Halloween II – Il Signore della Morte

di Jacopo Bonanni
Halloween 2 Film Recensione

Quando Halloween debuttò nelle sale – il 25 ottobre del 1978 – fu una rivelazione. Nessuno sospettava che un piccolo horror indipendente, costato appena 320.000 dollari, potesse riscuotere un successo così grande da sbancare ai box office; incassando 47 milioni di dollari soltanto negli Stati Uniti. Tanto meno era possibile ipotizzare che Michael Myers, il boogeyman - vacuo e inafferrabile - creato da John Carpenter, potesse dare vita ad un franchise vero e proprio; generando una fortunata progenie di pittoreschi epigoni, protagonisti - a loro volta - di un macabro folklore metropolitano. D’altronde – all’epoca dell’uscita del film – i sequel non erano ancora una prassi consolidata ad Hollywood ed il concetto di serialità – sinonimo di scarsa qualità - nel cinema horror era legato per lo più al retaggio delle gloriose produzioni Hammer e Universal dedicate ai “mostri classici”; salvo alcuni tentativi del calibro di: L’esorcista II – L’ereticodel 1977, “Omen II – La maledizione di Damiene “Lo squalo IIdel 1978.

Tuttavia - all’alba degli anni ottanta - qualcosa stava cambiando e i primi ad accorgersene e ad intuire le enormi potenzialità commerciali di un genere fertile come lo slashersempre più popolare tra gli adolescenti – furono proprio i produttori del primo capitolo: Moustapha Akkad e Irwin Yablans, che decisero di resuscitare il Signore della Morte di Haddonfield - sulle note di Mr.Sandman delle Chordettes - prima che altri titoli minori potessero rubargli la scena (su tutti Venerdi 13 parte I e II). Il progetto iniziale era quello di sviluppare un seguito completamente slegato dall’originale, girato in 3D, ambientato in un appartamento altolocato (vedi Poltergeist III del 1988), diversi anni dopo gli avvenimenti del primo episodio, ma l’idea sembrava un azzardo e venne subito scartata in fase di scrittura.

Per questa ragione, si pensò di approcciarsi al nuovo materiale come se si trattasse di una sorta di “secondo tempo” del precedente che, partendo dagli eventi già raccontati, approfondisse le ragioni dell’ossessione di Michael Myers per la giovane baby-sitter Laurie Strode. Così, nel 1981 esce Halloween II - Il Signore della morte: il film incomincia esattamente dove si era interrotto il suo predecessore, aspirando a diventare l’erede del film cult concepito tre anni prima; un’impresa ardua ma non impossibile, dato che il sequel in questione sarà l’ultimo scritto e prodotto dall’inossidabile coppia John Carpenter-Debra Hill.
Fin dai primi minuti il ritmo è incalzante: l’esordiente regista Rick Rosenthal dimostra di saper sfruttare la tensione latente ereditata dal suo precursore - esasperando i meccanismi della suspence - per mettere in scena un’adrenalinica battuta di caccia notturna - tra il redivivo Michael Myers e il Dott. Loomis - che sposta l’azione dalle strade congestionate dal panico della cittadina alle corsie anguste e desertiche dell’ospedale di Haddonfield, dove si svolgerà il vero assedio. La prima parte della pellicola è volutamente la più simile stilisticamente al lavoro precedente, come si evince dall’attenzione metodica ai lenti movimenti di camera, la presenza/assenza fantasmatica del protagonista ripresa in soggettiva; passando per i palesi rimandi cinefili a Dario Argento (l’infermiera affogata nella vasca), fino all’utilizzo della fotografia cupa e sgranata di Dean Cundey (The Fog, 1997: Fuga da New York, La Cosa). Soltanto in un secondo momento - abbandonata la maschera del thriller psicologico - esce fuori l’animo più sanguigno del film: uno slasherduro e puro – caratterizzato da un elevato numero di morti on/offscreen e da un uso spiccato della violenza a livello grafico, che con gusto sadico e rara maestria non lascia nulla all’immaginazione dello spettatore, portando alle estreme conseguenze il discorso iniziato da Carpenter negli anni settanta.

Infatti, è proprio a partire da questo sequel che inizia la lenta metamorfosi del personaggio di Michael Myers che da inquietante stalker di baby sitter si è trasformato nello spirito vendicativo della vigilia di Samhain, in attesa di assurgere al ruolo di cavaliere pallido di un’apocalisse imminente. In realtà tutti i protagonisti brillano di una luce oscura durante la visione, in primis la splendida Jamie Lee Curtis – ormai scream queen affermata (The Fog, Prom Night, Terror Train) - nei panni dell’allucinata Laurie Strode che deambula tra i corridoi della clinica dove è stata ricoverata; in preda ad una trance onirica da cui riemergono quei ricordi infantili che sveleranno – per la prima volta - il rapporto di sangue che la incatena al suo persecutore. Fino ad arrivare al vero mattatore della vicenda: Donald Pleasance che in quest’occasione ci regala una delle interpretazioni più suggestive e teatrali del Dott. Loomis, in un finale epico che lo vedrà mettere fine – idealmente - alla crociata di sangue di Michael Myers, almeno fino al 1988. Meno visionario a livello cinematografico ma più pragmatico sul piano commerciale Halloween II si rivela – a distanza di anni e nonostante le critiche - il miglior sequel possibile della saga: uno slasher moderno ricco di elementi essenziali per lo sviluppo futuro dell’intero franchise e l’unico in grado di competere con l’originale.

Tutti devono qualcosa al film di Rosenthal, compreso Rob Zombie, che nel suo seguito apocrifo del 2009 omaggia le atmosfere malsane di quel secondo capitolo seminale, dedicandogli una lunga carrellata sulle note dei Moody Blues che echeggiano all’interno di un altro inquietante ospedale.

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Rick Rosenthal Jamie Lee Curtis Donald Pleasence Dick Warlock Lance Guest 86 minuti
USA, 1981
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Tetsuo

di Samuele Sestieri
Tetsuo

Cosa si può scrivere ancora di Tetsuo dopo la pletora di materiale che gli è stato dedicato? Libri, saggi, omaggi, seguiti e rifacimenti, tesi di laurea, esegesi e interviste infinite. L’esordio alla regia di Shin'ya Tsukamoto (anche se prima c’era già stato L’avventura del ragazzo del palo elettrico che ne era una grottesca, irriverente anticipazione estetico-tematica) è il cult-movie per eccellenza in un’epoca cinematografica dove fermentava la nuova carne cronenberghiana e cominciavano le terribili assimilazioni dei borg. I fedeli del cyberpunk, quelli cresciuti ad Akira e metallo, avevano superficialmente identificato Tetsuo in un manifesto identitario, quello dell’Iron Man. Eppure il furore di Shin'ya Tsukamoto non si fermava all’ibridazione uomo-macchina, non era interessato tanto alla nuova creatura a-venire quanto alla malinconia della trasformazione stessa e alla mutazione come atto politico (e questo vale per la sua intera filmografia). Nessun capitolo della trilogia va nella direzione di un nuovo, definitivo corpo, semmai Tsukamoto inscena la scomparsa di quel corpo. Lo (con)fonde, lo possiede e lo distrugge, alla ricerca di un germe sottocutaneo, di uno pneuma spirituale che possa guidare il nuovo mondo.

Sullo sfondo, quasi sempre fuoricampo (per riprendersi la scena nell’apocalittico, straordinario Tetsuo II) c’è Tokyo, interamente ricostruita dalle macerie della guerra (ma è sempre stata la città mutante per eccellenza, ben prima del Novecento). Tokyo è la vera nemesi del protagonista. L’architettura impersonale della metropoli estende le sue possibilità viventi, come un organismo postatomico che getta le proprie scorie sull’individuo. La città è troppo grande per esseri umani troppo piccoli: alla stregua di un mostro cibernetico, è già pronta a fagocitare i suoi abitanti. L’architettura non può fermare il suo moto bulimico e finisce per eccedere i propri spazi, per creare nuove realtà. Germoglia quindi dentro i nostri corpi, insediando la carne, coniando topografie ulteriori e facendo di noi bizzarre creature radioattive, entità urbane di cuore e metallo.

Prima di qualsiasi rete, prima degli hikikomori e delle patologie virtuali, Tsukamoto rinchiude il suo protagonista in casa, negandogli gli esterni, bloccandolo fra le mura domestiche. Il suo è un corpo stanco, spossato dal lavoro quotidiano, sconfitto dalla città, neutro come la massa (ma il corpo debole, affaticato, popola tutti i film di Tsukamoto ed è lo stato larvale di qualsivoglia mutazione).

“(...) l’immagine della città che si restringe e al suo interno gli esseri umani, ormai inscatolati in stanze esigue, che operano solo attraverso i computer. Il cervello va ingigantendosi man mano che il corpo si riduce” diceva Tsukamoto ormai quasi trent’anni fa, lanciando parole che ci sembrano, col senno di poi, manifestazioni di preveggenza. Proprio in questo Tetsuo supera se stesso, trasformandosi in un insospettabile gesto politico: seppure con orrore, l’uomo non respinge il ferro, accogliendolo volontariamente nella sua carne. Accetta il corpo estraneo per poter assestare, a sua volta, un attacco contro la città. “Il messaggio è quindi di speranza: che la città venga distrutta non da guerre o da ordigni meccanici, ma dal corpo degli esseri umani."

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Di conseguenza l’urbano si comprime nel domestico: l’abitazione si trasforma in una sorta di grembo materno dove si va a formare un nuovo, insospettabile embrione (in una maniera in fondo non così dissimile dalla stanza uterina dell'Oscurità/Luce/Oscurità di Jan Svankmajer). Al suo interno, due creature – marito e moglie – destinate ad unirsi, combattersi, sfinirsi, amarsi in un coito infinito. Gli orgasmi sono scosse elettriche guidate da una dimensione fallocentrica, dove il trapano può penetrare, letteralmente, l’antica carne. Ma non c’è fantascienza in questa mutazione, Tsukamoto affronta la realtà con un piglio così realista da risultare stordente: il passo uno scaccia ogni equivoco, il cinema denuncia se stesso e i propri trucchi. Quello che si sta raccontando è l’essere umano in tutte le sue trasformazioni (magnifica intuizione, a questo punto, quella reiterata nel leggendario libretto del cofanetto RaroVideo: Tetsuo come cinema neorealista).

Tsukamoto, infatti, non può che immaginare il reale in b/n (come Garrel!), sfilacciato in un film breve e low budget, scandito dal furore irrefrenabile della stop/motion. Per tre quarti di durata, il film si rinchiude in interni, inscenando una crisi di coppia sui generis, un pinku eiga finalmente libero di scatenare tutte le sue iperboli: quasi un film di un Wakamatsu avvolto dal metallo, che riscopre nel sesso il potere della trasmutazione. L’idea dell’unione sessuale diviene un dissolversi nel corpo dell’altro, uno sparire astratto tra liquidi di ferro, a metà strada fra crash ballardiani e piccole morti batailliane. Si potrebbe anche dire che Tetsuo sia un film sul sesso come atto di sparizione. Nel coito perdiamo la nostra identità, ci lasciamo andare completamente, definitivamente all’altro. Coniamo l’altro. Entrare nell’altro, d’altronde, significa scoprirsi altrove, uscire fuori di sé (come in un’esperienza estatica). E l’epidermide mutante dell’Iron Man ricopre, fin dalla clamorosa sequenza dei titoli di testa, un corpo epilettico, posseduto, ospite di un’eterna mutazione (la mia fissazione rimane quella di vedere in formato split-screen squisitamente depalmiano da una parte il corpo mutante di Tetsuo dall’altra quello di Isabelle Adjani nella danza epilettica di Possession).

Il corpo sparisce, lo sguardo permane: la vista è essenziale per potersi vedere con i propri occhi e non riconoscersi, gioendo infinitamente del divenire perpetuo delle cose. Sotto l’acciaio, il cuore umano: Tsukamoto si conferma uno dei registi più autenticamente, più profondamente spirituali degli ultimi trent’anni. La materia è destinata a mutare perennemente, solo l’invisibile rimane intatto. La coppia, ormai unita nell’amalgama di ferro a due teste, è pronta all’estasi della guerra: “Trasformiamo il mondo in una massa d’acciaio. Facciamolo arrugginire tutto così che si sbricioli nel cosmo. Facciamo ardere la terra con il nostro amore.”

Si è spesso scritto della furia iconoclasta, distruttrice e liberatoria del cinema di Tsukamoto, ma qui sussiste la profonda malinconia di un presente che non si può più fermare. Le rovine del mondo urlano a squarciagola la loro instancabile, virulenta magnificenza (quanto futurismo, quanta velocità in questo grande cineasta!). Alle proprie spalle, l’atomica. Il mondo è già finito, Tsukamoto lo sapeva benissimo. E dopo? Dopo Hiroshima e Nagasaki? Dopo la catastrofe? Dopo gli olocausti? Liberi di scioglierci nella bellezza del movimento in-divenire, riconfiguriamo perennemente nuove declinazioni dell’occhio.

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Per amore di postilla: la prima volta che mi sono imbattuto in Tetsuo avevo quindici anni, al massimo sedici. Non conoscevo quasi nulla di cinema giapponese. C’era questa videocassetta che mio fratello vedeva in continuazione con i suoi amici. La lettura del nastro, un po’ rovinato, emetteva quel solito rumorino sgradevole - eravamo convinti che servisse a qualcosa soffiare sul nastro, come si faceva sulle cassettine del supernintendo. Ora immaginate la potenza devastante di questo film che non somiglia a nient’altro. Troppo veloce per bloccarlo, troppo disturbante per svanire, troppo virulento per non far parte di te. Il bianco e nero, i continui cut che inventano un nuovo ritmo della visione, un nuovo passo dello sguardo. La pista sonora martellante di Chu Ishikawa dove la musica sembra forgiare l’immagine, come se ne fosse il suo fantasma. E il corpo – questo sconosciuto! – che, come una crisalide, si fende (a me sembrava di aver aperto il vaso di Pandora!). Mi passavano per la mente tutti gli ossimori del mondo – senza sapere nemmeno cosa fosse, un ossimoro -. Orribile bellezza, erotico terrore, molto prima del parto impossibile di Gozu, molto prima di qualsiasi tendenza weirdo e di qualsivoglia iconoclastia orientale. Poco dopo scoprii La cosa di John Carpenter e, alla vista di quella testa mostruosa, iniziavo a capire. E oggi più di un brivido mi coglie mentre osservo la sequenza atomica di Twin Peaks 3, mentre Tsukamoto ritorna e, dopo aver scalato una collina (Nobi), dopo aver dato grana a nuovi doppi (Kotoko), riparte dall’atto stesso di uccidere (perdita della verginità come nuova configurazione del mondo): Killing!

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Shin'ya Tsukamoto Kei Fujiwara Nobu Kanaoka Naomasa Musata Tomoro Taguchi Shin'ya Tsukamoto 67 minuti
Giappone, 1989
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Il sacrificio del cervo sacro

di Marco Compiani
Il sacrificio del cervo sacro - recensione film Lanthimos

It’s not an act (?)
In una celebre sequenza di Shining Jack Torrance osserva dall’alto il modellino del labirinto dell’Overlook Hotel. Qui la soggettiva del protagonista, improvvisamente, si trasforma in un insolito plongèe che ci catapulta all’esterno, dove Wendy e Danny passeggiano ancora inconsapevoli delle future minacce. Appare chiaro come in questo frangente Kubrick, con la sua consueta e ghignante ironia, volesse creare un cortocircuito, un gioco di scatole cinesi, dare forma a un occhio demiurgico (quindi registico) che si colloca sempre al di sopra dell’umanità rappresentata, controllata con lucido distacco. Lo stesso sguardo dall’alto domina Il sacrificio del cervo sacro, una verticalità riproposta da Yorgos Lanthimos sin dall’operazione a cuore aperto che fa da prologo al racconto.

Non è la prima volta che Lanthimos omaggia il regista newyorkese. Già in The Lobster l’utilizzo della voice over di Rachel Weisz richiamava con mirati accompagnamenti musicali certe scelte presenti in Arancia meccanica (il commento di Alex) e Barry Lindon (il narratore onnisciente). Ma non solo. Molte sequenze avevano un ché di déjà-vu piuttosto esibito. In quest’ultimo film la modalità si fa ancora più sfacciata, l’approccio è a dir poco duplicante: la colonna sonora che sembra provenire dai corridoi di Shining (Ligeti, guarda caso), la fotografia con gli studiati punti luce intradiegetici, l’uso calcolato della prospettiva, la steady che segue i personaggi con continui scavalcamenti di campo, e molto altro.

E c’è tantissimo Eyes Wide Shut, a partire dalla protagonista Anna, interpretata da Nicole Kidman. E Alice? Cosa rimane di quel femminino che nel capolavoro kubrickiano era un elemento capace di mettere in crisi la luccicante finzione borghese? Cosa rimane di quel corpo tanto animale quanto onirico, che accompagnava l’iniziazione del marito Bill? Per avvicinarci alla rilettura che Lanthimos fa del (suo) maestro, la figura della moglie in questo gelido ritratto famigliare è illuminante. Anna, di mestiere oftalmologa, è l’ennesima maschera della distopia emotiva del regista greco, un automa in cui il cuore potrebbe anche non battere, una meccanica fisiologica che anestetizza qualsiasi suggestione erotica (si pensi alla scena dei preliminari con il marito). Lanthimos porta all’estremo la poetica di Kubrick, aumentando ulteriormente il distaccamento nei confronti della materia osservata, anche nell’uso dei piani dell’inquadratura.

Guardando al complesso di questo rapporto c’è sicuramente della coerenza nella rivisitazione del modello, e qui ci è di aiuto proprio l’esordio del greco, Kinetta, dove l’orrore del reale (lo stupro) poteva farsi narrazione solo attraverso una sua messa in scena (i corti da contact improvvisation) volta a una chirurgica azione di stilizzazione e svuotamento. Con Il sacrificio del cervo sacro il passo è ulteriore e più vicino all’immaginario filmico di riferimento, chiamato a sua volta a partecipare al gioco di meta-rappresentazione. Kubrick è qui davanti a noi ma è una replica, una fredda e consapevole riproposizione, puramente tecnica, vuota come l’umanità rappresentata, una galleria di personaggi privi di un mondo interiore o di qualunque abbozzo di psicologia.
Ogni accenno emotivo è azzerato nella meccanica corporea («Don't cry, crying will only make your eyes hurt more» si diceva in The Lobster) e la stessa cosa capita all’omaggio, al dialogo intratestuale. Personaggi e modelli per Lanthimos sono entrambi pedine, (s)oggetti da osservare clinicamente attraverso la macchina da presa: fate caso a quante volte i protagonisti vengano inquadrati dietro a un vetro, con il riflesso dell’esterno che si sovrappone alla loro immagine. E qui, in un cinema che si avviluppa su se stesso, discontinuo e sigillato, torna lo spaesamento sull’impossibilità di vivere la dialettica tra interno ed esterno. Come per The Lobster, la prigione di queste esistenze, in cui si lotta vanamente per cercare la propria individualità, la propria natura di soggetto, è totale, è ontologicamente legata alla natura stessa delle immagini.

Il sacrificio del cervo sacro è l’ulteriore tassello di una filmografia che genera fantascienze contemporanee. Parlo di fantascienza per le regole autosufficienti e mai spiegate, che vanno oltre la verosimiglianza e delineano i mondi di volta in volta rappresentati. È attraverso di esse che Lanthimos affronta il tema della colpa, seguendo le inspiegabili tracce che danno forma al tramandarsi della stessa alle generazioni successive.
C’è ovviamente una causalità: Steven (Colin Farrell) ha ucciso un paziente e su di lui piomba una maledizione che solo accettando la propria responsabilità come individuo (si torna a uno dei temi fondamentali di Lanthimos) e sacrificando un membro della famiglia può debellare. Non vi sono però spiegazioni, quel presente, governato da un caos cristallizzato, non può essere realmente compreso, nemmeno se un’invasione narrativa alla Haneke (incarnata dal personaggio di Martin) legittima il concatenarsi degli eventi.

Martin irrompe in una posizione discorsiva critica, che frantuma le logiche statiche della famiglia. Ed è la parte più fisica, vitale (?), che riemerge e sembra far ritornare a battere un cuore che nel prologo si allacciava a un cestino della spazzatura al cui interno cadevano le ultime tracce di sangue. Martin divora, si nutre di questo freddo allestimento, fino a esplicare la propria natura di interpretazione: «E’ una metafora», sentenzia dopo aver morso Steven e, per analogia, essersi staccato un lembo di pelle. Il ragazzo, con crudeltà, pone di fronte al protagonista ciò che può renderlo un uomo: la scelta. E non c’è Dio che tenga, che possa venire dall’alto a salvare la povera Ifigenia, anche perché, nuovamente, in Lanthimos l’occasione è sprecata ed è la cecità dell’esistenza a creare una nuova prigione. È il movimento circolare prima di sparare, in un atto conclusivo che richiama l’orologio iniziale,  l’ennesimo atto di spersonalizzazione. Forse, a pensarci un po’, aveva ragione Martin: meglio un cinturino in pelle che in metallo.

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Yorgos Lanthimos Colin Farrell Nicole Kidman Barry Keoghan Raffey Cassidy Sunny Suljic 109
Gran Bretagna, USA 2017
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Shin'ya Tsukamoto - L'esplorazione del possibile

di Matteo Marelli
Shin'ya Tsukamoto - bullet ballet

Nel 2013 la Mostra del Cinema di Venezia festeggia i suoi primi 70 anni con una “chiamata alle arti” intitolata Future Reloaded, una riflessione per frammenti (tanti quanti gli anni celebrati; ciascuno realizzato da un diverso regista) sul passato e il futuro del cinema. Tra i molti interpellati anche Shin'ya Tsukamoto che, in collaborazione con i figli Atsuko e Kounosuke, dirige Abandoned Monster, un home movie che è al contempo sia un cartoon (nel senso letterale della parola) sia un disaster movie a dimensione di bambino, girato in casa tra personaggi e scenografie di cartone.
Qualche mese prima, esattamente il 30 aprile, Tsukamoto era ospite a Bari per tenere a battesimo la seconda edizione di Registi Fuori dagli Schermi, la rassegna diretta da Luigi Abiusi e prodotta da Apulia Film Commission in collaborazione con Uzak. Dopo la sua partecipazione realizza un contributo per il trimestrale dal titolo Qualcosa che si risveglia nell’oscurità. Quello che scrisse appare a posteriori come una postilla del corto presentato a Venezia Da bambino avevo la testa fra le nuvole. Visto che non andavo bene a scuola, per fuggire da quelle preoccupazioni […] volavo nel mondo della fantasia. […] gli adulti si preoccupavano per me. […] Quando oggi creo […], lo faccio con la sensazione di perdermici, come accadeva da bambino») così come questo, a sua volta, può essere considerato, per certi versi, un compendio della sua idea di cinema.

Ciò che emerge innanzitutto è un approccio di tipo artigianale che trasmette allo spettatore una sensazione di partecipazione fisica dell’artista alla propria opera: fare film, sembra dirci Tsukamoto con le sue regie, è, per prima cosa, un lavoro manuale, e solo in seconda battuta diventa una questione intellettuale. Da irriducibile filmmaker continua a curare in prima persona l’intero processo di sviluppo dei propri progetti: dall’ideazione al montaggio, mettendo ogni volta alla prova le potenzialità espressive dei mezzi (spesso ridotti) a sua disposizione; del resto il cinema è anche e forse soprattutto dispositivo tecnico, un’arte che non può che evolvere di pari passo al progredire degli strumenti di rappresentazione. Tsukamoto sa bene che ogni nuova tecnica obbliga la creatività ad adattarsi alle sue prestazioni e non il contrario.

La partecipazione totale e il continuo riaggiornamento della propria cifra stilistica fanno sì che il set diventi a tutti gli effetti un momento di vita vissuta; non a caso il regista è spesso coinvolto anche dall’altra parte della macchina dal presa, come attore nei sui stessi film. Un coinvolgimento che ha non poche affinità con l’attività ludica (Abandoned Monster è, rispetto a quanto già detto, anche un gioco in famiglia). Viene in soccorso, rispetto a questo parallelismo, Johan Huizinga che, in Homo ludens, scrive: «gioco è un’azione, o un’occupazione volontaria, compiuta entro certi limiti di tempo e di spazio, secondo una regola volontariamente assunta, e che tuttavia impegna in maniera assoluta, che ha un fine in se stessa; accompagnata da un senso di tensione e di gioia, e dalla coscienza di “essere diversi” dalla “vita ordinaria”». D'altronde è proprio questo “essere diversi” che avvera quanto sostenuto da Bataille, e cioè che solo il gioco ha «la virtù di condurre molto avanti l’esplorazione del possibile». Una delle tensioni costanti del cinema di Tsukamoto è proprio la libertà del divenire, l’esser altro dai confini del corpo.

Questa tensione, lungo tutta la prima parte della sua filmografia, si è espressa attraverso una rilettura in chiave cyberpunk dell’ero guro, fenomeno socio-culturale trasversale profondamente legato al processo di modernizzazione e di urbanizzazione che, a partire dagli anni 20, ha completamente stravolto il Giappone. Ero si riferisce alla componente erotica, che si declina come libertà di espressione sessuale e attenzione a tutto ciò che rientra nella sfera pulsionale; guro rimanda invece all’elemento grottesco, cioè al fascino esercitato dall’aberrazione, da tutto ciò che è considerato deviante, andando pertanto a collocarsi al di fuori della “normalità”.

Il momento di svolta rispetto alle sregolatezze degli esordi arriva con A Snake of June. Quello che, almeno nelle intenzioni iniziali, sarebbe dovuto essere un porno, diventa, in corso d’opera, un testo chiave sull’emancipazione dalle limitazioni sociali che reprimono la gioia e il godimento. Tsukamto, da qui in poi, comincia a invertire forze e vettori: dalle esplosioni centrifughe dei suoi primi film passa progressivamente a immersioni centripete; dal totale disinteresse per la psicologia dei personaggi, pensiamo soprattutto al primo Tetsuo, arriva a compiere, come accade in Vital, esami autoptici dell’anima nel tentativo di trovare l’origine del soffio vitale. Uno scavo che si spinge ben oltre le visceralità del corpo e che da Kotoko in poi si immerge nell’esplorazione dell’allucinazione. Un’allucinazione vissuta tanto dai protagonisti delle opere quanto esperita dagli spettatori che vengono aggrediti da film che si configurano sempre più come un’esperienza sensoriale che percuote il nervo ottico e, soprattutto, martella i timpani.

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Pose

di Antonia Caruso
Pose - recensione serie tv Murphy

1987, New York. L'HIV è una minaccia reale, Donald Trump ancora no.
La comunità LGBT di colore, latina e afroamericana, si incontra nelle ballroom dove le varie house si scontrano a colpi di danza, drag e voguing. Ogni house è capitanata da una mother che si prende cura dei propri figli e figlie ma Elektra, la mother della House of Abundance, non è proprio un esempio di quello che si può considerare cura e amore materno, seppur simbolico: inizia dalla ribellione verso di lei, quindi, il percorso di autodeterminazione e sopravvivenza (come donna, trans, latina e sieropositiva) di Blanca e della sua House of Evangelista.

Da molti punti di vista Pose, la nuova serie di Ryan Murphy, Brad Falchuk e Steve Canals, è una pietra miliare, un'opera che segna un prima e un dopo, in particolare per quanto riguarda il suo ruolo nella rappresentazione mediatica delle minoranze (un processo produttivo che diventa processo politico) prima ancora che per la sua effettiva efficacia come serie tv.
Il cast della serie, infatti, è composto in gran parte da persone LGBT di colore e latine, così come lo sono le protagoniste finzionali, personaggi trans incarnati da interpreti trans che possono così mostrare in maniera orgogliosa la propria identità – una scelta lontanissima dalle polemiche su Scarlett Johansson e Jared Leto, attori cisgender, cioè non trans, che interpretano personaggi trans.

Come per molte serie di Murphy, la struttura narrativa parte dal melodramma e pone al centro un discorso sulla famiglia, anzi su diversi nuclei familiari; rispetto a questi Pose privilegia una messa in scena della loro identità attraverso lunghe e avvincenti gare di ballo rispetto a intrecci narrativi forti e a una narrazione realmente corale (che invece, riesce bene a un'altra serie relazional-femminile come Orange Is the New Black). Sull'altare della politica è in parte sacrificato anche il finale, in cui ogni personaggio si trova a fare la scelta perfetta per creare una sorta di nuovo ordine familiare e i conflitti si appianano grazie al buon senso e all'amore, come in una favola. D'altronde, che fosse una favola l'ha ammesso lo stesso Murphy citando Cenerentola, con la povera Blanca vessata da Elektra e le sue sorellastre cattive.

In ogni caso plot e subplot poco adrenalinici non abbassano troppo la soglia d'attenzione dello spettatore, dato che la forza di Pose risiede tutta nei personaggi (nonostante risultino lievemente appiattiti nei  ruoli madre/figlia e in quanto personaggi gender variant): nessun vittimismo, nessuna narrazione patetica dell'esperienza trans come sofferenza ed espiazione, come quelle che siamo abituati a vedere in praticamente ogni prodotto televisivo a tema trans; anzi, in Pose si va a testa alta e tette in fuori, con tanta sorellanza e solidarietà reciproca e via a trovare un proprio posto nel mondo e a vincere premi.

Il postmoderno di Pose non è quello di American Horror Story, con movimenti di macchina stordenti o miscele di cinema di genere, quanto piuttosto la ricreazione mimetica di quegli anni '80 che negli anni '80 non abbiamo visto, come forse nemmeno i loschissimi anni '80 di The Americans o quelli iperreali e iper-glam di GLOW. Lo show ripropone certamente alcune narrative chiave del decennio, come il mito americano dell'autopoiesi attraverso la danza o il capitalismo, ma lo fa ribaltando il punto di vista e mettendo in scena con una doppia messa in scena i conflitti tra società WASP e la popolazione di colore e trans, che deve fare i conti con l'HIV come epidemia socialmente accettata e l'incapacità di integrarsi.

E siamo noi spettatrici e spettatori la coppia bianca borghese, l'amante di Elektra, il barista gay, noi che dobbiamo fare i conti con l'attrazione/repulsione per il rombante e maschio capitalismo yuppie e per l'erotismo candido di Angel, con la presenza forse inopportuna, sicuramente cocciuta di Blanca in un bar gay e con quel piccolo particolare anatomico chiamato pene che condiziona tutto, amore lavoro salute.

Nella puntata da lei diretta Janet Mock, attivista e giornalista trans e di colore, ha voluto però trasformare il conflitto in un confronto empatico tra Angel e Patty, amante e moglie, cis e trans.
«Per me l'idea dell'essere donna non è qualcosa che debba essere giustificato; penso che ciò si mostra mettendole insieme è che sono entrambe donne che lottano con la propria identità e in relazione a un uomo che non le tratta bene. […] Sono le stesse domande con le quali noi stesse dobbiamo fare i conti quando dobbiamo condividere i nostri corpi con le persone intorno a noi. [For me the idea of womanhood is not one that needs to be justified; I think that what it shows by placing the two together is that they’re both women grappling with their own sense of identity and in relationship with a man who’s not treating either of them right. ... It’s all the same kind of questions that we all have to grapple with when it comes to sharing our bodies with those around us]». - Così Janet Mock in un’intervista a The Glow Up.

Janet Mock è arrivata a Pose prima come producer per tutte le puntate, poi come co-sceneggiatrice (insieme a Our Lady J, già nel team di Transparent) e poi come regista di un episodio, la prima donna trans di colore a girare una puntata di una serie TV. In assoluto la prima trans è stata Sydney Freeland, che ha diretto un episodio di Grey's Anatomy oltre che la webserie Her Story, scritta dall'autrice e attrice trans Jen Richards e dove compare Angelica Ross, che in Pose fa la parte della cattiva ma che nella vita ha fondato un incubatore professionale per talenti trans.

Del resto la narrazione di Pose funziona anche grazie al suo reale retrotesto di attivismo, grazie all'impegno di Ryan Murphy e della sua fondazione Half, dedicata all'inclusione di donne e minoranze, che ha coinvolto nella produzione della serie 140 persone trans tra attori e crew e 35 personaggi LGBTQ+, praticamente più di metà delle persone del team. Murphy ha donato inoltre il proprio compenso a organizzazioni a sostegno di persone trans e gender non conforming come l'Audre Lorde Project e il Sylvia Rivera Project.

Tutto ciò a dimostrazione di quanto, al di là del mero valore artistico della serie, la produzione di Pose abbia un grande valore politico, in un paese dove la popolazione trans ha una percentuale di disoccupazione tre volte maggiore rispetto alla popolazione cis, in cui la discriminazione è ancora elevatissima e l'informazione su tutto quello che riguarda la sessualità ha ancora molta strada da fare.

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Menocchio

di Arianna Pagliara
Menocchio di Alberto Fasulo

Montereale, Friuli, fine ‘500. Domenico Scandella, detto Menocchio, è un mugnaio che vede e sente Dio in tutte le cose – aria, acqua, fuoco e terra - e che ha immaginato una sua personale, e affascinante, cosmogonia. La saggezza che gli deriva dall’esperienza del mondo gli impone di dubitare dell’immacolata concezione, mentre la riflessione sulla giustizia divina smaschera ai suoi occhi l’ingiustizia terrena, amministrata e imposta da quel potere cieco e brutale che non è solo secolare ma anche religioso. I suoi non sono, però, i pensieri tormentosi di un solitario, ma quelli fiduciosi e forse perfino ottimisti condivisi da un gruppo di persone che assieme a lui ragiona - ammirando la natura, un “Paradiso in terra” – e che con lui si confronta, per amore del libero pensiero. Ma il libero pensiero è già di per se stesso eresia: per questo Menocchio verrà incarcerato, torturato e costretto infine a scegliere tra l’abiura o il rogo.

Dopo Rumore bianco (2008) e TIR (Marc’Aurelio d’Oro per il miglior film al Festival Internazionale del Cinema di Roma, 2013), Alberto Fasulo approda quasi in sordina al film storico, senza che l’intento di questa sua ultima opera si esaurisca però nell’appartenenza al genere, che anzi passa a ben guardare subito in secondo piano. Il suo cinema – tralasciando qui la quaestio del confine tra documentario e fiction – è stato finora sempre strettamente e saldamente aderente al reale. Menocchio di fatto non si discosta da questa linea, sebbene, nell’intento del regista, travalichi in un certo senso la stessa verità storiografica. La sceneggiatura si basa, più che sul libro Il formaggio e i vermi (1976) di Carlo Ginzburg, sul testo di Andrea Del Col Domenico Scandella detto Menocchio - I processi dell'inquisizione (15831599) (1990), e tuttavia la prerogativa dell’autore non è tanto una ricostruzione filologicamente perfetta degli eventi quanto la volontà di dare forma cinematografica a una suggestione, a un’idea che prescinde dalle sue infinite possibili manifestazioni spazio-temporali: il dissenso radicale, o meglio il diritto al dissenso, in un universo che nella sua reazione imprescindibilmente violenta rivela tutta la sua meschinità e la sua miseria spirituale.

Rigoroso, asciutto, compatto, perfino austero, Menocchio è un film di volti, quasi uno studio antropologico che esalta il suono delle lingue e dei dialetti assieme alle peculiari fisionomie dei personaggi, meravigliosamente interpretati da attori non protagonisti che fanno, spontaneamente, dei loro corpi strumenti espressivi. La macchina da presa sembra restare incagliata sui primi piani, assorbita, calamitata, mentre il mondo attorno - spesso escluso e spinto fuori campo - prende forma soprattutto attraverso suoni e rumori. La parsimonia dei campi lunghi sembra voler parcellizzare la realtà offrendone allo spettatore solo una parte – quella che conta – obbligando chi guarda a una prossimità estrema col personaggio che diventa, di volta in volta, commossa empatia o rabbiosa repulsione. La luce, trattata in senso marcatamente pittorico, si fa protagonista: usando solo l’illuminazione naturale l’occhio attento di Fasulo (qui anche direttore della fotografia) restituisce notturni morbidi e ambrati fatti di un buio pastoso e denso, e poi scene diurne biancastre e lattiginose, quasi volesse esplorare tutte le gamme possibili della luminosità insistendo sugli estremi.

La sobrietà e l’essenzialità del racconto, tutto imperniato su quei lunghi, capziosi e logoranti interrogatori dell’Inquisizione, ne bilancia i contenuti così gravi e severi. A Fasulo bastano poche immagini paradigmatiche per ribadire il senso ultimo delle cose: vedi la sequenza con i contadini che, stremati, innalzano l’enorme croce, sotto lo sguardo compiaciuto e incalzante dei religiosi. Un mondo tragicamente diviso in due tra chi comanda e chi deve soltanto obbedire. E chi – come Menocchio – tenta caparbiamente di superare quella rigida linea di demarcazione si troverà inevitabilmente costretto a scegliere tra la salvezza e l’amore per le proprie libere convinzioni.                      

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Alberto Fasulo Marcello Martini Nilla Patrizio Emanuele Bertossi Mirko Artuso Roberta Potrich 103 minuti
Italia, 2018
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Più che un film storico, una riflessione sul diritto al dissenso. Fasulo racconta, con il consueto approccio documentaristico, la vera storia del mugnaio Menocchio.

Driven

di Domenico Saracino
Driven - recensione film Nick Hamm

Anche se a tratti potrebbe sembrarlo, Driven, il film di Nick Hamm che ha chiuso la 75esima Mostra del Cinema di Venezia, non è un biopic su John DeLorean, il grande asso dell’industria automobilistica americana, noto a gran parte della popolazione terrestre per aver prodotto un’auto che fu tanto un successo al botteghino quanto un fallimento sul mercato: la DMC-12 resa immortale da Ritorno al futuro. Almeno non in senso canonico, compiuto.

Driven si apre senza John DeLorean, con l’agente speciale dell’FBI Benedict J. Tisa (Corey Stoll) che dà istruzioni all’informatore Jim Hoffman (Jason Sudeikis) mentre entrambi fanno il loro fichissimo ingresso (cinematograficamente parlando, s’intende, tra musica glam e una raffica di inquadrature ad effetto, neanche fossimo con De Niro in Mean Streets) nell’aula di tribunale dove si celebrerà un processo che solo chi conosce le vicende giudiziarie di DeLorean può capire essere a suo carico. Grazie ad una serie di lunghi flashback, intervallati da qualche momento dell’udienza, scopriamo la storia principale, quella di un pilota di aerei – Hoffman, appunto – costretto a diventare un informatore dopo essere stato trovato dall’agenzia federale con un carico di cocaina sufficiente a spedirlo in carcere per qualche decennio.

Il piano dell’FBI è di incastrare Morgan Hetrick (Michael Cudlitz, il rosso sergente di The Walking Dead), il trafficante per cui Hoffman stava trasportando la droga dalla Bolivia negli Stati Uniti. Per farlo il governo è disposto a pagargli le spese d’affitto di una residenza di lusso a San Diego, dove per puro caso trova come vicino di casa proprio John DeLorean (interpretato da un più che convincente Lee Pace), deciso ad avviare la sua linea produttiva automobilistica dopo aver lasciato la General Motors. L’idea è quella di produrre una macchina dal design futuristico nato dalla matita di Giugiaro, la DMC-12, con porte ad ali di gabbiano e carrozzeria in acciaio inossidabile non verniciato, rivelatasi poi l’unico modello ad essere prodotto, tra il 1981 e il 1983, dalla DeLorean Motor Company. Il progetto, infatti, fu funestato da problemi ingegneristici, produttivi e finanziari e la fabbrica, stabilita in Irlando del Nord, chiuse i battenti pochi anni dopo l’avvio della produzione, quando DeLorean si fece immischiare in un caso di traffico di droga per tentare di colmare i vuoti di liquidità della sua azienda.

È questo il caso che Nick Hamm ricostruisce più o meno liberamente e mette al centro di Driven, affidando il punto di vista della narrazione a Jim Hoffman, l’importatore di droga e informatore che il governo utilizzò nei primi anni Ottanta per incastrare il costruttore di automobili. Una scelta cruciale per stabilire il tono dell’intera operazione filmica, che assume i tratti di una spy-comedy invece di quelli della tragica biografia di un uomo di successo macchiato per sempre dal fallimento del suo sogno imprenditoriale e dall’ombra di pesantissime accuse, che gli rovineranno la vita nonostante l’assoluzione nel 1984. Eppure nonostante la figura di DeLorean sia decentrata rispetto all’asse principale del film, tutto imperniato su Hoffman-Sudeikis, l’interpretazione di Lee Pace, con quel volto, quella voce, che riescono ad esprimere assieme la verve fascinosa dell’uomo d’affari e la malinconica disperazione di chi sa di essere a due passi dalla débâcle, porta con sé una buona dose del carico di tragedia che il personaggio originale dovette affrontare. Restituendo consistenza e spessore a quella che altrimenti sarebbe stata nient’altro che una farsa divertente, una simpatica commedia ambientata nella California della disco music pre-reaganiana, con una colonna sonora godibile, costumi ricercatissimi, un look alla American Hustle e una fotografia vivace che esalta piacevolmente i colori.

Lo script di Colin Bateman (che per Hamm aveva già scritto The Journey) lascia inoltre spazio alle donne, mogli o fidanzate dei personaggi principali, in particolar modo alla consorte di Jim, Ellen, stremata dai continui espedienti del marito ma disposta a restare con lui nella sua accidentata sorte. Questo controcampo femminile non contribuisce soltanto a restituire un racconto più realistico e inclusivo delle figure che, a tutti gli effetti, erano le più vicine ai protagonisti maschili, moltiplicando così le opzioni narrative; nel caso di Ellen, forniscono un ideale controcanto alle idiozie criminali dei propri compagni, esprimono cioè, anche solo parzialmente, il punto di vista della vittima di quelle scempiaggini. Ampliando, come nel caso di DeLorean, il registro emotivo del film e bilanciando ulteriormente il rischio di appiattimento sui toni della commedia.

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Nick Hamm Lee Pace Judy Greer Jason Sudeikis Corey Stoll 98 minuti
Gran Bretagna 2018
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Sulla mia pelle

di Giorgio Sedona
Sulla mia pelle recensione film Netflix venezia

"In che cosa consiste fondamentalmente un modo civilizzato di comportarsi? Consiste nel ridurre la violenza. E’ questa la funzione principale della civilizzazione ed è questo lo scopo dei nostri tentativi di migliorare il livello di civiltà delle nostre società” – Karl Popper

Come si arriva ad un’immagine? L’opinione pubblica di Stefano Cucchi conosce perlopiù un volto, livido, freddo, l'immagine finale di un'intensa sofferenza. Sul tavolo autoptico è disteso Stefano e sul volto ha gli ematomi di un delitto di Stato. Tremenda immagine. Immagine che si definisce come un colpo all’immaginario collettivo, è l’immagine dell’ingiustizia, l’immagine della sconfitta, l’immagine del dolore, l’immagine della lividezza e della morte. E’ l’immagine che perseguita le cattive coscienze, che non fa dormire la notte, è il simbolo di un’inciviltà che macchia lo spirito liberale e legalitario di un Paese. Sulla mia pelle di Alessio Cremonini è un film che vuole ricostruire quell’immagine, ampliandone la verità, raccontando la genesi di una fotografia che nel suo silenzio urla, alla collettività, il terrore dell’insicurezza. Un’immagine senza verità, senza giustizia, simbolica e folgorante come l'iconografia di una crocifissione, come le plasticità delle fustigazioni, come il colpo di lancia, come la ritrattistica della sofferenza, come la lenta agonia della croce. Che differenza ci sarebbe se la passione l’avesse vissuta Barabba? Sarebbe stata comunque una tortura all’umanità, ma non si sarebbe potuta generare l’immagine della fede, l’immagine del sacrificio e del dolore. Stefano non era un santo, e nel voler definire l’onestà della verità, attraverso la ricostruzione degli atti (Borghi:”volevamo trasformare in carne gli atti processuali...”), questo film non tenta di mistificarlo, non vuole beatificare attraverso i sette giorni di martirio, Stefano, ex tossico e, per le quantità di hashish e cocaina rinvenute in casa, spacciatore. Non è il peccato ma il dolore, non la colpa ma il potere coercitivo e violento ad essere sotto il pubblico giudizio. E’ in questo che l’intensa, e necessaria, fedeltà scarnifica lo sguardo cinematografico, è nell’esercizio della trasparenza autoriale, nella scrittura contenuta, che la verità s’innalza dalla realtà; è nel rigore della ricostruzione e dell’interpretazione autoriale che il film si determina come una contraddizione (Popper, docet) al dogma dello Stato civile e garante della sicurezza, organismo a tutela i diritti dei cittadini. E’ sulla pelle del peccatore, stritolato dall’abbraccio del garante, che si arriva a quell'immagine pubblica, altresì è attraverso la volontà di un linguaggio cinematografico asciutto che si sintetizza e unisce, nel film, l’etica del documentario civile al rigore del film d’inchiesta.

Scena 1

La verità è sulla mia pelle, nei calci presi a terra, nelle cingiate, negli insulti, nella rabbia esplosa in una notte, nella furia del potere. E’ attraverso il corpo di un Alessandro Borghi, sempre in procinto di disintegrarsi e di morire, in un’interpretazione orizzontale rivissuta nel dolore del letto, o nella verticalità infranta dal dolore del camminamento, in quell'essere trascinato nei corridoi di una questura, di un tribunale, di un penitenziario: è attraverso questo tramite epidermico che la verità giudiziaria lascia il segno sull'opinione collettiva. Prendendo a riferimento l’arte pittorica, l’immagine di Stefano è equiparabile, oggi, al Cristo di Mantegna, una figura sdraiata sul letto di morte, lontana dalla metafisica, un corpo non beatificato che riporta su di sé i segni della vittima. Un film che tende verso la verità di un’immagine, coagulandosi nella definizione di una plasticità vessatoria; ed è attraverso il vuoto di una soggettività forte, cardine di qualunque punto di vista autoriale, che si stratifica il film-inchiesta.

Quand’è che possiamo definire qualcosa reale? E quand’è che quella realtà si inchina alla soggettività dell’enunciatore? Quand’è che alla realtà viene meno la verità? Sicuramente non quando l’enunciazione è tradotta dall’atto formalizzato di un resoconto giudiziario, ed è in questa esigenza che l’enunciatore si mimetizza, lasciando alla verità lo spazio di esistere. E se questo spazio è omesso dall'atto, ma ben visibile alla (s)vista del pm e del giudice, non dovrà essere (giustamente) considerato nel profilmico, come i lividi delle percosse ma non le percosse stesse, rinchiuse dentro una stanza, non mostrate, caricate ed introdotte dal passo marziale nei geometrici corridoi di un commissariato. Un pieno non mostrato, un vuoto eucaristico, caricato dal pathos musicale che l’enunciatario (lo spettatore) subisce, e attraverso il quale, viene condotto verso la condanna di una violenza furiosa che non entra in conflitto con la finzione della ricostruzione, con il malsano voyeurismo mediatico, per arrestarsi di fronte ad una porta a cui non è consentito l’accesso alla replicata violenza.

Scena 2

Un film che nasce come esigenza di verità, che non domanda, che non si dimostra, un film che non si appoggia ad una considerazione arbitraria o poetica, ma che si struttura pienamente sull'oggettività di un fatto di cronaca. Un macigno di impegno civile attraverso il quale porsi delle domande, degli interrogativi induttivi, alla ricerca di una contraddizione, almeno di un contro-esempio, che mini la tesi della sicurezza del potere e dell’esecutivo statale. Sulla mia pelle corrode con la sua semplicità espositiva le difese dello Stato, aumentando l'idiosincrasia tra il cittadino e l'apparato burocratico, ed eludendo l’empatia dei protagonisti del sistema, stemperata nella ricorsività del mestiere e nell’indifferenza dell'attuazione di una procedura, ne esclude l’umanità e la morale.

Sulla mia pelle è un film più verista che reale, un film che clona più che ricostruire, un film che vuole essere ricostruzione fedele, verità giudizialmente riconosciuta, non gridata, glorificata, o mutuata dal febbrile bisogno di giustizia mediatica, ma un riscontro veritiero del fatto cronachistico, nudo e livido, che nasce dalla parola giustizia, ma che vuole giungere, soprattutto, alla parola fine.

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Alessio Cremonini Alessandro Borghi Max Tortora Jasmine Trinca Orlando Cinque Mauro Conte Milvia Marigliano Andrea Lattanzi 100 minuti
Italia 2018
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Halloween - La notte delle streghe

di Gian Giacomo Petrone
halloween - recensione film carpenter

Ci fu un tempo – di cui probabilmente risalta, ormai, più l’aura mitica che la dimensione meramente storica – in cui il cinema italiano fece scuola, aprì orizzonti, creò o rielaborò genialmente archetipi. Dal ’45 alla fine degli anni Settanta la nostra produzione filmica poté vantare, sul versante autoriale (etichetta invero labile, scivolosa e, almeno oggi, quanto mai permeabile), alcuni dei nomi più illustri e stimati del panorama mondiale, accompagnati da una pletora di professionisti, sagaci artigiani, ingegnosi manipolatori di immagini, suoni e sogni, sovente non meno abili, innovatori e visionari dei Maestri riconosciuti.
Il nostro cinema di genere, una volta superata – a cavallo fra i Cinquanta e i Sessanta – l’infanzia del peplum, dell’avventuroso e di altri sotto-filoni minori, a partire dal ’64 (anno dell’esordio di Leone nel western con Per un pugno di dollari) e fino al ’79 (emblematica data di passaggio, che segnò l’uscita sugli schermi del crepuscolare Da Corleone a Brooklyn di Lenzi, una sorta di canto del cigno del cinema popolare italiano più vitale) conobbe la parte più smagliante e irripetibile della propria stagione di gloria, di cui vanno ricordati almeno tre indiscutibili meriti: recuperò e rilanciò il western, declinante negli USA, e lo vivificò con accenti nuovi, insospettabili e inediti; sviluppò un prolificissimo filone giallo-thriller, dapprima connotato da torbidi intrighi familiari altoborghesi e da trame perlopiù all’insegna del whodunit (con i nomi di Guerrieri, Lenzi e Martino a contendersi il podio), poi innervato e rilanciato dalle barocche intuizioni di Argento, che sfumeranno in una visionarietà più vicina all’horror e che origineranno un filone “argentiano” vero e proprio; declinò con accenti assai personali e sfaccettati il poliziesco metropolitano americano (talora guardando anche al polar francese, come nel caso di Di Leo), originando il cosiddetto “poliziottesco”, nelle sue molteplici variazioni action, politiche, sociologiche.

Nello specifico del filone giallo-thriller italiano e nelle sue più o meno marcate sfumature horror, è possibile anche rintracciare alcuni tratti ricorrenti dello slasher americano, che invaderà gli schermi fra i Settanta e gli Ottanta.
Di fatto, i vari Bava, Argento, Fulci e in parte Martino costituiscono i pionieri veri e propri di un filone che conoscerà il pieno successo negli USA con qualche anno di ritardo – e con almeno una rimarchevole differenza, come si vedrà tra breve – rispetto agli esempi italici, senza ovviamente dimenticare, a monte, la rilevanza e la potente influenza di almeno due veri e propri numi tutelari (per chiunque, al di qua e al di là dell’Atlantico) come l’Hitchcock di Psyco e il Powell de L’occhio che uccide.
Bava è fra gli iniziatori del giallo italico con La ragazza che sapeva troppo (1963), ma soprattutto è il primo a codificare il linguaggio, le figure ricorrenti, il ritmo del moderno cinema di paura: Sei donne per l’assassino (1964) è il primo vero antesignano dello slasher moderno (con buona pace dei vari Clark e Gershuny, sia detto senza alcuna malevolenza), mentre Reazione a catena (1971) è il primo slasher moderno, pervaso oltretutto da una (auto)ironia e da una consapevolezza dei meccanismi e dei cortocircuiti della suspense, della violenza, nonché del linguaggio filmico che le mette in scena, di cui non sempre gli americani avranno contezza. Fulci e Argento, nei Settanta, consentiranno un’ulteriore evoluzione al filone in senso macabro e visionario, ponendo numerosi e imprescindibili tasselli al quadro complessivo, che qui è superfluo enumerare (così come risulterebbe pleonastico sottolineare il loro contributo all’horror puro), mentre Martino, in quel pregevole “pezzo unico” della sua collezione di titoli che è I corpi presentano tracce di violenza carnale (1973), compirà l’ennesimo prodigio tecnico-linguistico di matrice italiana, creando, specie nell’ultima parte del film, un vero e proprio prototipo e vademecum dello slasher.

primo piano Michael Myers

Al di là delle disamine cronologiche e dei giudizi di merito nel confronto giallo-thriller/slasher, l’elemento più evidente, e tutt’altro che secondario, di discontinuità fra Italia e USA si situa nella caratterizzazione dei villains, che, sul versante americano, propende per una vena fantastica e mitizzante, decisamente più consona all’horror puro (non a caso lo slasher americano è considerato un sotto-filone dell’horror tout court, al contrario dell’assai più ibrido giallo italiano). Che si tratti dell’ottusa e inarrestabile meccanicità di morte dei vari Leatherface (anche se Non aprite quella porta travalica i confini dello slasher in senso stretto), Michael Myers, Jason Vorhees, o piuttosto della sarcastica  e mordace vena macabra di un Freddy Krueger, i mostri che popolano i titoli più rilevanti del filone negli USA sono pressoché immortali. Di qui la serializzazione spinta delle figure più riuscite (assente nel cinema italiano, che procede, piuttosto, per clonazione/gemmazione di archetipi e modelli), legata anzitutto all’aura sovrannaturale di cui sono ammantate, che ne rende pressoché immortale anche il Mito.

Il Diavolo, probabilmente… Oppure, in un’ottica più laica, la messa in immagini del Male assoluto, l’incarnazione visiva della sua figura, della “shape” che ne marca i pochi ma indimenticabili tratti. La prima apparizione sugli schermi della silhouette stilizzata, e proprio per questo massimamente icastica, di Michael Myers – altrimenti noto, non a caso, come “The Shape” – è una sorta di inesorabile (nuovo) inizio per l’horror americano, che veniva già da dieci anni di apparizioni perturbanti. Gli zombi romeriani avevano già ampiamente fatto parlare di sé (e, nello stesso periodo dell’uscita di Halloween La notte delle streghe, sarebbero riapparsi in Zombi, continuazione de La notte dei morti viventi); Krug Stillo e Leatherface, con i rispettivi nuclei familiari ampiamente disfunzionali, avevano già dato prova della propria ferocia, senza dimenticare l’importanza, al di fuori del contesto indipendente del New Horror, di un’altra memorabile raffigurazione del Male, quella del Demonio in persona ne L’esorcista di Friedkin.

Il killer concepito da John Carpenter (e Debra Hill) è estremamente moderno e, allo stesso tempo, antico, originario: si muove come un Golem, o come un robot, magari come uno zombi, rimanda per certi versi agli “automi di morte” dell’espressionismo tedesco, eppure, nelle fattezze della bianca maschera inespressiva che indossa, è un’apparizione che oltrepassa il déjà-vu, non risultando del tutto inedita eppure creando uno strisciante senso di inatteso. Inoltre, elemento sostanziale, Myers è di fatto il primo assassino seriale del cinema moderno del brivido a essere caratterizzato da un’inumana persistenza. In secondo luogo, la maschera che indossa non serve a occultarne i tratti bensì paradossalmente a rivelarne l’identità, lo spirito privo di umanità ed emotività, un abisso insondabile di meccanica predazione. Lontano dalle derive psicotiche di un Norman Bates (vero e proprio groviglio inestricabile di pulsioni irrisolte) o di uno qualsiasi dei molti killer del cinema italiano (argentiano e non) o americano (quanta istintività belluina pulsava invece nei feroci personaggi del cinema di Craven, Hooper o Romero), The Shape è l’incarnazione, la personificazione di un Male primigenio, pre o post-umano, privato di qualsiasi connotato vitale e comunicativo. Muto, imponente e letale, egli abita le pieghe più riposte della notte e i recessi più intimi dell’inconscio, proiezione opaca della (paura della) morte, tanto più spaventosa quanto più incomprensibile, inafferrabile.

Carpenter, come aveva già fatto in Distretto 13 e come tornerà a fare in molti dei suoi lavori successivi, rifinisce le ombre e i chiaroscuri notturni, traendone l’ambiente ideale per l’incedere progressivo dell’inquietudine, e orchestra un dialogo incessante fra campo e fuori campo, fra visibile ed invisibile, sviluppando la tensione come spinta irresistibile per lo sguardo a perlustrare l’ambiente, una spinta che non può risolversi se non nella rassegnazione dell’attesa, come accadeva anche con i grandi maestri classici dell’orrore (su tutti, la coppia Lewton-Tourneur). D’altro canto, il regista americano si dimostra anche massimamente moderno e innovatore, spingendo alle estreme conseguenze le intuizioni di Powell sulla soggettiva (Peeping Tom) e sul potere mortale dello sguardo (senza dimenticare la lezione – anche se più sperimentale che effettivamente teorica – di film come La fuga di Daves o Una donna nel lago di Montgomery, entrambi del ‘47), dell’”occhio che uccide”, che in definitiva è il potere del cinema. La celebre soggettiva iniziale di Halloween non è solo un virtuosistico esercizio di suspense o una chirurgica messa in discussione dei meccanismi psichici dell’identificazione spettatoriale, ma è anche il marchio, l’imprinting dello sguardo di Michael, che pervaderà di sé l’intera pellicola. È come se tale sguardo colonizzasse l’intera visione del film, ed è inoltre come se esso fosse immutabile, nel passaggio da un’età all’altra del personaggio: l’intuizione forse più brillante di Carpenter si situa proprio in questo uso della soggettiva, giacché l’assenza dell’Uomo Nero dal quadro implica la sua presenza in un luogo imprecisato del fuori campo, e questo accade, salvo nelle sequenze di raccordo o di sviluppo psicologico degli altri personaggi, pressoché per tutta la durata dell’opera.

semi-soggettiva Michael Myers

Rimarrebbe da chiedersi come guardi Michael e soprattutto cosa egli effettivamente veda. E qui, probabilmente, si tocca il vertice della poetica carpenteriana all’opera in questo film: la sovrapposizione fra la soggettiva (anche se quasi mai linguisticamente chiarita come tale, a parte nell’incipit) onnipresente  di Michael e il vedere dello spettatore non comporta una corrispondenza anche della realtà osservata. Qui si innesca il vero cortocircuito fra sguardi sovrapposti, ma mai coincidenti, giacché la verità, in questo caso, non si situa nel reale, ma nella rappresentazione soggettiva, o meglio connotativa, che il guardante dà agli oggetti della propria osservazione. Ed è evidente che il grande e irrisolto mistero che avvolge la psiche di Michael impedisca la possibilità effettiva di collocarsi nel suo punto di vista. In breve, per buona parte del film, lo spettatore è negli occhi del killer senza sapere cosa questi stia guardando e quale etica (o assenza di essa) innervi tale visione.

Quindi, con Halloween, Carpenter non solo apporta un decisivo contributo allo sviluppo dello slasher (tuttavia, in un horror esangue, uno slasher senza “slashing”), con la creazione del primo vero grande boogeyman dell’horror contemporaneo, ma compie anche uno dei primi passi determinanti nella propria indagine estetico-tematica del Male, attraverso una ricerca linguistica e visuale che armonizza classicità e modernità e che, soprattutto, esprime al meglio i limiti, le contraddizioni e gli abbagli della percezione, che si dimostra impotente a rivelare il senso ultimo del reale. L’essenza più profonda del cinema horror, e magari del cinema in quanto tale, è probabilmente tutta in quest’ultimo e decisivo tassello.

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John Carpenter Donald Pleasence Jamie Lee Curtis Nancy Loomis Nick Castle 91 minuti
USA 1978
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Lucky

di Alessandro Gaudiano
Lucky - recensione film

Lucky è la storia di un uomo che vive in un paese della frontiera americana dei giorni nostri. In questo Far West ridotto a tranquilla vita di periferia, un arzillo novantenne (il compianto Harry Dean Stanton) trascorre la propria quotidianità: fa esercizio fisico, beve il suo caffé, vive la sua cittadina e, soprattutto, fuma. La rassicurante ripetizione dei giorni si inceppa inaspettatamente quando Lucky perde e forze e cade a terra. Quello che segue è un percorso di introspezione e messa a patti con i limiti della propria esistenza.

Lucky è un'opera di raro equilibrio: classica nell'impianto, sa essere libera e creativa nel mettere in discussione le proprie fondamenta. Ad esempio, il regista John Carroll Lynch sa dipingere la periferia d'America con uno sguardo in sospeso tra un'estetica western e la sua decostruzione in chiave ironica: Lucky sembra un cowboy di altri tempi, col cappello ormai sgualcito, l'armonica a bocca e lo sguardo di chi è sopravvissuto ad un'epoca da tempo conclusa. Non ci sono cavalli, né pascoli: solo una tartaruga dal nome President Roosevelt, animale da compagnia di un altro Lynch, il David Lynch che ben conosciamo e che qui interpreta il ruolo di uno degli amici del protagonista. La semplicità apparente dell'ambientazione, suggestiva ma già vista, si accompagna alla cinefilia e a trovate più autoriali: tante sono le suggestioni e le citazioni evocate dalle immagini, che spaziano dall'incipit di Paris, Texas ai racconti crepuscolari del post-western, dall'America primordiale di David Lynch stesso fino alla poesia del quotidiano celebrata, ad esempio, dal Paterson di Jim Jarmusch.

Anche l'intreccio è un fatto di equilibrio: la storia, in sé molto semplice, è controbilanciata da sequenze quasi oniriche o surreali, che ne complicano l'assetto e la lettura. E così, mettere in scena l'avvicinarsi della fine e la piccolezza dell'uomo rispetto alla Natura è, al tempo stesso, una confessione intima al telefono e l'immenso paesaggio della prateria, la semplice gioia di una festa e un litigio al bar con un avvocato che propone polizze sulla vita a un amico smarrito. Come dice Lucky stesso mentre completa il suo cruciverba, «la verità esiste»; non è, tuttavia, una verità trasparente o un realismo ingenuo e ideologico, quanto una ricerca o un enigma da percorrere scavando nelle forme dell'immagine, i suoi tic e i generi cinematografici attraverso cui visitiamo il mondo di Lucky.

Possiamo inquadrare Lucky nella categoria porosa, liquida, dei cosiddetti "film di attori". L'opera prima di John Carroll Lynch, attore egli stesso, è una costruzione agile che ruota attorno al suo straordinario protagonista, nella cui interpretazione troviamo le tracce di un lunghissimo percorso attoriale e umano. Harry Dean Stanton interpreta i suoi personaggi passati e se stesso, denunandosi come uomo e mettendosi al servizio di un cinema che lo sa valorizzare e rivelare. Il risultato è un film che, pur raccontando la propria storia e funzionando come opera indipendente, lavora anche su altri livelli, approdando dalle parti del documentario e del performativo teatrale. Stanton è un personaggio, ma è anche un uomo che viene sinceramente a patti con la fine della propria vita, e di questa lancinante sincerità Lucky è stracolmo. Il risultato, anche se non del tutto originale, è poetico e commovente.

Lucky incede senza fretta, come l'iconica tartaruga: sospeso nell'incertezza della propria minuscola crisi esistenziale, il suo protagonista esce dal tempo ciclico con cui si avvia il film per trasformarsi nella messa in scena di un lungo epilogo. Sfuriate, confessioni, paura e ricordi: la fine non è una sentenza, ma un luogo dell'animo che il personaggio interpretato da Stanton conquista per accumulazione, e con cui l'opera ci accompagna fino ai titoli di coda.

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John Carroll Lynch Harry Dean Stanton David Lynch Ron Livingston 88 minuti
USA 2017
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