Sulla mia pelle

di Alessio Cremonini

Il caso Cucchi: tra verità, realtà ed impegno civile

Sulla mia pelle recensione film Netflix venezia

"In che cosa consiste fondamentalmente un modo civilizzato di comportarsi? Consiste nel ridurre la violenza. E’ questa la funzione principale della civilizzazione ed è questo lo scopo dei nostri tentativi di migliorare il livello di civiltà delle nostre società” – Karl Popper

Come si arriva ad un’immagine? L’opinione pubblica di Stefano Cucchi conosce perlopiù un volto, livido, freddo, l'immagine finale di un'intensa sofferenza. Sul tavolo autoptico è disteso Stefano e sul volto ha gli ematomi di un delitto di Stato. Tremenda immagine. Immagine che si definisce come un colpo all’immaginario collettivo, è l’immagine dell’ingiustizia, l’immagine della sconfitta, l’immagine del dolore, l’immagine della lividezza e della morte. E’ l’immagine che perseguita le cattive coscienze, che non fa dormire la notte, è il simbolo di un’inciviltà che macchia lo spirito liberale e legalitario di un Paese. Sulla mia pelle di Alessio Cremonini è un film che vuole ricostruire quell’immagine, ampliandone la verità, raccontando la genesi di una fotografia che nel suo silenzio urla, alla collettività, il terrore dell’insicurezza. Un’immagine senza verità, senza giustizia, simbolica e folgorante come l'iconografia di una crocifissione, come le plasticità delle fustigazioni, come il colpo di lancia, come la ritrattistica della sofferenza, come la lenta agonia della croce. Che differenza ci sarebbe se la passione l’avesse vissuta Barabba? Sarebbe stata comunque una tortura all’umanità, ma non si sarebbe potuta generare l’immagine della fede, l’immagine del sacrificio e del dolore. Stefano non era un santo, e nel voler definire l’onestà della verità, attraverso la ricostruzione degli atti (Borghi:”volevamo trasformare in carne gli atti processuali...”), questo film non tenta di mistificarlo, non vuole beatificare attraverso i sette giorni di martirio, Stefano, ex tossico e, per le quantità di hashish e cocaina rinvenute in casa, spacciatore. Non è il peccato ma il dolore, non la colpa ma il potere coercitivo e violento ad essere sotto il pubblico giudizio. E’ in questo che l’intensa, e necessaria, fedeltà scarnifica lo sguardo cinematografico, è nell’esercizio della trasparenza autoriale, nella scrittura contenuta, che la verità s’innalza dalla realtà; è nel rigore della ricostruzione e dell’interpretazione autoriale che il film si determina come una contraddizione (Popper, docet) al dogma dello Stato civile e garante della sicurezza, organismo a tutela i diritti dei cittadini. E’ sulla pelle del peccatore, stritolato dall’abbraccio del garante, che si arriva a quell'immagine pubblica, altresì è attraverso la volontà di un linguaggio cinematografico asciutto che si sintetizza e unisce, nel film, l’etica del documentario civile al rigore del film d’inchiesta.

Scena 1

La verità è sulla mia pelle, nei calci presi a terra, nelle cingiate, negli insulti, nella rabbia esplosa in una notte, nella furia del potere. E’ attraverso il corpo di un Alessandro Borghi, sempre in procinto di disintegrarsi e di morire, in un’interpretazione orizzontale rivissuta nel dolore del letto, o nella verticalità infranta dal dolore del camminamento, in quell'essere trascinato nei corridoi di una questura, di un tribunale, di un penitenziario: è attraverso questo tramite epidermico che la verità giudiziaria lascia il segno sull'opinione collettiva. Prendendo a riferimento l’arte pittorica, l’immagine di Stefano è equiparabile, oggi, al Cristo di Mantegna, una figura sdraiata sul letto di morte, lontana dalla metafisica, un corpo non beatificato che riporta su di sé i segni della vittima. Un film che tende verso la verità di un’immagine, coagulandosi nella definizione di una plasticità vessatoria; ed è attraverso il vuoto di una soggettività forte, cardine di qualunque punto di vista autoriale, che si stratifica il film-inchiesta.

Quand’è che possiamo definire qualcosa reale? E quand’è che quella realtà si inchina alla soggettività dell’enunciatore? Quand’è che alla realtà viene meno la verità? Sicuramente non quando l’enunciazione è tradotta dall’atto formalizzato di un resoconto giudiziario, ed è in questa esigenza che l’enunciatore si mimetizza, lasciando alla verità lo spazio di esistere. E se questo spazio è omesso dall'atto, ma ben visibile alla (s)vista del pm e del giudice, non dovrà essere (giustamente) considerato nel profilmico, come i lividi delle percosse ma non le percosse stesse, rinchiuse dentro una stanza, non mostrate, caricate ed introdotte dal passo marziale nei geometrici corridoi di un commissariato. Un pieno non mostrato, un vuoto eucaristico, caricato dal pathos musicale che l’enunciatario (lo spettatore) subisce, e attraverso il quale, viene condotto verso la condanna di una violenza furiosa che non entra in conflitto con la finzione della ricostruzione, con il malsano voyeurismo mediatico, per arrestarsi di fronte ad una porta a cui non è consentito l’accesso alla replicata violenza.

Scena 2

Un film che nasce come esigenza di verità, che non domanda, che non si dimostra, un film che non si appoggia ad una considerazione arbitraria o poetica, ma che si struttura pienamente sull'oggettività di un fatto di cronaca. Un macigno di impegno civile attraverso il quale porsi delle domande, degli interrogativi induttivi, alla ricerca di una contraddizione, almeno di un contro-esempio, che mini la tesi della sicurezza del potere e dell’esecutivo statale. Sulla mia pelle corrode con la sua semplicità espositiva le difese dello Stato, aumentando l'idiosincrasia tra il cittadino e l'apparato burocratico, ed eludendo l’empatia dei protagonisti del sistema, stemperata nella ricorsività del mestiere e nell’indifferenza dell'attuazione di una procedura, ne esclude l’umanità e la morale.

Sulla mia pelle è un film più verista che reale, un film che clona più che ricostruire, un film che vuole essere ricostruzione fedele, verità giudizialmente riconosciuta, non gridata, glorificata, o mutuata dal febbrile bisogno di giustizia mediatica, ma un riscontro veritiero del fatto cronachistico, nudo e livido, che nasce dalla parola giustizia, ma che vuole giungere, soprattutto, alla parola fine.

Autore: Giorgio Sedona
Pubblicato il 16/09/2018

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