dolore. Così attraversiamo la sua filmografia e arriviamo a Hill House, dove le coazioni a ripetere, le possessioni tramandate di generazione in generazione, la scomparsa di chi ci sta vicino, può sempre trovare un equilibrio in quello che rimane della famiglia. Perché la famiglia e la casa sono il germe del Male, ma anche quel luogo dentro di noi destinato a ricucire le ferite. Un luogo verso il quale torneremo sempre.

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Green Book

di Riccardo Bellini
Green Book - recensione film farrelly

I feel good movie sono, nella maggior parte dei casi, quei film che parlano dell’importanza del cambiamento ma il cui obiettivo è al contrario consolidare le aspettative del proprio pubblico. In altre parole, i protagonisti della vicenda subiscono un’evoluzione, mentre lo spettatore no. Lui esce dalla sala esattamente con le stesse certezze con cui è entrato, nonostante e in virtù di quel caldo appagamento che si prova a visione terminata e che decreta o meno la riuscita dell’operazione. Green Book, in corsa all’Oscar come Miglior film e Miglior sceneggiatura originale, appartiene alla categoria nel modo più esemplare possibile, e nel suo caso l’operazione può dirsi senz’altro compiuta con successo. L’esordio alla regia in solitaria di Peter Farrelly (autore insieme al fratello Bobby di commedie ormai cult come Scemo e + scemo, Tutti pazzi per Mary e Io, me e Irene) è, come era evidente fin dalle premesse, una perfetta macchina arraffa Oscar che sfrutta i più oliati meccanismi delle più classiche formule hollywoodiane – a partire dall’evergreen della strana coppia di opposti che si attraggono – per consegnare un’opera che non ha alcuna intenzione di sollevare un dibattito, quanto piuttosto di scaldare le proprie platee con la forza di un messaggio conciliante veicolato ad arte.

Al centro di Green Book c’è l’amicizia tra Tony (Viggo Mortensen), un italo-americano newyorkese burino e logorroico in cerca di lavoro, e Don Shirley (Mahershala Ali), tormentato musicista nero, colto, taciturno e talmente talentuoso da essersi guadagnato in vita l’ammirazione di Igor Stravinsky. Tony, nonostante il retroterra culturale in cui è cresciuto non sia propriamente inclusivo nei confronti degli afroamericani (retroterra che viene subito dimenticato dal personaggio in modo assai poco convincente) accetta di fare da autista a Don, accompagnandolo e proteggendolo in una tournee attraverso il Sud degli Stati Uniti degli anni Sessanta, in piena epoca di segregazioni razziali, sulla scorta del The Negro Motorist Green Book, autentica guida per viaggiatori neri che, dal 1936 al 1966, segnalava i punti di ristoro in cui gli afroamericani potevano essere accolti evitando guai. Come da manuale, tra cliché e gustose gag, il rapporto tra i due decolla superando mano a mano le diffidenze iniziali – le maggiori resistenze sono da parte di Don verso Tony, a ben vedere – e i due amici imparano l’uno dall’altro verso un  finale commovente con tanto di quadretto natalizio assicurato.

Farrelly, che firma la sceneggiatura insieme a Nick Vallelonga, figlio del vero Tony, mette a frutto il proprio talento comico, tenendosi ben lontano dal tono demenziale delle commedie che lo hanno reso celebre. I dialoghi e i battibecchi tra i due protagonisti conferiscono a questo buddy movie un ritmo trascinante. Mortensen e Ali, candidati entrambi all’Oscar e il secondo vincitore del Golden Globe come miglior attore non protagonista, lavorano in perfetta alchimia, con il poliglotta Mortensen che mastica – visto l’appetito bulimico del personaggio è il caso di dirlo – in modo credibile l’italiano. I cliché imboccano con collaudata puntualità la via della commozione, senza lesinare talvolta la retorica più grossolana (Don in giacca e cravatta, con la Cadillac in panne, osservato da un gruppo di attoniti coltivatori neri del Sud). A corroborare il tutto carezzando il consenso spettatoriale si aggiunge infine la rassicurante egida della “storia vera”. In Green Book tutto è talmente lineare, classico e accomodante da rendersi allo spettatore senza alcuno sforzo. Una formula pressoché impeccabile per gli amanti del genere, e il mercato ovviamente, che però, qua e là, Farrelly sa anche gestire e incanalare suggerendo, nei suoi momenti migliori e grazie soprattutto al lavoro di Mahershala Ali, la sotterranea ma persistente sofferenza di chi è costretto a fare i conti, tutti i giorni e in silenzio, con un mondo in cui si è costretti a nascondere i lividi sotto una maschera di trucco.

Per il resto, rimane quel che rimane: un film da cui non si può pretendere altro rispetto a quanto viene offerto già dal trailer. Un film che anziché dialogare con lo spettatore, lasciandolo libero di colmare le eventuali lacune o di prendere da sé coscienza del problema, fino a sollevare reali quesiti, preferisce piuttosto l’approccio catechistico, appianando le asperità e elargendo fin da subito le proprie confortanti risposte. E può anche andare bene così. Basta essere consapevoli della differenza.

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Peter Farrelly Viggo Mortensen Mahershala Ali Linda Cardellini 130 minuti
USA 2018
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Absentia

di Leonardo Strano
Absentia recensione film flanagan

La cosa che più colpisce di Absentia, esordio nel lungo cinematografico di Mike Flanagan, è il punto di vista adottato dal regista per raccontare questa storia di elaborazione del lutto. L’angolo prospettico riguardo al problema della morte e all’influenza del dolore sui vivi è infatti la nota particolare di questa produzione horror low budget (finanziata da un crowdfunding su Kickstarter), la qualità che permette al film di sostenersi malgrado un impianto scenico davvero povero e un comparto attoriale dilettantistico. Flanagan ragiona sul tema attraverso una storia di sofferenza ammortizzata nel quotidiano: la vita di Tricia a sette anni dalla scomparsa di suo marito Daniel, morto presunto, è infatti il centro narrativo di una tragedia di quartiere imperniata su un tunnel oscuro e su presenze altrettanto terrorizzanti, attraverso cui il regista compone una inusuale radiografia sui viventi, interessata all’esame delle psicologie di individui distrutti dalla perdita e perseguitati da un male inspiegabile.

Il regista cerca di rappresentare uno stato emotivo preciso e allo stesso tempo indefinito. Il suo non è solo un elogio commosso alla forza resiliente degli amabili resti che sopravvivono a una disgrazia, ma anche una riflessione sui confini che delimitano vita e morte, una disamina genuina sullo stato mentale di chi, nella cornice ambientale di una periferia violenta travestita da quartiere normale, è imprigionato in una continua cortina di buio in cui la sovrapposizione di realtà e sovrannaturale è legge metafisica ed emotiva, oltre che costrizione inspiegabile e inarrestabile. Absentia infatti usa gli stilemi dell’horror – legati alla rappresentazione di una realtà sempre extra umana – per infondere alla riflessione sull’umano una risonanza che cerca di trascendere l’osservazione delle dinamiche relazionali tra persone per raggiungere un asse espressivo più sottile, più vicino a una frequenza capace di toccare una zona intrinseca dell’emotività fatta di punti fragili e carne viva.

Così il film risulta valido grazie all’intelligenza di una scrittura capace di ragionare sulla natura incomprensibile del lutto attraverso la lente della narrazione di genere. La paura che si prova durante la visione non muove dalle calcolate sorprese, orrende e terribili, ma da uno stato di tensione emozionale continuo che obnubila e inghiotte i personaggi, suggerendo l’inesistenza di un lieto fine, di una speranza che non sia menzogna, di una vita che non sia continuo rassegnarsi al dolore e all’andare avanti dimenticando, cancellando, formando un grande rimosso capace di rivelarsi prima fantasma sovrimpresso nella realtà e poi rigurgito abnorme e incontrollato. Quando una soluzione narrativa suggerisce poi la permeabilità dello schermo questa tensione interna si riversa al di là della narrazione e il controcampo finale dilata l’estensione del messaggio sconfortante, opaco e senza soluzione fino alle variabili esperienziali dello spettatore. Inizio di un’interessante carriera.

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Mike Flanagan Katie Parker Courtney Bell Dave Levine Doug Jones Justin Gordon 91 minuti
USA 2011
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In questo mondo

di Riccardo Bellini
In questo mondo, Anna Kauber

La pastorizia è sempre stata considerata un’attività per soli uomini. Eppure, paradossalmente, proprio il lavoro del pastore, nell’inestricabile rapporto con la Terra e le sue creature, nell’idea stessa di sacrificio che esso implica, invoca e presuppone una sensibilità del tutto femminea. Del resto, la stessa Anna Kauber, regista di In questo mondo, afferma che «la donna è madre anche senza esserlo». Finanziato attraverso una campagna di crowfunding e vincitore al 36° Torino Film Festival nella sezione Italiana doc., il documentario della regista e paesaggista parmigiana è un’indagine unica e irripetibile sull’attuale condizione delle pastore in tutta Italia e insieme un vivido omaggio all’universo femminile, alle sue meraviglie e alla sua resistenza in una società ancora sorretta da fondamenta maschiliste.

Con un viaggio di diciassettemila chilometri in due anni, dalle Alpi all’Aspromonte, passando anche per Sicilia e Sardegna, e un centinaio di interviste effettuate a donne dai venti ai centodue anni di età per ore e ore di girato (il montaggio è di Esmeralda Calabria), Kauber ha raccolto pazientemente e con amore una mole di materiale degna di un’epica. Eppure l’impresa della regista si tiene diametralmente distante dalla magniloquenza di una mitizzazione fin troppo scontata. Fin dalla scelta del titolo, una rivendicazione di materialità, di attaccamento alla terra e a tutto ciò che essa ha da offrire, Kauber dimostra di volersi tenere ancorata a una concreto senso del reale e della contingenza, mettendo in primo piano i racconti e la lucidità di donne coriacee, temprate dalla vita e sospinte dalla propria vocazione alla pastorizia. Donne che vogliono essere considerate tutto tranne che donne eccezionali, per quanto sia indubbiamente ostico il loro mestiere. Dunque, una rivendicazione di legittimità per una minoranza da sempre osteggiata: orgogliose donne pastori in un’Italia, questa nostra Italia, dove la pastorizia va preservata come risorsa ecologica fondamentale.

In una babele di dialetti e accenti queste donne di diversa età ed esperienze raccontano le proprie vite, tra gioie e sacrifici. C’è per esempio Efisia, che ama talmente tanto le proprie pecore da anteporre la loro salute alla propria; Caterina, la pastora musicista, che ha scelto di non continuare la carriera musicale per dedicarsi alla pastorizia e ora allieta il proprio gregge suonando il violino durante il pascolo; o ancora Gabriella, la quale ha preferito a un matrimonio con un uomo benestante una vita costantemente a contatto con i suoi animali da accudire. Storie, volti, geografie differenti ma tutti accomunati dalla medesima passione, dalla medesima scelta perseguita con naturalezza da donne incessantemente sospinte e richiamate verso la terra da forze ataviche, nonostante l’ottusa ostilità - tutt’ora presente - di chi continua a considerare la pastorizia una questione maschile. Una comunione totale, dunque, quella di queste pastore con la natura e i suoi elementi, per cui, per alcune di esse, consumare la carne dei loro stessi ovini acquisisce una rilevanza quasi spirituale («il più grande dono che possano farci»).

In questo mondo raggiunge un’intensità e un valore testimoniale preziosissimi, tanto più considerata la labilità dell’universo catturato, lavorando con la semplicità e la discrezione di uno sguardo paziente e capace nella sua onesta attenzione al dato materiale di lasciar parlare la natura e i suoi processi. Più che dischiudere lo sguardo verso un mondo altro, l’autrice riesce bensì ad illuminare questa medesima realtà di una luce differente, più calda, più materna, più amorevole e forse, proprio per questo, più produttiva. Con il suo documentario, Kauber rivolge dunque un invito che supera la portata delle singole storie raccontate. Un invito a considerare l’amore come fondamento per una società non solo più giusta e sana ma anche più efficiente.

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Anna Kauber 97 minuti
Italia, 2018
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Il Corriere - The Mule

di Samuele Sestieri
ILCORRIERE

Di fronte alle immagini essenziali di Il corriere - The Mule si prova un certo sentimento crepuscolare. Si guarda indietro verso i western, l'immaginario dell'America che fu, il profondo senso etico del più politico dei cineasti americani in attività. Clint Eastwood, il grande vecchio che non cade mai, quello che apre il suo cinema alle derive sperimentali e incomprese di Ore 15.17 - Attacco al treno e poi torna a recitare a quasi novant'anni. 


In fondo i suoi personaggi continuano a rispondere ossessivamente a una domanda: cosa fa di noi un essere umano? Qual è la scintilla che ci rende uomini? Tutta la sua filmografia insegue la medesima risposta: la possibilità di scegliere al di fuori di qualsiasi assetto costituito, assumendosi tutte le responsabilità che comporta l'azione. Essere il proprio destino per un preciso, necessario senso etico, senza mezzi termini o mediazioni. Quella di Clint è probabilmente l'ultima vera figura anarchica dell'immaginario americano, che promuove lo spirito di un cinema autenticamente conflittuale, selvaggio e mai risolutivo: in un mondo dove l'atto è l'origine e l'eclissi di ogni cosa, Clint si assume il peso dell'azione. Imbocca una nuova via, modifica il senso di marcia. In quel momento sospeso si risveglia l'idea fissa che, assopita, abita i suoi eroi. La dimensione che viene a crearsi è quella del tempo che resta, protratto non davanti ma dentro i personaggi, verso la loro identità più profonda.  


Parla proprio di questo Il corriere: Earl Stone per tutta la vita ha anteposto il lavoro agli affetti. Pessimo marito, pessimo padre, individualista convinto che ha lasciato la famiglia scivolare via. Col peso degli anni e senza più lavoro, non rimangono che i rimpianti che diventano giorno dopo giorno fardelli insostenibili. La casa pignorata, le delusioni e i rancori, resta solo quel vecchio, inseparabile furgone, unico compagno di viaggio e di mille avventure. Guidare e lasciarsi andare, percorrendo le strade americane alla ricerca di una continuità che riunisca una costellazione di frammenti (in fondo Una storia vera di David Lynch faceva la stessa cosa).

Il dolore appannato dalla strada, la leggerezza di una canzone di Dean Martin, l'orizzonte sempre a-venire: il viaggio delinea un'altra velocità, un altro modo di stare al mondo. Senza troppi indugi, Earl accetta la proposta di un giovane messicano e diventa il corriere per un cartello della droga. Con i soldi guadagnati tenta di ricostruire il mondo perduto che lo circonda: paga il matrimonio della nipote, salva il circolo di reduci cui apparteneva, tenta in tutti i modi di riacquistare il tempo, di guarirlo, consapevole di non poter cancellare le colpe o silenziare i rimorsi. Ma si può ricominciare, anche a ottant'anni suonati: a patto di seguire velocità diverse dalla realtà circostante, di prendersi i propri tempi, strade e geografie (che restituiscano un senso di coesione, di identificazione con la terra cui si appartiene); di interrompere una consegna per aiutare una coppia con la macchina ferma sul ciglio della strada, di spassarsela con un paio di ragazze in un motel, di vivere al proprio ritmo come ai tempi delle ballate dei cowboy solitari.  

Clint allestisce una straziante opera di rimpianti e parole mai dette con quel tocco di miracolosa leggerezza che appartiene solo ai grandi maestri. C'è lo humour scanzonato e politicamente scorretto dove il grande vecchio, sfacciato e un po' piacione, osserva un mondo che va troppo in fretta. Se la prende con la rete ("Internet? A chi serve?"), fatica a utilizzare un cellulare ma almeno sa come cambiare una ruota. Spudorato, si rifugia nell'esperienza alimentando quel sesto senso che gli salva la vita. Il volto ruvido di chi non ha più nulla da perdere - se non l'amore della sua vita che l'orgoglio, l'arrivismo e la vanagloria hanno oscurato. La sequenza finale con la moglie è una di quelle cose che mettono i brividi solo a pensarci.


Se un mese fa, Old Man & The Gun segnava l'addio alle scene dell'altro grande vecchio, Robert Redford, con un film gentile e pulito che era un preciso omaggio alla stella, Il corriere è un'opera selvaggia alla Clint, che non conosce fine ma può solo continuare. I parenti più stretti, in questo senso, sono Gran Torino e Million Dollar Baby. Se l'intero universo muore intorno a lui, Clint non smette di viaggiare. Sa bene che il mondo non è un paese per vecchi ma lui imperterrito coltiva il suo orto - che sia nel giardino di una casa o di una prigione non fa differenza. Del resto ama i fiori che durano un solo giorno, riconosce la bellezza in tutto ciò che muore. 
A inseguirlo il poliziotto Bradley Cooper, alter-ego, doppio del protagonista, come nella migliore tradizione guardia e ladri. La sequenza al bar che li vede entrambi in scena è la sintesi perfetta della morale eastwoodiana: l'icona, tenacemente attaccata alla vita, nell'altro riconosce se stesso. Sembra quasi la scena di un western (ma cosa, nel cinema di Eastwood, non lo è?). Non importa da che parte stia, l'importante è che abbia impressa negli occhi la medesima immagine, lo stesso mirabolante sogno - quella del mondo perfetto da proteggere da tutte le insidie e i falsi dei.

Quella per cui vale la pena perfino un po' morire...almeno fino alla prossima cavalcata.
 

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Clint Eastwood Clint Eastwood Bradley Cooper Laurence Fishburne Dianne Wiest 116 minuti
USA 2018
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Gli amanti del Pont-Neuf

di Fiaba Di Martino
GLIAMANTIDELPONTNEUF

Gli amanti del Pont-Neuf è forse il film d'amore più bello della Storia (del cinema, dell'audiovisivo, e probabilmente oltre; della vita), e il cinema caraxiano - con le sue permutazioni visive, le sue lanterne magiche sporchissime, caleidoscopiche, i suoi virtuosismi eccedenti, deliranti, la sua carica nouvelle vague, i suoi carnevali di movimento estremo e lisergico alla ricerca dell'umano – è l'ultimo cinema romantico. Romantico che più romantico non si può, che più romantico si muore - e in effetti succede, a volte. Ma non qui. Gli amanti del Pont-Neuf è una fiaba. Che sembra voler raccogliere in sé i primordi, le immagini archetipiche e fondative del racconto amoroso su pellicola, essere primo e unico, e al tempo stesso riunire organicamente le suggestioni che lo hanno preceduto (e quelle che verranno...); un unicum contraddittorio, ipercinetico/cinefilo, con un sapore di incontaminato, come un primo amore che è anche fou. Che è pieno di grazia, di promesse e innocenza, e che è totalizzante, assolutista, tiranno, matto. Puro e (mai) semplice.
Una fiaba dunque, e come tutte le fiabe una storia d'amore: boy meets girl, boy loves girl, e viceversa. C'è un principe, che è più che altro un garzone, un Cenerentolo, con il volto incredibile dell'alter ego Denis Lavant, folletto vagabondo, principe di tutti i colori che si desiderino, Lavant e il suo corpo-mondo, feticcio inesauribile. C'è una principessa, una fata; una piratessa con benda d'ordinanza sull'occhio guasto; Juliette Binoche, musa, dea, Prima Donna sempre. Boy e Girl, poveracci degradati ai confini della terra sociale, della normativa civile, della polis. Si vengono incontro subito, dopo una manciata di inquadrature, e si stringono in un Eden decaduto, brutto sporco e buono, buonissimo, come loro, Adamo ed Eva bambini, accattoni dentro una poesia. In ogni fiaba c'è la magia, e c'è l'amore, e per Carax non vi è separazione concepibile fra loro; l'amore qui è magia più che in qualsiasi rilascio industriale disneyano o hollywoodiano, ed è un superpotere. Carax fa film d'amore e di supereroi, supereroi innamorati e bambini, che si amano davvero, punto, in un breve incontro (ripetuto) fra il loro mondo isolato e quello che c'è fuori, che lo graffia ma non lo sforma mai. I dispositivi di videosorveglianza, controllo e vergogna in prigione, le umiliazioni, le botte in polizia, lo Stato fantasma che li raccoglie come bestiame inutile, come rifiuti, le famiglie invisibili, imperative, mostruose; eppure nulla della realtà sempre incombente li scalfisce, Alex e Michèle - né Carax perde l'equilibrio, il baricentro della fiaba. Quel che c'è basta a se stesso, e mai si inquina di programmaticità sensazionalistiche o virtuosistiche. Niente esiste ed è davvero fatale, per i nostri eroi, all’infuori del mondo che loro vedono. Per questo nulla li schiaccia, li vince, ed essi tutto possono: piegare il tempo e lo spazio, renderli compatibili con la loro interiorità, con la loro gioia; tutto diventa eterno paesaggio sentimentale, senza limiti (anche formali), florido di sogno - che scaturisce da qualsiasi stimolo: finché potremo danzare sull'eco dei fuochi artificiali, tutto andrà bene.
Poi, come ogni fiaba, c'è un aiutante, un guardiano, un compagno d'arme e di sventura, saggio e anziano; un custode di luoghi e un protettore di anime. «Tu devi vivere», dice egli ad Alex. «L'amore non sta qui», fiorisce da un'altra parte, si costruisce altrove. Infatti Alex e Michèle, come tutti gli eroi, si ribellano a una legge. Fanno nascere l'amore illegittimamente, in una zona purgatoriale, in un confino dimenticato. L'immaginario romantico caraxiano riporta l'amare a una dimensione di lotta (inconsapevole) contro il sistema cieco e punitivo, a una pulsione eroica; chi ama è un ribelle, un disgraziato, e viceversa, di nuovo, solo i miserabili e i bambini amano così. Correndo e urlando, tenendosi per mano e per il sesso, chiamandosi col proprio nome e gioendone, buttandosi per strada, fra le macchine e la neve. «Questo genere di certezza si prova una sola volta nella vita» diceva Clint chino su altri ponti. E l'esperienza dell'amore raccontato così, vis(su)to così, l'amore che ti arriva addosso e dentro infantile e feroce, con un'autoevidenza sfrenata, tenera e selvaggia, dice ancora e sempre di un cineasta impavidamente onesto, inesorabilmente lirico e turbolento nell'accarezzare parabole di miseria, nel ricoprirle di incantamento e di un cocciuto desiderio di lieto fine, pure con la tragedia che respira dietro a ogni fotogramma, nascosta fuori campo - Alex che fa le capriole sul bordo del ponte, i clacson, la pistola, i ricordi epilettici. Ma i nostri eroi, come detto, quella tragedia non la guardano mai. Si divincolano dalla verosimiglianza; credono e basta, nella bellezza del gesto d'amore, nella sua superpotenza. E per questo le prove da superare, i nemici da sconfiggere, con il fuoco, con l'attesa dietro le sbarre, gli anni che si accavallano, si superano con un battito di ciglia, un cambio d'inquadratura; tutto può accadere, e l'amore ritorna come premio finale, trionfa mentre Alex e Michèle cambiano di prospettiva, abbandonano il ponte, ne creano uno nuovo fra di loro, si perdonano sott'acqua, omaggiano L'Atalante e profetizzano Titanic, ultimo uomo e ultima donna sulla Terra e nei film. 
«Si ha solo una vita», un amore, un cinema che li abbracci tutti. Eccolo. Capace di creare ponti a sua volta, e che non può (non vuole) insegnare a dimenticare, ma a sognare sì. E Gli amanti del Pont-Neuf, finito a essere operazione autodistruttiva e maledetta per Leos, è un sogno lungo un giorno e una storia infinita, un film che guarisce da una malattia della vista, e forse sta tutto qui il cinema di Carax, il suo motore sacro: nel cercare di aggiustare i propri occhi, per vedere una casa in un ponte rotto, la donna della propria vita in una pezzente tutta storta. Andare dentro, andare dietro i paraventi, i veli, smettere i propri filtri, immergere lo sguardo in un'alterità, trovarne la magia, la favola. L'etica, il senso. L’immagine vera, eroica. Tornare a vedere, perché si è imparato ad amare.
 

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Leos Carax Juliette Binoche Denis Lavant 120 minuti
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