Gemini

di Shin'ya Tsukamoto

Di epica e di topi

Gemini - recensione film tsukamoto

La ricerca dell’identità comincia dal fondo: per questo Gemini di Tsukamoto si apre con una sinfonia di epica e di topi. Comincia dal basso-fondo che ammutolisce l’altisonante, decompone il componimento, distorce la coralità in sonorità allucinate, disseziona il sublime in immagine subliminale che spezza i titoli, perché cova alle loro spalle, alle spalle del retaggio nobiliare, della paranoia perbenista, alle spalle del film: perché quando il titolo compare nella simmetria dei kanji “Sōseiji”, sappiamo già che cela una spaccatura, che Gemini è già dualità; e doppiezza.

Di una fitta lista di film sul tema, è bene citarne zero, per sfuggire sia alla seduzione del collezionismo di gemelli che alla psicologia dei disturbi dissociativi dell’identità, non perché non siano due cose opportune e affascinanti, ma perché implicano una percentuale di dimenticanza, e a quel punto il gioco si fa troppo parziale, tanto più se la nostra protagonista femminile soffre di amnesia; più ancora se in realtà sta simulando. Ci aveva già avvisati il lynchiano uomo con la telecamera: il cinema non concede amnesia e in qualche modo farà emergere la sua immagine-azione più vera del reale. Bisogna solo toccare il fondo.

Tsukamoto muove da un racconto di Edogawa Rampo:
«una storia molto breve in cui non accade abbastanza per farne un intero film, così ho scritto una trama basata su di essa. (...) Il gemello più giovane uccide quello nato dopo, assume la sua identità e sposa sua moglie. È un buon materiale, ma non basta. Allora gli ho fatto gettare il gemello in un pozzo, così che le cose potessero cominciare ad accadere..[1]
In quel plongèe da incubo due fratelli gemelli si rispecchiano e si respingono, si rinnegano con reciproco disprezzo che da distanza sociale diventa siderale (anche se, diversamente dalla traduzione Gemini, nell’originale non c’è riferimento alla costellazione), la differenza di classe diventa inscritta nel fato, nella forma serpentina di una voglia destinata a replicarsi, non solo per un percorso che confonde redenzione e dannazione, ma perché è un teatro nel cinema quello che Tsukamoto inscena, un movimento di corpi, una brutalità di animi, degli Amleto da kabuki finalmente zitti, orfani di monologhi, a pantomimare il determinismo delle loro esistenze con il benestare del taciturno estremo oriente. Nel cui cuore, però, emergono versi laceranti, affiorano danze di fuoco, si prolungano attese di un amore diviso e negato, tutta l’esistenza è rossa o blu: incendiaria o cianotica, ribelle o irreggimentata. Perché il teatro più ampio è quello della guerra. Yukio è tornato dal fronte, in un primo Novecento ibrido e astratto fra abiti tradizionali, incursioni di stile occidentale e montagne di stracci; medico decorato, ha conosciuto qualcosa che somiglia all’orrore, ma non a piene mani, non ancora, in quella grande amnesia della civiltà che è la guerra. Destinata a finire, dunque a tornare, e a tornare alla memoria come spettro infinito. Così appare il gemello Sutekichi, come demone e fantasma in un interno immemore, con una sposa immemore; iniettato di sangue, per uccidere, per vendicare violenza con violenza come l’Izo di Takashi Miike (Miike che di Gemini girò il breve making of Tsukamoto Shin’ya ga Ranpo suru).

Siamo in era Meiji, il Giappone si apre progressivamente all’Occidente, si imperializza, si capitalizza mentre scavalca il secolo; ma nel presente del film, è il 1999 che sta per oltrepassarne un secolo e un millennio: il bug è il medesimo, quello della metamorfosi che innesca la macchina (come già in Tetsuo), che da uno stralcio di revenge movie diventa storia di de-formazione dell’identità attraverso il suo opposto, perché tutto è diviso e si riconosce negandosi. L’horror tsukamotiano è dissonanza e dissidenza, è riprendere un interno in un totale classico “altezza tatami”, ma poi scavalcare disinvoltamente il campo per dispetto a Ozu, è irruzione sonora, sensazione corporea, quadro obliquo, visioni forti in procinto di frantumarsi, immagini di cristallo, per dirlo con Kawabata. A questo proposito, è una strizzata d’occhio significativa che fra i pugni di un Tokyo Fist appaia l’Orson Welles di Il terzo uomo mentre ci ricorda che «in Italia sotto i Borgia, per trent'anni hanno avuto guerre, terrore, assassinii, massacri: e hanno prodotto Michelangelo, Leonardo da Vinci e il Rinascimento. In Svizzera, hanno avuto amore fraterno, cinquecento anni di pace e democrazia, e cos'hanno prodotto? Gli orologi a cucù».

Ebbene, è chiaro che Tsukamoto non faccia orologi a cucù. Ma che in tutto questo trovi posto una donna innamorata che accenna passi di ballo quando il suo amore diviso e gemellare riappare all’orizzonte, fa sorridere anche nel dramma del non sapere più chi si ama fra due opposti identici. L’accensione di uno spazio poetico e ironico in un materiale fra l’algido e il rovente, fra il classico e il contemporaneo, il paradigmatico e il sospeso, è l’ennesimo respiro di libertà registica che anima uno spazio allucinato in un improvviso, semplice realismo.

Gemini è un gioco alla riscrittura delle regole di (più di) un genere, è un’agnizione rovesciata, distinta da un nome e da un segno di riconoscimento. Occultarlo è solo il modo migliore per farlo riemergere, nella sua forma peggiore. Del resto, l’Edogawa Rampo che lo ispira è a una volta un nascondiglio ironico dell’orrore: provando a pronunciare il suo nome di seguito, viene fuori qualcosa che suona come “Edgar Allan Poe”. Voluto, naturalmente.

[1] Cfr. Francesca Bressan, Umano e Subumano, Il conflitto tra l'io socialmente represso e il suo alterego in Sōseiji di Tsukamoto Shin'ya, 2017, www.unive.it, traduzione della scrivente.

 

Autore: Alessia Astorri
Pubblicato il 04/10/2018
Giappone 1999
Durata: 83 minuti

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