Shin'ya Tsukamoto - L'esplorazione del possibile

Ricognizione di un cinema artigianale e materico che si “risveglia nell’oscurità”, per tendere oltre i confini del corpo verso la libertà e l'allucinazione.

Shin'ya Tsukamoto - bullet ballet

Nel 2013 la Mostra del Cinema di Venezia festeggia i suoi primi 70 anni con una “chiamata alle arti” intitolata Future Reloaded, una riflessione per frammenti (tanti quanti gli anni celebrati; ciascuno realizzato da un diverso regista) sul passato e il futuro del cinema. Tra i molti interpellati anche Shin'ya Tsukamoto che, in collaborazione con i figli Atsuko e Kounosuke, dirige Abandoned Monster, un home movie che è al contempo sia un cartoon (nel senso letterale della parola) sia un disaster movie a dimensione di bambino, girato in casa tra personaggi e scenografie di cartone.
Qualche mese prima, esattamente il 30 aprile, Tsukamoto era ospite a Bari per tenere a battesimo la seconda edizione di Registi Fuori dagli Schermi, la rassegna diretta da Luigi Abiusi e prodotta da Apulia Film Commission in collaborazione con Uzak. Dopo la sua partecipazione realizza un contributo per il trimestrale dal titolo Qualcosa che si risveglia nell’oscurità. Quello che scrisse appare a posteriori come una postilla del corto presentato a Venezia Da bambino avevo la testa fra le nuvole. Visto che non andavo bene a scuola, per fuggire da quelle preoccupazioni […] volavo nel mondo della fantasia. […] gli adulti si preoccupavano per me. […] Quando oggi creo […], lo faccio con la sensazione di perdermici, come accadeva da bambino») così come questo, a sua volta, può essere considerato, per certi versi, un compendio della sua idea di cinema.

Ciò che emerge innanzitutto è un approccio di tipo artigianale che trasmette allo spettatore una sensazione di partecipazione fisica dell’artista alla propria opera: fare film, sembra dirci Tsukamoto con le sue regie, è, per prima cosa, un lavoro manuale, e solo in seconda battuta diventa una questione intellettuale. Da irriducibile filmmaker continua a curare in prima persona l’intero processo di sviluppo dei propri progetti: dall’ideazione al montaggio, mettendo ogni volta alla prova le potenzialità espressive dei mezzi (spesso ridotti) a sua disposizione; del resto il cinema è anche e forse soprattutto dispositivo tecnico, un’arte che non può che evolvere di pari passo al progredire degli strumenti di rappresentazione. Tsukamoto sa bene che ogni nuova tecnica obbliga la creatività ad adattarsi alle sue prestazioni e non il contrario.

La partecipazione totale e il continuo riaggiornamento della propria cifra stilistica fanno sì che il set diventi a tutti gli effetti un momento di vita vissuta; non a caso il regista è spesso coinvolto anche dall’altra parte della macchina dal presa, come attore nei sui stessi film. Un coinvolgimento che ha non poche affinità con l’attività ludica (Abandoned Monster è, rispetto a quanto già detto, anche un gioco in famiglia). Viene in soccorso, rispetto a questo parallelismo, Johan Huizinga che, in Homo ludens, scrive: «gioco è un’azione, o un’occupazione volontaria, compiuta entro certi limiti di tempo e di spazio, secondo una regola volontariamente assunta, e che tuttavia impegna in maniera assoluta, che ha un fine in se stessa; accompagnata da un senso di tensione e di gioia, e dalla coscienza di “essere diversi” dalla “vita ordinaria”». D'altronde è proprio questo “essere diversi” che avvera quanto sostenuto da Bataille, e cioè che solo il gioco ha «la virtù di condurre molto avanti l’esplorazione del possibile». Una delle tensioni costanti del cinema di Tsukamoto è proprio la libertà del divenire, l’esser altro dai confini del corpo.

Questa tensione, lungo tutta la prima parte della sua filmografia, si è espressa attraverso una rilettura in chiave cyberpunk dell’ero guro, fenomeno socio-culturale trasversale profondamente legato al processo di modernizzazione e di urbanizzazione che, a partire dagli anni 20, ha completamente stravolto il Giappone. Ero si riferisce alla componente erotica, che si declina come libertà di espressione sessuale e attenzione a tutto ciò che rientra nella sfera pulsionale; guro rimanda invece all’elemento grottesco, cioè al fascino esercitato dall’aberrazione, da tutto ciò che è considerato deviante, andando pertanto a collocarsi al di fuori della “normalità”.

Il momento di svolta rispetto alle sregolatezze degli esordi arriva con A Snake of June. Quello che, almeno nelle intenzioni iniziali, sarebbe dovuto essere un porno, diventa, in corso d’opera, un testo chiave sull’emancipazione dalle limitazioni sociali che reprimono la gioia e il godimento. Tsukamto, da qui in poi, comincia a invertire forze e vettori: dalle esplosioni centrifughe dei suoi primi film passa progressivamente a immersioni centripete; dal totale disinteresse per la psicologia dei personaggi, pensiamo soprattutto al primo Tetsuo, arriva a compiere, come accade in Vital, esami autoptici dell’anima nel tentativo di trovare l’origine del soffio vitale. Uno scavo che si spinge ben oltre le visceralità del corpo e che da Kotoko in poi si immerge nell’esplorazione dell’allucinazione. Un’allucinazione vissuta tanto dai protagonisti delle opere quanto esperita dagli spettatori che vengono aggrediti da film che si configurano sempre più come un’esperienza sensoriale che percuote il nervo ottico e, soprattutto, martella i timpani.

Autore: Matteo Marelli
Pubblicato il 19/09/2018

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