The OA
Il controverso esperimento di Netflix recupera la forza primigenia della narrazione passando per l’ambiguità della fiaba.
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Ad un paio di settimane dalla fine di un 2016 strabordante di ottimo cinema e di preziose novità televisive, con The OA Netflix ha rilasciato, senza alcun clamore mediatico, una serie tv capace di esercitare un fascino controverso. Per alcuni si è trattato di una straordinaria sorpresa, coinvolgente, audace e innovativa (Jen Chaney su Vulture); per altri il risultato del pluriennale progetto di Brit Marling e Zal Batmanglij non è stato altro che “un esperimento fallito, non totalmente privo di valore, nell’ambito dell’autorialità televisiva” (Daniel Fienberg sulle colonne di The Hollywood Reporter). Posizioni estreme e dicotomiche, di esaltata accettazione o di netto rifiuto, la cui linea di demarcazione sta, almeno ad un livello più impulsivo e contingente, nella capacità da parte dello spettatore di sostenere o meno la sospensione dell’incredulità che i passaggi più bizzarri richiedono nel corso delle circa sette ore che compongono l’arco narrativo – questo prima che la serie esploda, in un climax ritenuto del tutto illogico e inaccettabile, nel singolare finale di stagione.
Incredulità che non viene tanto dalla declinazione mistico-spirituale, a tratti effettivamente un po’ new-age, dei molti elementi fantascientifici della serie, ma piuttosto dall’apparente faciloneria con la quale questi vengono poi assorbiti, sviluppati ed esacerbati dalla trama e dall’insistenza sistematica con la quale si richiede la sospensione del dubbio.
La storia di Praire (interpretata dalla stessa Brit Marling), una ragazza cieca scomparsa per sette anni e riapparsa in circostanze misteriose con la vista riacquistata, è indubbiamente costellata, a tratti in maniera parossistica, di circostanze fuori dal comune, ai limiti dell’assurdo – esperienze pre-morte, resurrezioni, chiaroveggenza, fluttuazioni lisergiche in mondi oltre l’umano e scavalcamenti della realtà – contrassegnate da una forte connotazione romantica e spiritualistica. Ma il problema, per i detrattori, non risiede certo nella plausibilità di certi fenomeni paranormali, cui tanta letteratura o produzione audiovisiva ci ha già ampiamente abituato, quanto nel peso eccessivo che la componente metafisica riveste nell’economia finzionale dell’opera, a scapito di altri aspetti che vengono invece trascurati come la caratterizzazione dei personaggi o la coerenza degli accadimenti intradiegetici.
La verità è che leggere l’opera di Marling e Batmanglij soltanto ad un livello testuale, concentrandosi su eventuali debolezze della sceneggiatura, significa tagliare fuori la parte più feconda del loro contributo all’innovazione dello storytelling televisivo: l’afflato meta-testuale, la risonanza allegorica del magma creativo messo in scena dai due autori indipendenti americani. Significa non approfittare della riflessione sul valore taumaturgico dell’arte e dell’invenzione creativa, l’atto più significativo del mondo moderno e contemporaneo, la forza plasmante di quell’impulso che spinge l’uomo ad articolare un processo universale di autocomprensione, e quindi autoguarigione, radicale. Che Praire sia o meno un narratore attendibile e che il racconto che sceglie di affidare ad uno sparuto gruppo di misfits dei sobborghi sia veritiero o frutto di una psicosi post-traumatica, allora, poco importa. Favola e favella, mythos e logos tornano, come agli albori della civiltà umana, a sovrapporsi nella forma e nella sostanza. La reinvenzione del reale, la sua riconfigurazione ad opera del linguaggio e della fantasia, diventano le uniche possibilità di fuga dalla prigionia del dolore, della sofferenza e della morte (tutti i protagonisti della serie vivono all’interno di gabbie fisiche, mentali o sociali), l’unica possibilità di sopravvivere alla tagliola della realtà o della violenza.
Non è un caso che la stravagante architettura gestuale dei cinque movimenti, che nel finale conferma pienamente l’importanza del suo statuto performativo e mediativo, nasca proprio con l’idea di costituire un “antidoto alla violenza”, una porta verso altri mondi, uno strumento di guarigione, un mezzo potentissimo di comunicazione e comunione con l’Altro e col divino. Anzi, la possibilità che la storia raccontata da Praire altro non sia se non una rapsodia nata dalla giustapposizione di frammenti narrativi archetipici assimilati con la lettura – una fiaba, in altre parole, una parabola o una menzogna, se vi vuole – non fa che elevare il linguaggio, come sosteneva Novalis proprio a proposito delle fiabe, alla sua “seconda potenza”. Del resto era proprio il poeta tedesco a dire che “il mondo deve essere romanticizzato” se si vuole ritrovarne il senso originario.
In maniera non molto dissimile da quanto fatto da Nolan in Westworld, allora, i due autori della serie prodotta da Netflix sembrano voler invitare il proprio pubblico a tornare a credere nelle storie proprio (ri)partendo dall’infinita arbitrarietà delle sue forme e dal potere maieutico della finzione. Arrendendosi ad esse e accettandone l’ineluttabile necessità, proprio come fa il gruppo che ascolta i racconti à la Sherazad narrati da OA.