Blaze
Tra consuetudine e sperimentazione, Hollywood e cinema indipendente, Ethan Hawke firma un biopic musicale emotivo e sincero.
Uno dei grandi interrogativi del cinema americano contemporaneo (specie alla luce del recente successo di due film riusciti ma piuttosto convenzionali come La La Land e A Star Is Born) è come, ma soprattutto se si possano riscrivere almeno in parte le regole obsolete del film musicale, e in particolare del filone musical-sentimentale-intimista spesso intrecciato a doppio filo col biopic. Quello di Ethan Hawke è sicuramente un passo avanti, il tentativo di portare su schermo la musica e la vita di James “Blaze” Foley distanziandosi dal racconto patinato e/o agiografico. Se ne allontana soprattutto perché, nonostante il talento e il fascino che esercita il suo soggetto (in primis sul regista), Blaze è una storia di occasioni mancate, la più grande delle quali è quella che l’artista aveva per raccontare se stesso attraverso la propria arte.
Blaze Foley è una piccola leggenda nella musica folk texana ma non ha praticamente mai registrato nulla delle proprie canzoni, e ha tenuto pochi concerti a cui fosse presente più di una manciata di persone; è lo stereotipo incarnato dell'artista tormentato, ma al contrario della maggior parte di quelli raccontati dai film per lui non esiste lieto fine né consegna ai posteri, c'è solo una fine solitaria e ben poco romantica, e la certezza di sapersi raccontato soltanto dagli altri, dalle diverse voci che animano il film: a raccontare la storia di Blaze troviamo l'ex moglie Sybil Rosen (autrice della biografia Living in The Woods in a Tree: Remembering Blaze Foley, che rappresenta la fonte principale del film), gli amici (il musicista di culto Townes Van Zandt e Zee) e infine il regista stesso, che sul finale offre il suo punto di vista anche attraverso la voce dello stesso Foley, interpretato da uno straordinario Ben Dickey.
Tre voci che raccontano tre storie diverse e tre Blaze diversi: l'uomo innamorato e pieno di sogni che vive in una casa su un albero; il compagno d'arte e di bevute allergico alle convenzioni che si trasforma in aneddoto da rielaborare e tramandare; l'uomo ferito e consapevolmente incapace di vivere una vita normale e mettere a frutto il proprio talento, che sceglie l'isolamento e la povertà per essere libero di sprecare ogni cosa abbandonandosi ai propri demoni.
Grazie alla scelta di molteplici punti di vista, che nell'intrecciarsi restituiscono un quadro umano del protagonista impossibile da sciogliere e sconosciuto prima di tutto a sé stesso (come spesso accade nel caso di uomini che scelgono di esprimere la propria sfera emotiva esclusivamente attraverso la musica), Blaze riesce a evitare la convenzionalità del biopic musicale pur mantenendone intatti gli elementi fondamentali (dramma, amore, tormento emotivo, ambizioni disattese), impostando la storia come una caduta annunciata di cui si cercano le radici e le ragioni riavvolgendone le pagine.
Con uno stile lirico che si posiziona sulla linea di confine tra consuetudine e sperimentazione, tra Hollywood e cinema indipendente, Blaze confeziona un risultato più che soddisfacente in termini di esperienza spettatoriale, capace di toccare tutte le corde emotive importanti senza lasciare l'impressione di aver assistito a un'operazione calcolata. Ethan Hawke si rivela capace di catturare perfettamente l'ineffabilità del talento, forse anche perché sinceramente innamorato del proprio soggetto, oltre che in grado di mettere insieme un cast pressoché perfetto, in cui brillano Alia Shawkat, espressiva e radiante, e il chitarrista Charlie Sexton, una faccia che sembra creata per il cinema nonostante non sia il suo mestiere.