Vox Lux
Il secondo film di Brady Corbet è un'opera ambiziosa e titanica, gettata verso il cuore di un’Apocalisse dolorosamente pop.
A cavallo fra due secoli, sul crinale teso che separa i millenni, si spalanca Vox Lux in tutto il suo febbrile, incandescente ardore. Brady Corbet realizza un film ambizioso, quasi titanico nel raccontare i nostri giorni e questi ultimi vent’anni. Vox Lux guarda al ventesimo secolo come l’età del male, marchiata dal dolore e dalla sofferenza; guarda al ventunesimo come l’epoca del transfert digitale, l’era post-traumatica e post-reale, sciolta nell’egotismo sfrenato di una lunga elaborazione del lutto. Un’elaborazione tutta pubblica, da palcoscenico, infinitamente riproducibile: il dolore di Celeste, protagonista del film, è il dolore del mondo.
Il presente di Corbet è attraversato da un processo di metabolizzazione digitale, da un narcisismo 2.0, da una compressione anestetica: in un corpo solo, come in un enorme file zippato, tutto l’orrore di questi anni senza luce. Ogni cosa si condensa nella patina del virtuale, tra retaggi perversi del giornalismo e simulacri di nuove, conturbanti icone mondiali.
Come Olivier Assayas in Double Vies, anche Corbet filma il digitale con la pellicola, contrappone all’immaterialità del presente la grana del cinema che fu. Usa il supporto del film per farlo implodere verso un’astrazione totale. Il corpo che mette in scena è quello di Celeste, la popstar nata dalle macerie del reale. Il film parte dall’anno della fine del mondo: 1999, una strage scolastica che riporta subito alla mente quella di Columbine. Fra quei cadaveri - filmati con una pasta visionaria che ricorda da vicino il Sion Sono di Suicide Club - c’è Celeste, morta per un istante e poi tornata in vita. Si dice che – fra un mondo e l’altro - abbia stretto un patto col diavolo: comincia con una morta vivente la favola faustiana di Brady Corbet. Vox Lux reinventa la cronaca con indicibile potenza realizzando una mitologia elettrica e conturbante. Pop, inevitabilmente pop. L’obiettivo per Faust era la conoscenza, per Celeste – e non potrebbe essere altrimenti – il successo mondiale (e oltre).
Nell’ascesa di una popstar, la perdita d’innocenza tanto somiglia a un lungo sogno, sempre in bilico tra incantesimo e follia. Celeste sembra un angelo caduto e addormentato, paladina di metropoli verticali e abissi mediatici. Attenzione, a questo punto, all’architettura che guadagna un posto di primo piano nel film, edificando le sue torri di Babele che sfidano il cielo. Se la città è una moderna Babilonia, Celeste è - biblicamente - la donna che cavalca la bestia in un’Apocalisse visionaria, in un coloratissimo, dolente requiem del reale. Vette siderali, grattacieli che somigliano ad alberi maestri, nuove configurazioni di un potere sempre più ora e ovunque. La violenza del presente, gli episodi di cronaca più brutali di quest’ultimo ventennio, sembrano essersi incarnati sui nostri schermi. E quest’incarnazione è Celeste, la donna tra la terra e il cielo, in salita vorticosa ( o in caduta libera) verso il cuore pop dell’Apocalisse.
Non a caso, il primo atto del film è la Genesi: la nascita del male, il suo albergare la storia, la sua progressiva privazione di bene. Tutto raccontato dalla voce fuoricampo - quella magnetica di Willem Dafoe - di un narratore da un altro mondo. Forse un uomo del futuro che ricorda – sardonico e distaccato – un mondo in continua, inarrestabile trasformazione. Celeste cresce e diventa Natalie Portman (nella performance più impressionante della sua carriera) ed è come se - in questa ellissi - tutto sia cambiato. Celeste è perennemente sull’orlo di una crisi di nervi, come posseduta da un demone che scalcia sotto la pelle, tormentata da una spina nel fianco impossibile da estirpare. La sua immagine virale contamina il mondo intero nel delirio di schermi, colori, costumi e fanboy. Celeste diventa un simbolo, idolo mediatico che porge l’altra faccia di Dio. Se l’ansia è diventata la condizione esistenziale dei nostri tempi, Celeste ne è la mostruosa incarnazione: respinge e mortifica gli affetti (emblematico il rapporto con la sorella), lancia strali infuocati nei confronti di tutto e tutti. Soffre nella vita quotidiana e cerca conforto nelle pozioni magiche, nei sieri del presente. Si libera poi sul palco, lasciandosi andare al furore dionisiaco di un concerto alla fine del mondo. La performance conclusiva - in tutto il suo esaltante disequilibrio strutturale - sembra un sabba di proporzioni mondiali: il pensiero oscuro sotteso per tutto il film, quello di un enorme sortilegio propagato attraverso le immagini – veri e propri agenti endemici – trova qui la sua radicale rappresentazione.
Vox Lux precipita indemoniato nell’estasi febbrile del Nuovo Mondo, sprigionato dall'incantesimo collettivo. L'intera umanità dietro a uno schermo-velo, in un'ipnosi senza fine, col ritornello cantato all’unisono, retaggio dei mantra e delle canzoni sacre del passato. Corbet intercetta nella popstar la strega moderna e il nuovo messia; nel farlo ci regala un’opera che sfida continuamente qualsiasi limite, qualsiasi barriera, senza paura. Anche per questo Vox Lux è un capolavoro esplosivo che crede nel corpo - e nella sua immagine - come entità in continua mutazione. Il film è un susseguirsi instancabile di invenzioni visive e sperimentali, abitato da forze eterogenee che si scontrano fra di loro, dimentiche di qualsiasi stasi, di qualsiasi comfort. Le immagini danzano, si scontrano, si accoppiano, deflagrano improvvise, corteggiano il delirio accarezzandone i confini. Il vero horror è tutto qui, nella volontà di potenza di un’immagine che lancia i suoi dardi in fiamme contro Dio e contro qualsiasi norma o disciplina, verso uno spirito sempre più indecifrabile.
Celeste abita questa rivalità, facendosi regina di un nuovo mondo, iperbolico e seducente, dove trionfano le forme indefinite. Il terrorismo rimbalza di schermo in schermo, inietta il siero nella rete lanciando le sue metastasi mondiali, i suoi inni di gioia, il suo famelico terrore. A metà strada fra l’incubo e l'incanto, fra la paura e il desiderio, verso l'immortalità.