Arrivederci Saigon

di Carmen Albergo
Arrivederci Saigon di Wilma Labate

"Arrivederci Saigon" ... e non parliamone più.

Questo il titolo, presentato nella sezione Sconfini del Festival di Venezia 2018 , nonché il destino, di una vicenda poco nota all'opinione pubblica, senz'altro sconosciuta al ricambio generazionale di uomini e donne, che apprendono ogni giorno  in tempo reale di conflitti mondiali da network glocali, streaming in diretta web, schermando lo strazio umano dilagante, per sopravviver-ci.

E quindi, ben vengano sempre, pur nella loro composizione essenziale di montaggio tra contestualizzazioni d'archivio e video interviste, i barlumi umani(sti) del linguaggio documentale, che può ancora prendersi l'onere del tempo in ascolto, la rimessa in discussione di esperienze senza memoria condivisa.

La regista Wilma Labate, già distintasi per opere di finzione centrate su percorsi di ribellione femminile, s'avvale della prestigiosa fotografia di Daniele Ciprì, e ben si inserisce nel filone di una storiografia trascurata, tutta da riscoprire, che negli ultimi anni trova spazio tra le produzioni attente alle piccole grandi protagoniste della Storia. Storia di lotte e conquiste, storie di donne mai scese dalle barricate culturali. 

Da un lato, dunque, il '68 e il Vietnam, dall'altro lo scavo emotivo, tra pagine di diario mai scritte di proprio pugno, perché sepolte nel fondo di ragioni e dolori di quattro musiciste, Viviana Tacchella, Daniela Santerini, Franca Deni, Rossella Canaccini, a quel tempo adolescenti sognatrici, speranze nel boom della discografia italiana: la band femminile Le Star (dove già solo "band femminile" meriterebbe un'osservatorio a parte).

L'impresa impossibile di restituire l'autenticità di una perduta innocenza nell'intimità dei ricordi frana sotto il macigno del senno di poi, lucido nella narrazione, ma rotto in gola dal rifiuto della comprensione altrui, persino dall'accusa di non essere state vittime di una congerie più grande, ma sostenitrici di quel miasma di morte, contro cui si sollevò il giovanile grido di protesta mondiale, la guerra in Vietnam. Sì, perché Le Stars furono travolte dalla fortuna di poter girare il mondo con un tour di concerti in Estremo Oriente, ma a causa dell'incomprovabile avventatezza del proprio impresario, pena un'ingente sanzione da pagare, soggiornarono per mesi nelle basi militari statunitensi. Gooooood morning, Vietnam! Le Stars, atterrarono sgomente e incredule a Saigon, ufficialmente per arricchire il palinsesto d'intrattenimento dei soldati (tra un numero e l'altro di ragazze in bikini) e lì lasciarono seppellire, proprio come i giovani combattenti, gli entusiasmi dell'età infranta dalla paura dei bombardamenti quotidiani, dalle fila di bare negli hangar, dai volti segnati dalle torture, dalla consapevolezza di abbracciare ogni giorno la morte. Gioventù inspiegabilmente resiliente, vissero quei mesi gomito a gomito con i militari, scoprendone i razzismi intestini, le malinconie, trovando spazio perfino per il fugace pensiero di un amore. Il complesso musicale visse giusto il tempo di quegli sterminati applausi ubriachi, anestetizzati alla compassione, perché al loro rientro in Italia, nella natìa Toscana di provincia, dove si dibatteva, contestava, mobilitava affinché la guerra finisse, ad accoglierle trovarono il paradosso di venir tacciate e taciute, per essere capitate loro malgrado sul fronte sbagliato, quello del nemico imperialista.  Riaffiorano poche lacrime e la rabbia covata sotto la cenere. Emerge tra i silenzi e le parole la nostalgia per un'innegabile ebrezza mai più riprovata, quella di aver attraversato indifese e indenni l'occhio di un ciclone indicibile e il turbamento per non averlo potuto comunicare con fierezza. E in fondo a tutto, infine, l'amore eterno per la musica, per quel travolgente soul e i suoi miti, che spinse i loro animi così lontano, ben oltre gli sconfinamenti musicali, sul baratro del conflitto dell'uomo che non riconosce il suo simile e perpetra vendetta. Una sopravvivenza di passioni che è forse l'unica testimonianza possibile dell'infinito coraggio che quelle ragazze di allora possono trasmettere ai ragazzi di ora.

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Wilma Labate 80 minuti
Italia
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Maniac

di Matteo Berardini
Maniac - serie tv netflix recensione

Secondo Friedkin l’inseguimento rappresenta la più pura forma di cinema, dato che l’audiovisivo è l’unico medium in grado di ricreare e trasmettere allo spettatore la pienezza dell’esperienza di due auto lanciate una dietro l’altra. Giocando con il celebre aneddoto potremmo dire la stessa cosa della mente: solo il cinema – con l’importante eccezione del linguaggio videoludico – è in grado di spazializzare la mente, di offrire una rappresentazione attraversabile, tangibile e assieme infinita nelle sue possibilità ricombinanti del mondo interiore e dell’inconscio. Letteratura, musica, teatro, possono certo evocare, descrivere, ingannare, tuttavia solo all’interno della finzione cinematografica la mente diventa qualcosa che possiamo effettivamente esperire.
Non a caso sono molti (e in costante aumento grazie alle risorse dell’immagine digitale) i film e le serie tv che ci portano dentro i pensieri, le paure e i desideri dei personaggi, in mezzo a sentimenti e ricordi e fantasie e traumi che prendono vita e soprattutto spazio, diventando luoghi fisici seppur soggetti ad alcuna legge fisica. Tra gli esempi più evidenti di quest’approccio possiamo citare con facilità Eternal Sunshine of the Spotless Mind e Inception, due titoli che tra ricordo e sogno cercano di restituire allo spettatore uno spaccato di interiorità, e che non a caso prendono entrambi la forma del viaggio a ritroso, della catabasi atta a permettere ai personaggi di raggiungere un qualche livello di profondità interiore. Su questa scia si colloca anche Maniac, che dei due film citati è figlia e forte debitrice. Infatti la miniserie Netflix, ispirata da un’omonima produzione norvegese, punta a restituire un attraversamento interiore attraverso i meccanismi di genere offerti dall’immaginario cinematografico, un insieme di mondi inventati che come livelli vengono superati un poco alla volta verso una catarsi finale.

Il senso profondo di Maniac ruota proprio attorno al tentativo di dare una dimensione spazio/temporale ai traumi interiori dei due protagonisti, Annie e Owen, interpretati con intensità da Emma Stone e Jonah Hill (anche se alla coppia centrale si affianca un terzetto altrettanto se non più problematico, che vede coinvolti i personaggi di Justin Theroux, Sonoya Mizuno e Sally Field).
Come in Inception i due personaggi si troveranno ad attraversare i diversi stadi della loro mente, organizzati per realtà parallele rispondenti a generi diversi: nel corso dei suoi dieci episodi Maniac si muove attraverso il gangster movie e la spy story, il fantasy e il pulp suburbano, situazioni ricreate sempre con grande perizia tecnica dal regista di tutta la miniserie, Cary Fukunaga (non a caso prossimo regista di 007). Anche il mondo reale che fa da cornice al racconto si muove attraverso binari consolidati, essendo il frutto di un mondo retro-futuristico e vagamente distopico in cui l’estetica e la tecnica degli anni ’80 sono diventati la base per ogni evoluzione tecnologica. E qui troviamo evidentemente tracce di Michel Gondry, il cui tocco artigianale diventa la base per la riproduzione di una tecnologia fatta di video, megacomputer, pixel quadrettati e colori sgargianti. Ma del capolavoro di Gondry e Kaufmann, Fukunaga e il suo sceneggiatore Patrick Somerville prendono soprattutto il tema del legame sotterraneo e indissolubile tra due persone, quel contatto che risuona a discapito di ogni correzione tecnica o difficoltà interiore. Come i personaggi interpretati da Jim Carrey e Kate Winslet, Annie e Owen cercano di sfuggire al dolore per infine ritrovarsi, con l’aggravante qui che non siamo più in una fuga dal ricordo ma dalla realtà stessa. L’aspetto più interessante di Maniac è proprio questo, raccontare da una parte l’ossessione della società moderna per una cura a tutto – dolore, insicurezza, colpa, lutto – e mostrare dall’altra come un superamento sano di questi nodi traumatici possa permetterci di uscire da noi stessi per ritornare a contatto con le persone che ci circondano.

A questo punto però diventa necessario chiedersi, basta questo a rendere Maniac una miniserie riuscita, e soprattutto all’altezza della sua qualità produttiva, vetta indiscutibile di quanto prodotto da Netflix sino a questo momento? Purtroppo no, affatto. Perché nei dieci episodi che formano il racconto troviamo davvero poco che offra un approfondimento reale e un’esplorazione impegnata dei temi messi in campo. I viaggi mentali che si manifestano durante i tre stadi della sperimentazione farmaceutica a cui si sottopongono i personaggi sono pressoché siparietti auto indulgenti e pretenziosi, tanto riusciti dal punto di vista tecnico quanto superflui se non irritanti per quanto riguarda lo sviluppo (mancato) del percorso drammatico, incapaci come sono di portare avanti un discorso forte riguardo la psicologia dei personaggi o i temi messi in campo. Dei vari scenari attraversati si comprende lo scopo e la funzione – porre i protagonisti di fronte i loro traumi con crescente intensità, giocare con il potere evocativo dell’immaginario cinematografico, visto come via di fuga dal reale e assieme strumento per raggiungere una catarsi – ma quanto ci arriva, realmente, di tutto questo? Quanto traspare a livello di scrittura e regia di un’idea che resta soltanto dichiarata, spesso sbandierata, ma a conti fatti mai realmente indagata? Maniac soffre di una carenza fatale di sguardo e profondità di scrittura, tutto resta sul livello più superficiale dei referenti cinefili e di tendenza, tanto da suggerire l’idea di aver assistito, alla fine di un viaggio sconclusionato e povero di idee, ad un assembramento meccanico di suggestioni e argomenti non solo preesistenti ma appiattiti, banalizzati, impoveriti. Maniac è colma di piccoli legami sotterranei, giochetti e strizzatine d’occhio allo spettatore, costanti divagazioni interiori. Molte cose, nessuna delle quali però può sostituire una seria, robusta scrittura drammatica.

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Cary Fukunaga Emma Stone Jonah Hill Justin Theroux Sally Field 1 stagione da 10 episodi
USA 2018
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Gotti - Il primo padrino

di Riccardo Bellini
Gotti il primo padrino - recensione film

L’esaltazione romantica del fuorilegge, in lotta per affermare il proprio sistema di valori contro uno Stato tirannico, si è ampiamente inscritta nel gangster movie a partire soprattutto dalla fine degli anni Sessanta. Si sa, il crimine affascina, ma una mitizzazione delle sue istanze libertarie rischia anche di rivelarsi un’arma strumentalizzante, quando non supportata dalla giusta sensibilità. È quello che accade a Gotti - Il primo padrino. Reduce da un tortuoso iter produttivo cominciato nel 2010, dopo l’avvicendarsi di diversi registi e interpreti, tra cui originariamente Al Pacino e Joe Pesci, il film arriva a Cannes e nelle sale nel 2018 con tutta la flagranza di un progetto spersonalizzato e confuso, infarcito da una retorica sdrucciolevole. Affidato alla regia del semisconosciuto Kevin Connolly e al volto gonfiato da trucco e lifting di John Travolta, il film ripercorre una parte della vita di John Gotti, boss della potente famiglia newyorkese Gambino.

John, condannato a cinque ergastoli e malato di cancro, riceve in carcere la visita del figlio, il quale informa il padre di aver deciso di accettare una richiesta di patteggiamento, così da ottenere una condanna breve per i reati di cui è accusato e poter passare più tempo con moglie e figli. Il padre si oppone a questo primo confronto, che funge da cornice e segue il racconto di ascesa e caduta del boss. Proprio su una dialettica tra onore e affetti, tra famiglia naturale e famiglia mafiosa sembrerebbe procedere il film sulle prime, ma sceneggiatura e progressione drammatica risultano ben presto sfilacciate. Incapace di gestire con continuità e spessore il rapporto tra la vita criminale di Gotti e l’iniziazione a Cosa Nostra di Jr. Gotti, il progetto si perde accatastando una serie di cliché di genere, dimostrandosi molto più interessato a emulare modelli lontani anni luce che a trovare solidità strutturale. Anche la regia priva di sentimento non aiuta le cose, mentre i momenti adrenalinici, che per lo meno avrebbero potuto tenere desta l’attenzione, sono pochi e raffreddati.   

John Travolta crede davvero nel progetto e lo dimostra facendo il meglio che può, simile a Norma Desmond nel finale di Viale del tramonto, calata nella parte con vigore nonostante intorno a lei non si stia girando alcun film. Ma il personaggio di Gotti è un summa di stereotipi che arriva per accumulazione a un vuoto di personalità. Lo sentiamo sentenziare a destra e a manca su onore e doveri da vero uomo per tutto il tempo, col risultato che, in assenza di un’autentica controparte positiva, il film sembra sposare come modello proprio l’ideologia spaccona del gangster. Ed è curiosa tutta questa insistenza sui codici mafiosi, considerato il fatto che nella realtà John Gotti contravvenne al divieto di spacciare droga imposto dal vecchio Gambino. Nel finale il figlio diventa addirittura un martire della causa Gotti anziché della propria, perseguitato da uno Stato di cui però non si mostrano mai a fondo le colpe e le macchinazioni.

John Gotti è dunque un film che nella migliore delle ipotesi risulta moralmente ambiguo, nella peggiore sfiora l’apologia del crimine organizzato. Le stesse interviste rilasciate dai sostenitori di Gotti dopo la morte del boss, gente del quartiere abituata a venerare le imprese del padrino, provocano un cortocircuito emblematico, nel momento in cui anziché funzionare come denuncia di un tragico spaccato sociale sembrano al contrario troppo pericolosamente aderenti allo spirito dell’intero film. In definitiva, possiamo solo sperare che le intenzioni del progetto iniziale fossero molto lontane dai risultati raggiunti.   

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Kevin Connolly John Travolta Kelly Preston Stacy Keach Pruitt Taylor Vince 112 minuti
USA 2018
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Un affare di famiglia

di Andreina Di Sanzo
Un-affare-di-famiglia - recensione film koreeda

«Tutte le famiglie felici sono simili tra loro, ogni famiglia infelice è infelice a modo suo», sentenzia Tolstoj nel suo incipit di Anna Karenina. Nella piccola casa di Osamu si vive però di una felicità diversa, un’oasi sospesa dove ci si sceglie per sfuggire a quel mondo che rifiuta e maltratta. Un affare di famiglia, Palma d’Oro a Cannes, è un ulteriore tassello del discorso che Hirokazu Kore’eda ha aperto sin dai tempi di Nobody Knows: la famiglia come piccola comunità da cui si impara a pensare, a relazionarsi, ad amare, a odiare.

Osamu e il piccolo Shota, tornando a casa dai soliti furtarelli, trovano per strada una bimba tutta sola, sembrerebbe abbandonata e decidono così di accoglierla tra loro. A casa si vive con poco: lavori precari, piccole truffe ma tanto calore, cibo condiviso, oggetti accumulati, carezze e gesti di complicità. Kore’eda ci mostra subito quel mondo di particolari, di dettagli, attraverso uno sguardo incantato, mai voyueristico, che tocca le rifiniture della delicata banalità. L’arrivo di Yuri mette subito in moto delle domande. Quella che vediamo sembra una normale famiglia: la nonna saggia e affettuosa, la madre che tira avanti la baracca, il padre svogliato e truffaldino, una zia (o chissà) che si guadagna da vivere come spogliarellista e il piccolo Shota che subito accoglie la nuova arrivata. Ognuno incasellato nel suo ruolo. La bimba fugge dalle violenze e i maltrattamenti dei suoi veri genitori e qui trova l’amore di quella che parrebbe una famiglia perfetta. Ma l’equilibrio della casa viene interrotto da un evento che fa emergere i segreti di quel fittizio microcosmo che cessa di funzionare.

«Non scegliamo i nostri genitori» dice l’anziana nonna, una frase emblematica su cui ruotano gli ultimi film del regista giapponese: la questione morale della genitorialità biologica e della genitorialità “affettiva”. Bisogna fingersi necessariamente qualcun altro, come un padre o una madre, per creare le sembianze della felicità? Quanto la menzogna può resistere e sostituire ciò che viene socialmente considerato giusto? Sono queste due tra le tante domande che Un affare di famiglia solleva. Se da un lato, in un primo momento soprattutto, lo sguardo del regista sembra così rapito da certi rituali e minuzie di quella casa fuori dal tempo, dall’altro ci mostra tutta la tragicità dell’essere un bambino. Kore’eda si abbassa al livello dei più piccoli, ne coglie quel vivere così indifeso di fronte alle mostruosità degli adulti, quella voglia di restare in silenzio e di nascondersi nella normalità del gesto quotidiano. La perdita del primo dentino di Yuri è metafora del distacco da qualcosa di più grande: solo il fratellino riesce veramente a condividere con lei quel momento, solo lui può comprenderla. E così Kore’eda ci mostra ancora quello che è lo scarto fondamentale che emerge da questo film. Non è solo una questione tra ciò che eticamente giusto e ciò che lo è a livello sociale e legislativo, la differenza sta anche tra il mondo degli adulti, fatto di disuguaglianze, menzogne, brutture di ogni tipo e quello dei bambini che ne subiscono le conseguenze. Creature sospese e immobilizzate nei loro sguardi malinconici che sognano la fuga, erbe fluttuanti in balìa di un mondo spietato.

Il freddo, i maglioni, i cappotti,  poi l’arrivo dell’estate con i bagliori della pelle bagnata dall’afa, il mare e poi di nuovo il freddo e l’inverno con le sue nevicate. Lo scorrere del tempo con il disgregamento di questa famiglia viene scandito dal passare delle stagioni, come solo gli orientali riescono a sentire e rappresentare: il mondo è fugace e le cose muoiono nella loro ineluttabile caducità. I solidi sentimenti della casa cominciano a dissolversi perché invasi dalle rigidità del mondo contemporaneo, quell’utopia non può trovare riscontro nella realtà, deve stare ai margini della periferia e nel momento in cui viene raggiunta dal mondo reale si frantuma. Anche i dubbi sull’effettività dei sentimenti prendono il sopravvento, con profonda tristezza ci si rende conto della precarietà di quell’oasi felice: troppo perfettamente estranea.
Tutti nasciamo figli, non tutti diventiamo genitori, sorelle o nonni. L’amore è anche una questione di scelta.

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Hirokazu Kore'eda Lily Franky Sakura Andô Mayu Matsuoka Kirin Kiki 121 minuti
Giappone 2018
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Gli incredibili 2

di Samuel Antichi
gli-incredibili-2 - recensione film

Era il 2004 quando uscì nelle sale Gli incredibili, film d’animazione targato Pixar che si andava ad inserire in un universo, quello dei supereroi, certamente in netta espansione ma non così inflazionato ed espanso come risulta essere adesso, con svariati sequel, spin-off e reboot ormai in continua ed inarrestabile produzione. Quattrodici anni dopo Brad Bird prova a bissare il successo del primo capitolo, dopo un’incursione anche nel cinema blockbuster di finzione (Mission: Impossible – Protocollo fantasma, Tomorrowland – Il mondo di domani), partendo esattamente dal finale dell’episodio precedente: un enorme trivella che emerge dal sottosuolo, guidata da un nuovo villain pronto a mettere a ferro e fuoco la città. La spettacolare scena di apertura de Gli Incredibili 2 mostra infatti la famiglia Parr debellare l’attacco del Minatore, che viene neutralizzato e consegnato alla giustizia. Tuttavia il malcontento popolare e soprattutto la preoccupazione dei governi per gli ingenti danni economici provocati dall’intervento, aspetto che emergeva anche nel capitolo precedente, fanno sì che i supereroi vengano nuovamente messi al bando dallo Stato e scaricati dal programma di protezione. Ad ogni modo il periodo di latitanza della famiglia Parr, costretta a nascondersi in un motel, finisce ben presto dal momento che il magnate Winston Deavour decide di avviare una vera e propria campagna promozionale al fine di ridare loro credito e riabilitarli davanti agli occhi dell’opinione pubblica.

L’operazione di rilancio architettata dall’uomo si basa su una massiccia copertura mediatica, catturare le gesta e le imprese dei supereroi attraverso delle microcamere che costruiscano un coinvolgente racconto in prima persona da trasmettere in mondo visione. Come testimonial viene scelta Helen – Elastic Girl le cui azioni, secondo le statistiche, comporterebbero meno danni rispetto a quelle di Bob – Mr. Incredibile, confinato al ruolo di marito subalterno. Relegato in casa l’uomo deve affrontare i problemi di vita quotidiana di cui la moglie generalmente si occupava. Il film si muove dunque su due binari, l’azione con la donna pronta a combattere il crimine e il lato comico con Bob alle prese con le situazione casalinghe: le turbe amorose adolescenziali della figlia Violet, i compiti di matematica di Flash e l’incontenibile Jack-Jack, che non riesce ancora a gestire e controllare i propri poteri. L’elettrizzante vita del supereroe sembra essere addirittura meno problematica rispetto al mantenimento dell’equilibrio familiare. Questo cambiamento di prospettiva, che sarebbe risultato quanto mai superficiale se si fosse risolto semplicemente in un rovesciamento dei ruoli di “genere”, si avvale invece di una dimensione più complessa dal momento che non sarà solo Elastic Girl ad acquisire rilevanza all’interno della narrazione ma la figura femminile in toto, nel bene e nel male.

Il film di Bird riflette inoltre su come il bisogno dei supereroi si possa trasformare in una dipendenza e in una mania del supereroismo, già evidente nel capitolo precedente, in cui il villain Sindrome assumeva i caratteri di un fan le cui aspettative erano rimaste deluse. Prodotti da sponsorizzare e vendere ad un pubblico di consumatori, «i supereroi sono parte del vostro desiderio di sostituire la realtà con la simulazione» sentenzia l’Ipnotizza Schermi, il villain di questo capitolo. La chiara proliferazione degli schermi nella società post-mediale diventa veicolo per controllare la mente degli spettatori. Si potrebbe parlare in questo caso di cyber terrorismo dal momento che il villain riesce attraverso gli schermi a ipnotizzare le persone, riferimento chiaro a come il controllo dei mezzi di comunicazione di massa significhi controllare il mondo, plasmare l’opinione pubblica e deformare la nostra percezione della realtà, dalla propaganda alla fake news.

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Brad Bird Craig T. Nelson Holly Hunter Sarah Vowell Samuel L. Jackson Bob Odenkirk Jonathan Banks 118 minuti
USA 2018
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Venom

di Matteo Marescalco
Venom - recensione film Marvel

Venom, il personaggio del simbionte Marvel, ha debuttato al cinema nel 2007, quando apparve nel canto del cigno della trilogia di Sam Raimi dedicata a Spider Man. Il terzo episodio della saga è rimasto nella memoria per la sua pletora di story-line, tale da sfiorare il rischio di collasso; tuttavia, a parere di chi scrive, quest’eccesso permetteva al film di raggiungere uno straordinario risultato: come con il fluviale King Kong di Peter Jackson, anche Spider Man 3 si poneva alla stregua di un proto-film interattivo, un esperimento in grado di offrire allo spettatore talmente tante vie di sbocco da spingerlo a seguire e ad approfondire quella prediletta. Il risultato di critica e di pubblico, tuttavia, fu al di sotto delle aspettative.

Con l’uscita di Venom, diretto da Ruben Fleischer, la creatura di David Michelinie e di Todd McFarlane si è nuovamente impossessata dei fruitori da sala di tutto il mondo, ma stavolta, per questione di diritti, l’Uomo Ragno è stato bandito da questo stand alone sull’arrivo sulla Terra del simbionte. Il parassita amorfo si è innestato nel corpo di Eddie Brock, un reporter senza scrupoli che ha visto la propria vita andare in malora a causa di un servizio realizzato su Carlton Drake che, dietro l’aspetto da filantropo, nasconde ambigui segreti. Drake è, infatti, CEO di Life Foundation (l’easter-egg farebbe pensare ad un naturale nesso con la materia lovecraftiana del recente film di Daniel Espinosa con Jake Gyllenhaal), un laboratorio che non si crea il minimo scrupolo a condurre sperimentazioni illegali su cavie umane. La convivenza tra Brock e Venom non è tutta rose e fiori ma se il primo ha offerto al secondo un corpo sicuro dentro cui prosperare, il secondo sembra riuscire a sfruttare alla perfezione l’assenza di barriere etiche e gli istinti bassi e convulsi del reporter.

Nonostante un arco di trasformazione del simbionte dannatamente accentuato ed inspiegabili buchi di sceneggiatura su cui è opportuno non soffermarsi troppo, in Venom c’è un aspetto interessante che è impossibile non notare. Sin dai primi minuti, infatti, la sensazione è di schiantarsi contro un prodotto giunto fino a noi da uno spazio-tempo differente, uno strano ufo fiero della propria alterità, un essere irriducibile a qualsiasi catalogazione di genere in grado di detonare le porte dell’immaginario e del cinema classico. Come dovrebbe fare ogni horror o fantasy che si rispetti, Venom scardina le regole dei film di supereroi, percorre strade differenti, spesso incappa in ostacoli che sarebbero stati facilmente aggirabili ma, proprio per questo, ha il merito di distinguersi dalla massa di cinecomic che affastellano il mercato. Il suo cuore pulsante è nero come la polimorfa materia di cui è fatto l’alieno che risveglia la passività schizofrenica di Eddie Brock, gettato in un mondo di muscoli e ironia che la frustrazione gli aveva da tempo fatto mettere da parte.

Il film di Fleischer ha trovato in Tom Hardy un perfetto interprete, un cavaliere oscuro che regge sulle proprie spalle i ritmi da commedia demenziale dalle venature horror, incurante del disastro che una tale commistione di generi così diversi potrebbe provocare. Il rischio da scongiurare è quello di sottovalutare un film che, nell’utilizzo di un attore del genere, che è l’emblema di qualsiasi viaggio sconsiderato e fuori traiettoria, e negli squilibri di cui soffre la sua struttura, ha dimostrato di saper costruire un insieme coerente con la natura del personaggio Venom e dei generi horror e commedia, basati da sempre sulla genuinità di divertimento e reazioni emotive.

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Ruben Fleischer Tom Hardy Michelle Williams Riz Ahmed Scott Haze Jenny Slate Woody Harrelson 112 minuti
USA 2018
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Halloween 4 - Il ritorno di Michael Myers

di Mattia Caruso
Halloween 4 – Il ritorno di Michael Myers - recensione film

Nessuno può uccidere l'Ombra della Strega. Così dicevano i bambini di Haddonfield nel lontano 1978, prima che la sua più tremenda incarnazione, dopo aver fatto strage di adolescenti nelle vie di quella tranquilla cittadina dell'Illinois, venisse finalmente sconfitta. Ma, si sa, una volta che il mito attecchisce, difficilmente basta qualche proiettile o esplosione per toglierlo definitivamente di mezzo.
Era allora solo questione di tempo prima che Michael Myers – dopo la sua apparente morte in Halloween II e la parentesi apocrifa di Halloween III – tornasse, vivo e vegeto, sul luogo del delitto, riesumando, a distanza di dieci anni, un passato di sangue e paura mai del tutto sepolto. Siamo ad Halloween 4 – Il ritorno di Michael Myers.

Pare un'attesa alimentata ad arte quella del quarto capitolo della saga slasher creata da John Carpenter e Debra Hill, un'attesa di cui il Male ha approfittato per arricchirsi, mano a mano, delle suggestioni dei film precedenti, segnando un nuovo passo nell'evoluzione di una saga  potenzialmente infinita. È così che, dopo la forza teorica di un capostipite inarrivabile, i risvolti di un sequel capace di gettare le basi di una nuova mitologia e le derive orrorifiche di un terzo episodio desideroso di creare un vero e proprio universo a sé stante, il film diretto dall'anonimo Dwight H. Little guarda alle origini del filone ma, allo stesso tempo, a una tendenza seriale divenuta in quegli anni la prassi per prodotti di questo tipo.

Sembrano, d'altronde, proprio questa mitologia e questo senso del soprannaturale, ereditati dagli episodi precedenti, a permeare un prodotto come Halloween 4, che, se da una parte riprende –  dall'inquietudine scaturita dai suoi sobborghi, fino al senso d'assedio permanente di un Male incombente e assoluto – la formula del capostipite, dall'altra porta avanti quella stravolta e degenerata epopea famigliare fatta di legami di sangue e predestinazione già presente dal secondo capitolo della saga, ma qui arricchita di risvolti oscuri e (im)prevedibili. Ecco allora, dopo le rivelazioni e gli stravolgimenti di Halloween 2, entrare in scena la piccola e tormentata Jamie (Danielle Harris), figlia di Laurie (morta in un incidente stradale), nipote dello stesso Michael e, quindi, nuovo obiettivo della follia omicida di quest'ultimo.

Bastano in fondo queste premesse a tracciare uno schema narrativo che non si discosta dal dittico originario, con l'assassino intento a raggiungere il proprio scopo uccidendo brutalmente chiunque gli si pari davanti e le vittime loro malgrado protagoniste di una caccia continua, dove il mostro acquista sempre più i connotati incorporei della malattia (ereditaria) e la salvezza diviene una possibilità sempre più vaga e indefinita.
E se, salvo le ambientazioni e i suoi personaggi ricorrenti (il Dottor Loomis di Donald Pleasence, quasi indistruttibile quanto la sua nemesi), poco o nulla resta dell'apporto stilistico e teorico del primo film, di quella sua dialettica tra campo e fuori campo e di quelle sue soggettive perturbanti, qui ridotte a vuote strizzate d'occhio ad uso e consumo dei fan (la soggettiva finale ricalcata, con tanto di maschera, su quella dell'incipit del film di Carpenter), poco importa. Il film di Little, pur restando uno slasher stranamente sottotono per gli standard del genere (al punto che alcune scene aggiuntive di violenza verranno girate ad hoc al termine delle riprese), trova la formula vincente per perpetuare il suo incubo seriale, rilanciando, ancora una volta, una saga capace di fare tesoro delle sue premesse (narrative) e nutrendo una mitologia in grado di rinnovarsi costantemente negli anni a venire.
L'Ombra della Strega, dopo questo capitolo, è più viva che mai.

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Dwight H. Little Donald Pleasence Danielle Harris Ellie Cornelle 88 minuti
USA 1988
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Gemini

di Alessia Astorri
Gemini - recensione film tsukamoto

La ricerca dell’identità comincia dal fondo: per questo Gemini di Tsukamoto si apre con una sinfonia di epica e di topi. Comincia dal basso-fondo che ammutolisce l’altisonante, decompone il componimento, distorce la coralità in sonorità allucinate, disseziona il sublime in immagine subliminale che spezza i titoli, perché cova alle loro spalle, alle spalle del retaggio nobiliare, della paranoia perbenista, alle spalle del film: perché quando il titolo compare nella simmetria dei kanji “Sōseiji”, sappiamo già che cela una spaccatura, che Gemini è già dualità; e doppiezza.

Di una fitta lista di film sul tema, è bene citarne zero, per sfuggire sia alla seduzione del collezionismo di gemelli che alla psicologia dei disturbi dissociativi dell’identità, non perché non siano due cose opportune e affascinanti, ma perché implicano una percentuale di dimenticanza, e a quel punto il gioco si fa troppo parziale, tanto più se la nostra protagonista femminile soffre di amnesia; più ancora se in realtà sta simulando. Ci aveva già avvisati il lynchiano uomo con la telecamera: il cinema non concede amnesia e in qualche modo farà emergere la sua immagine-azione più vera del reale. Bisogna solo toccare il fondo.

Tsukamoto muove da un racconto di Edogawa Rampo:
«una storia molto breve in cui non accade abbastanza per farne un intero film, così ho scritto una trama basata su di essa. (...) Il gemello più giovane uccide quello nato dopo, assume la sua identità e sposa sua moglie. È un buon materiale, ma non basta. Allora gli ho fatto gettare il gemello in un pozzo, così che le cose potessero cominciare ad accadere..[1]
In quel plongèe da incubo due fratelli gemelli si rispecchiano e si respingono, si rinnegano con reciproco disprezzo che da distanza sociale diventa siderale (anche se, diversamente dalla traduzione Gemini, nell’originale non c’è riferimento alla costellazione), la differenza di classe diventa inscritta nel fato, nella forma serpentina di una voglia destinata a replicarsi, non solo per un percorso che confonde redenzione e dannazione, ma perché è un teatro nel cinema quello che Tsukamoto inscena, un movimento di corpi, una brutalità di animi, degli Amleto da kabuki finalmente zitti, orfani di monologhi, a pantomimare il determinismo delle loro esistenze con il benestare del taciturno estremo oriente. Nel cui cuore, però, emergono versi laceranti, affiorano danze di fuoco, si prolungano attese di un amore diviso e negato, tutta l’esistenza è rossa o blu: incendiaria o cianotica, ribelle o irreggimentata. Perché il teatro più ampio è quello della guerra. Yukio è tornato dal fronte, in un primo Novecento ibrido e astratto fra abiti tradizionali, incursioni di stile occidentale e montagne di stracci; medico decorato, ha conosciuto qualcosa che somiglia all’orrore, ma non a piene mani, non ancora, in quella grande amnesia della civiltà che è la guerra. Destinata a finire, dunque a tornare, e a tornare alla memoria come spettro infinito. Così appare il gemello Sutekichi, come demone e fantasma in un interno immemore, con una sposa immemore; iniettato di sangue, per uccidere, per vendicare violenza con violenza come l’Izo di Takashi Miike (Miike che di Gemini girò il breve making of Tsukamoto Shin’ya ga Ranpo suru).

Siamo in era Meiji, il Giappone si apre progressivamente all’Occidente, si imperializza, si capitalizza mentre scavalca il secolo; ma nel presente del film, è il 1999 che sta per oltrepassarne un secolo e un millennio: il bug è il medesimo, quello della metamorfosi che innesca la macchina (come già in Tetsuo), che da uno stralcio di revenge movie diventa storia di de-formazione dell’identità attraverso il suo opposto, perché tutto è diviso e si riconosce negandosi. L’horror tsukamotiano è dissonanza e dissidenza, è riprendere un interno in un totale classico “altezza tatami”, ma poi scavalcare disinvoltamente il campo per dispetto a Ozu, è irruzione sonora, sensazione corporea, quadro obliquo, visioni forti in procinto di frantumarsi, immagini di cristallo, per dirlo con Kawabata. A questo proposito, è una strizzata d’occhio significativa che fra i pugni di un Tokyo Fist appaia l’Orson Welles di Il terzo uomo mentre ci ricorda che «in Italia sotto i Borgia, per trent'anni hanno avuto guerre, terrore, assassinii, massacri: e hanno prodotto Michelangelo, Leonardo da Vinci e il Rinascimento. In Svizzera, hanno avuto amore fraterno, cinquecento anni di pace e democrazia, e cos'hanno prodotto? Gli orologi a cucù».

Ebbene, è chiaro che Tsukamoto non faccia orologi a cucù. Ma che in tutto questo trovi posto una donna innamorata che accenna passi di ballo quando il suo amore diviso e gemellare riappare all’orizzonte, fa sorridere anche nel dramma del non sapere più chi si ama fra due opposti identici. L’accensione di uno spazio poetico e ironico in un materiale fra l’algido e il rovente, fra il classico e il contemporaneo, il paradigmatico e il sospeso, è l’ennesimo respiro di libertà registica che anima uno spazio allucinato in un improvviso, semplice realismo.

Gemini è un gioco alla riscrittura delle regole di (più di) un genere, è un’agnizione rovesciata, distinta da un nome e da un segno di riconoscimento. Occultarlo è solo il modo migliore per farlo riemergere, nella sua forma peggiore. Del resto, l’Edogawa Rampo che lo ispira è a una volta un nascondiglio ironico dell’orrore: provando a pronunciare il suo nome di seguito, viene fuori qualcosa che suona come “Edgar Allan Poe”. Voluto, naturalmente.

[1] Cfr. Francesca Bressan, Umano e Subumano, Il conflitto tra l'io socialmente represso e il suo alterego in Sōseiji di Tsukamoto Shin'ya, 2017, www.unive.it, traduzione della scrivente.

 

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Shin'ya Tsukamoto Masahiro Motoki Yasutaka Tsutsui Shiho Fujimura Ryo 83 minuti
Giappone 1999
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L'albero dei frutti selvatici

di Emanuele Di Nicola
L'albero dei frutti selvatici - recensione film ceylan

Non c’è mai un giudizio nel cinema di Nuri Bilge Ceylan. Nella sua costruzione, prima ancora dell’immagine, è sottintesa l’estromissione radicale di qualunque pensiero giudicante nei confronti dei personaggi. La loro natura viene esposta, non qualificata. È qui il passo preventivo per cercare la sostanza de L’albero dei frutti selvatici (Ahlat agaci, ovvero Il pero selvatico), ultimo film del turco già magnificato a livello internazionale con molti premi culminati nel 2014 con la Palma d’Oro a Il regno d’inverno (Winter Sleep). Ed è un cinema di profonda derivazione letteraria, per sua scelta intrinseca e dichiarata, che mostra con orgoglio l’ascendenza dalla narrativa classica: Dostoevskij e Tolstoj, anche citato dal protagonista, Anton Čechov, al cui racconto (Mia moglie) era ispirato il film precedente, ma anche Tennessee Williams e le storie brevi di Sait Faik, scrittore nazionale turco che qui “infesta” i tratti di almeno due figure. Attenzione: i nomi in campo, spesso citati da Ceylan, non sono però mera enunciazione di riferimenti, ma colossi saldi e presenti proprio nell’esercizio della pratica narrativa. Per fare solo un esempio, si pensi a L’idiota di Dostoevskij, il nume che più degli altri sembra onnipresente nel dispiegarsi di questo film: una sezione del capolavoro russo, in cui il principe Myškin discute in un lungo dialogo il rapporto tra cattolicesimo e ateismo, si ritrova nel confronto del protagonista con due giovani imam, un’ampia sezione in cui si disserta sull’esistenza di Allah, sull’esigenza di rispettare o modernizzare le scritture. Non può essere un caso.

Sinan (Dogu Dermikol) è un giovane che torna nel suo paese natale, piccolo centro sullo Stretto dei Dardanelli dove sorgeva la mitica Troia (letteratura, ancora). Qui reincontra suo padre Idris (Murat Cemcir), maestro del villaggio, un tempo apprezzato e stimato ma oggi sommerso di debiti a causa del gioco compulsivo. Sulla situazione attuale impossibile sbagliarsi: dal primo episodio narrativo, appena Sinan mette piede nel paese viene apostrofato da un gioielliere che ricorda i debiti paterni. Per il ragazzo quindi non è facile realizzare il suo obiettivo, trovare la somma necessaria per pubblicare il libro che ha scritto, Il pero selvatico: ogni singola lira gli viene richiesta dal padre, per scommettere sui cavalli o sedare i creditori. D’altronde la madre Asuman (Bennu Yildirmlar) è ormai disperata: non sa come sottrarre l’uomo all’abisso in cui si è calato, e allo stesso tempo fatica a mettere insieme la sussistenza della famiglia. A proposito di abissi, Idris sta scavando un pozzo nella tenuta dei nonni: prima o poi troverà l’acqua, sostiene, perché l’acqua c’è a dispetto di tutti che la indicano come terra arida. Il ritorno di Sinan a casa – nel frattempo – si porta dietro un incontro femminile (con Hatice, una magnifica Hazar Ergüçlü), amici di infanzia, figure del passato confluite nel presente. Il suo scopo resta fermo: non vuole fare il maestro in una sperduta regione dell’Est, come suo padre, né il pastore, lui sarà uno scrittore. In realtà, però, non conta eccessivamente soffermarsi sulla successione degli eventi, se non per un particolare: sondare la profondità dei dilemmi, vedere la complessità dei conflitti sul tavolo.

Ama il contrasto irrisolto, Ceylan, perfino quello irrisolvibile. Anche applicandosi a fondo infatti è davvero difficile decidere sui problemi continui che vengono posti, e gradualmente iniziano ad affastellarsi tra loro. Qual è la vera natura del maestro Idris? Un padre e marito irresponsabile, accecato dal gioco e dal proprio interesse, dedito a inutili velleità come scavare un pozzo impossibile? O un uomo che lotta coraggiosamente contro il vizio, per amore di moglie e figli, e l’unico in grado di guardare oltre alla realtà di provincia per comprendere l’arte e la natura? E il figlio Sinan, è davvero un giovane talento della scrittura o un ragazzo incartato nella sopravvalutazione di sé? Domande che vengono sviluppate da Ceylan attraverso la sua tecnica: composizione di macroscene, a cui si aggiungono piani sequenza girati con videocamera mobile (come la discesa degli imam), lunghissimi dialoghi finalizzati all’esposizione di pensieri contrastanti, che si annodano tra loro fino a diventare inestricabili. Problemi su problemi. Dubbi su dubbi.

Un romanzo non si può sintetizzare in una frase, dice Sinan parlando con lo scrittore famoso: ed è esattamente così per la messinscena della natura umana di Ceylan. Questa è sempre più sfaccettata della nostra comprensione: non riassumibile perché inconoscibile, ogni situazione innesca una vertigine, ogni dialogo spinge un problema in un tunnel degli specchi. I nodi si fanno sempre più numerosi e intricati: l’incontro quasi “deoliveriano” con la ragazza all’inizio, che cerca di sfuggire alla tradizione ma poi non compare più, perché si è sposata; la rissa tra amici, l’uno che confessa di invidiare e l’altro che vuole essere invidiato; lo scrittore provocato da Sinan, bollato come intellettuale da cenacolo salvo poi ritrovarlo in vetrina, a dispetto del proprio libro che non ha venduto; gli imam che allestiscono un’alta discussione sulla religione, ma prima rubavano mele; il dialogo struggente tra figlio e madre, che si commuove per il libro ma difende anche il marito sbandato, rivendicando il suo matrimonio («Farei tutto come prima»). E tanto altro.

Come d’uso Ceylan iscrive il racconto nella natura, girando sulla sponda asiatica nella provincia di Canakkale. Al pari dello sfondo stepposo e notturno di C’era una volta in Anatolia, della città di pietra ne Il regno d’inverno, anche qui il paesaggio bucolico, a tratti marino e quasi arcadico, diventa teatro che ospita temi astratti, movimenti dell’animo, rovelli morali. Fino alla fine, dopo l’abbandono e il secondo ritorno di Sinan, quando il confronto più complesso sembra emergere dalla neve («Volevo che la storia si chiudesse in inverno»). Se la strategia dell’autore si conferma e rinnova, però, con L’albero dei frutti selvatici il suo cinema muove un passo in direzione nuova: i 188 minuti disegnano il film più “commerciale” di Ceylan, che in sede di racconto rende il ritmo leggibile, preferisce alla pura costruzione stilistica la forza dell’affabulazione, insomma parla a tutti, resta indecidibile ma è palpitante, inchioda come un thriller morale. Così la sua rappresentazione si sgroviglia, si districa e questo lo rende ancora più rilevante, aumentando la possibilità di toccare un pubblico ampio. Una strada inedita che il cineasta qui intraprende, vedremo dove lo porterà domani. Nell’effetto riscosso, invece, non si muove di un millimetro dai film precedenti. Davanti a Ceylan si resta sempre disarmati: «Ogni cosa che nasconde un padre riappare un giorno nel figlio», dice l’autore, ed ecco lo scivolamento di Sinan verso lo stesso destino di Idris.

Per arrivare a questo, siamo passati per una selva di contraddizioni che ci riguardano: il rapporto tra padre e figlio, sovradeterminato dall’amore ma impossibile da vivere senza ferirsi; la lotta impari contro la propria natura debole e viziosa; la distanza tra ambizione e reale possibilità; la difficoltà a comprendere e accettare un pensiero diverso; la tendenza reciproca a giudicare l’altro; il vero motivo dei nostri gesti, a tratti spontanei e a tratti dettati da rimorsi e sensi di colpa; il dolore di realizzare la sconfitta. Tutto si racchiude in questo film percorso da fremiti di morte, che hanno la forma di sogni: un neonato coperto di formiche, l’incubo di un suicidio. La fine è vicina e sempre possibile. Sinan percorre il film con due ferite sul volto: una è il morso sul labbro dell’amata, l’altra il pugno del rivale. In questa concretizzazione epidermica delle ferite interiori, nel corso del tempo le tumefazioni scompaiono sulla pelle e restano nell’anima. Il simbolo secondo Ceylan: il maggiore regista, oggi, della natura umana.

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Nuri Bilge Ceylan Dogu Demirkol Murat Cemcir Bennu Yildirimlar 188 minuti
Turchia, Francia 2018
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Country for old man

di Paolo Di Marcelli
Country for Old Man Documentario Lab 80

Cambiare Paese per godersi la pensione dove tutto costa meno è un fenomeno sempre più diffuso, ma le ragioni sono soltanto economiche?
Se lo chiedono Stefano Cravero e Pietro Jona portandosi la mdp a Cotacachi, in Ecuador, che da anni sta accogliendo un numero sempre crescente di americani. Qui i “gringos”, come vengono chiamati dalla popolazione locale, trovano prezzi convenienti, nuove dimore grandi ed economiche, la tv via cavo per ricordarsi della madrepatria, e, per non correre il rischio di mischiarsi con gli ecuadoriani, concedersi solo a nuove amicizie a stelle e strisce, oltre ad affrontare qualche problema con la sicurezza, insomma, a nuove e vecchie abitudini.


Se le premesse sono quelle di comunicare l’idea di un Eden tardivo, una meta da cartolina in cui ripartire senza avere l’ossessione del portafoglio, da intendersi nel mito della frontiera in cui ricominciare a respirare - complice anche la natura verdeggiante che circonda il complesso urbano - ecco che la prima parte di Country for old man presenta tutte le luci del caso. I protagonisti, tutte coppie felici ad eccezione di uno scapolo, ex produttore di Hollywood, sono entusiasti non solo per aver fatto la scelta giusta, ma anche e soprattutto per essere guidati e supportati in ogni fase del loro trasferimento, transitando per una burocrazia user friendly, e tra personaggi del posto che arrotondano i loro stipendi facilitandogli la vita tra medici, visti e spostamenti.


Dopo la prima mezz’ora, i due cineasti rivelano la capacità di rispondere alla domanda iniziale con altri interrogativi che stimolano riflessioni particolari e generali. Sulla carta, è seducente lasciare il caos dispendioso degli Stati Uniti per la serenità a misura d’uomo di Cotacachi: ma poi, qui, che si fa? Cravero e Jona non intervengono e non giudicano, osservano silenziosi pur irrompendo nell’intimità dei personaggi, e alla fine riescono a parlare, oltre che di molti aspetti della senilità (dalla simbiosi che resiste agli anni ai problemi di salute, qui tutelati senza la necessità di indebitarsi) soprattutto degli americani e dell’America nell'era di Trump.

C’è chi, in Ecuador, passa le giornate esattamente come avrebbe fatto prima di partire, ovvero sul divano a guardare il football con coca e popcorn, altri invece girano il Paese ammettendo di non essersi riconosciuti nelle politiche del loro ex-presidente. “Ma come”, osserva qualcuno, “molti dei nostri ex compatrioti si sentiva minacciata dall’immigrazione ispanica e adesso vengono tutti qui a passare la vecchiaia?”. E poi, ancora, il senso attribuito al concetto di casa e a quello di arma. Tutti gli intervistati sembrano non ripartire dalle possibilità offerte dalla nazione ospitante in cui integrarsi, ma dal comfort esagerato delle mura domestiche in cui rintanarsi, protette da alte mura di cinta per difendersi, non si sa bene da cosa, dato che in Ecuador le armi sono vietate e al massimo si registra qualche sporadico furto. In effetti, per tutta la durata del documentario, il controcampo della delinquenza a Cotacachi è solo evocato e mai indagato davvero. Alla fine, ciò che resta è la proverbiale ossessione per la sicurezza e la proprietà privata senza pericoli particolarmente fondati. C’è chi rivendica orgogliosamente il fatto di non possedere un’arma riconoscendo i pregi di una cultura differente.


Nel dipingere questo inconsueto microcosmo di espatriati, Country for Old Man potrebbe sintetizzare le contraddizioni e le suggestioni che mette in scena in una sequenza, posta più o meno a metà dell’opera, dove vediamo i “gringos” che banchettano allegramente in un uggioso pomeriggio bevendo cocktail e birra, godendosi il barbecue e giocando a pignatta mentre il gruppo di musicanti locali, che un attimo prima li aveva allietati suonando canzoni popolari, se ne sta in disparte sul muretto della proprietà, lontani dalla festa, in silenzio, panino in una mano e strumento nell’altra, domandandosi, forse, cosa avranno tanto da ridere i nuovi invasori.

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Stefano Cravero Pietro Jona 79 minuti
Italia, 2017
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