The X-Files - Undicesima stagione

di Emanuele Di Nicola
the x files

Tornare. Un’operazione non facile, soprattutto nel contemporaneo, nella costellazione audiovisiva di oggi. Tra gemmazione della serialità e cambiamenti a velocità ipercinetica, un solo ritorno si è imposto come capolavoro: Twin Peaks – The Return di David Lynch che però, in antifrasi col titolo, non è certo una riproposizione ma viene imperniato su una costruzione concettuale totalmente nuova. Il contrario di ciò che avviene per The X-Files, la serie creata da Chris Carter nel 1993 che proprio verso Twin Peaks fu fortemente debitrice: in particolare all’ipotesi ufologica insinuata nella seconda stagione lynchiana, andata in onda nel 1991, di cui Chris Carter riprese il motivo due anni dopo, attraverso l’invenzione degli agenti Mulder e Scully di David Duchovny e Gillian Anderson, e lo espanse in modo tentacolare fino a renderlo scheletro di una serie.

Il ritorno di The X-Files si inserisce nel solco della tradizione. A partire dalla decima stagione, trasmessa nel 2016 in soli sei episodi, Carter e gli autori confermano la formula che la rese cult negli anni ’90: da una parte gli episodi mitologici, ovvero quelli che seguono la trama principale della cospirazione aliena, dall’altra il monster of the week (motw), ovvero le storie autoconclusive in cui gli agenti affrontano il caso del giorno, il mistero paranormale che la loro sezione puntualmente produce.

Alla divisione rigorosa, nelle ultime annate, si aggiunge la peculiarità dell’episodio “semi-mitologico”: un case file apparentemente autosufficiente, che poi però si rivela intrecciato alla storyline principale, come avviene qui per l’episodio 11x05, Ghouli. Tutto questo in puntate da 44 minuti, aperte dal teaser prima della storica sigla che si conclude con la nota tagline (The truth is out there), che cambia di volta in volta a seconda del carattere della storia. Insomma: tutto come sempre. Come se il tempo non fosse passato, dal 1993 e anche dall’agosto del 2002, quando la nona stagione si concludeva con il doppio episodio The Truth, pensato per chiudere la serie. Poi fu inutilmente resuscitata dal secondo film, X-Files – Voglio crederci del 2008, che comunque non toccava la mitologia limitandosi a un monster of the week aumentato da affrontare per gli agenti. Ma la sostanza non cambia. Tornando all’oggi, dopo l’esperimento della decima “microstagione” la Fox ha confermato la serie per la l’undicesima, composta stavolta da dieci episodi.

Va detto subito: The X-Files è sempre stato per sua natura altalenante. Inevitabile per una serie nelle mani di molti registi e sceneggiatori, dal creatore Chris Carter a Frank Spotniz, da Vince Gilligan allo scomparso Kim Manners, da James Wong a Glen Morgan e Darin Morgan, solo per citarne alcuni. Nel corso del tempo alcuni di loro sono rimasti nella serialità, come Gilligan che ha ideato Breaking Bad, cult esattamente come lo fu X-Files, altri hanno azzardato incursioni al cinema più o meno felici, come James Wong autore del primo Final Destination. Se alcune stagioni vengono ricordate nella memoria dei fan per il livello elevato costante, ovvero la terza e quarta nell’arco temporale 1995-97, il risultato alterno è quindi nelle vene dello show. Va detto anche che la mitologia in sé non è intrinsecamente superiore agli stand-alone: se gli episodi mitologici hanno costruito la fama della serie, tirando il filo del grande complotto e del rapporto tra Mulder e Scully, i mostri non sono mai stati da meno, e anche loro infestano gli episodi più amati, dall’assassino mutaforma di Squeeze alla famiglia deforme di Home.

Nel 2018 The X-Files ci consegna una mitologia fallimentare. La quadrilogia My Struggle (primo e ultimo episodio della decima stagione, primo e ultimo della undicesima), tutta scritta e diretta da Chris Carter, è in assoluto l’anello più debole dell’intera operazione. Il racconto è imperniato su uno dei maggiori nodi irrisolti della serie: la ricerca del figlio perduto di Scully, William (Miles Robbins), ibrido tra DNA umano e alieno, il cui destino si intreccia al virus di origine extraterrestre in procinto di essere diffuso da L’uomo che fuma (William B. Davis), il sommo villain fumatore e archetipo dell’uomo nell’ombra, con l’obiettivo di “ripulire” l’umanità e permettere l’avvento dei colonizzatori. Ma non vale troppo la pena di soffermarsi sulla catena degli eventi: la mitologia di Carter è ormai usurata, supplemento del tempo che fu, che suona pleonastico nella successione meccanica di colpi di scena che non possono più stupire. Poco importa, in questo innesto, dei cospiratori e dei personaggi storici, perfino del tema della maternità e paternità che avvolge gli agenti: tutto arriva anestetizzato perché già fatto, visto e detto, tanto che i rovesciamenti si ripetono ma – a ben guardare – scrutando nel passato della serie sono sempre gli stessi (doppi giochi, morti, gravidanze). Nel prevedere una coda a un decennio di mitologia, troppo intricata e sfuggita di mano, Carter ha concepito la storia per attirare i vecchi fan, restituendo la chiara impressione che non ci creda più neanche lui. Lo conferma chiaramente l’approccio stilistico: vengono rovesciate le atmosfere stagnanti e strategiche della “vecchia” mitologia, in cui accadeva poco ma interi episodi venivano usati per costruire una sensazione, un umore complottista e paranoico molto superiore ai fatti concreti. Qui al contrario gli eventi sono veloci, si succedono automatici, in una girandola di sparatorie e inseguimenti, smentendo così la sostanza della serie e preferendo il freddo meccanismo all’evocazione di un’idea.

Uscendo dalla continuità verticale, però, si trova il senso di questa season eleven. La stagione viene illuminata dagli episodi più coraggiosi e sperimentali. Il migliore è l’11x04, The Lost Art of Forehead Sweat di Darin Morgan, provocatore e sabotatore del congegno, sempre in bilico tra il racconto di una storia e la riflessione su di essa, ostinatamente “meta”, tra profonda ironia e affetto per i personaggi e l’universo inscenato. Morgan è tra i più geniali scrittori della serialità, come già ribadito nell’episodio della decima stagione Mulder and Scully Meet the Were-Monster.

Stavolta la trovata si basa su una peculiare ipotesi alternativa: secondo l’effetto Mandela, ovvero la teoria dei ricordi sbagliati che sarebbe in realtà oblio provocato dal governo, negli anni Mulder e Scully non hanno lavorato da soli bensì con l’agente Reggie Something (Reggie e qualcosa), vittime di una congiura orchestrata da Loro (They), qui incarnati da un vero e proprio Doctor They. Così, nell’happening demenziale dell’episodio, si riflette sul senso stesso della serie e sulla possibilità di un universo parallelo; e così Morgan può inserire spiazzanti innesti digitali, che rivisitano la storia di The X-Files in funzione del fantomatico terzo agente, riscrivendo perfino una sigla fake che prevede il terzo tesserino dell’Fbi. Oltre a poggiare sulla forza della sua invenzione, la puntata è un sentito omaggio a se stessi ripassando ciò che è stato, nella consapevolezza che non sarà più, e per questo funziona come teorico episodio finale della serie. Nell’innesto digitale di Morgan, che con Reggie cambia le scene già viste dandogli nuovo senso, si ritrova addirittura Twin Peaks - The Return Part 17: quando Lynch “cancella” proprio in digitale il cadavere di Laura Palmer visto nell’episodio pilota, in un uso finora inedito del mezzo e insieme un’esaltazione delle potenzialità dell’immagine.

Il piccolo capolavoro di Darin Morgan fa il paio con l’episodio 11x07 dal titolo Rm9sbG93ZXJz, diretto da Glen Morgan e scritto da Shannon Hamblin e Kristen Cloke. Qui Mulder e Scully sono preda delle nuovissime tecnologie: vogliono una semplice cena di sushi ma finiscono ostaggio di oggetti materiali, dal cellulare alla robotica, in un incubo comico simbolicamente silenzioso (i due non parlano) che si fa metafora della spersonalizzazione dell’oggi. Non a caso il titolo significa “followers” in codice Base64, chiaro riferimento ai social network, con un avvitamento dickiano dove gli oggetti si animano e pretendono la loro parte. Se l’altro episodio rifletteva sull’interiorità della serie, questo si confronta col mondo fuori, con l’intorno del contemporaneo: sfida Black Mirror, la deriva della tecnologia, il tema delle serie di oggi. Per questo formano un ideale dittico: in entrambi i casi spargono un onesto senso di inadeguatezza e la consapevolezza della fine di un’era.

Il pensiero del tempo che passa percorre tutta la stagione. In prima battuta nei corpi degli attori che sono maturati e invecchiati, come autoevidente nelle scene, ma anche nel comportamento dei loro personaggi che questo trascorso lo sottolineano, lo ricordano bene, ora in momenti struggenti ora in squarci ironici, come Mulder che “deturpa” il suo look perché costretto a mettersi gli occhiali. La serie sa di avere fatto il suo tempo, dunque, malgrado il tentativo di riproporre i semplici episodi con i mostri, vedi i bambini uccisi di Familiar (con citazione grafica a Saw - L’enigmista) oppure Nothing Lasts Forever, titolo emblematico su un’anziana attrice che si mantiene giovane divorando i suoi adepti. Ecco, The X-Files è consapevole che questo non è possibile: preferisce omaggiare i personaggi, dagli agenti al vice direttore Skinner, e “salutare” gli spettatori con un (probabile) addio controverso che sa di testamento, malgrado l’ennesimo e spudorato cliffhanger negli ultimi fotogrammi. Ma, d’altronde, quando si riflette così apertamente su se stessi dietro l’angolo c’è sempre la fine.

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C'era una volta la terra

di Paolo Di Marcelli
cera una volta la terra recensione

Lo spunto per raccontare il Molise di Francesco Jovine, come sineddoche di tutto il Sud Italia, è tanto semplice quanto inaspettatamente interessante: l’arretratezza in ogni campo, la figura centrale del contadino, le feste patronali, le disastrose conseguenze (dimenticate dalle Stato) di alluvioni e terremoti, i fenomeni migratori di inizio secolo e quelli contemporanei, sono presentati da Ilaria Jovine, nipote del giornalista e scrittore, e da Roberto Mariotti a partire e attraverso il protagonismo assoluto della terra, eterna compagna, figlia e madre di un popolo stanco ma tutt’altro che rassegnato.

Jovine dedicò alla vita rurale della sua regione numerosi articoli e reportage tra il 1940 e il 1950 ed è proprio da questi scritti che i due registi estrapolano le parole recitate da Neri Marcorè, voce narrante di C’era una volta la terra. Chi è alla ricerca di materiali inediti che raccontino la fenomenologia delle piccole comunità meridionali rimarrà deluso: le riprese fanno da sfondo al testo aggiungendo poco o nulla al nostro immaginario. La Jovine e Mariotti, più che altro, puntano alla completezza e all’esaustività della diegesi di ciò che ci aspettiamo di vedere e sentire in quelle zone, cominciando con la memoria di un universo che prima e dopo la seconda mondiale era lontano dalla Storia e che adesso, se non fosse per una presenza straniera destinata a godere dell’ospitalità tipica dei piccoli centri, sembra perpetrare il ruolo di comparsa nello scenario italiano.

Siamo di fronte a un documentario che mette in relazione la poesia e il mistero della germinazione e dei campi da coltivare come fonte primaria di sostentamento con i punti cardinali del Novecento quali il Comunismo, la lotta di classe, l’ingerenza dello stato nell’economia contadina, i residui mitici e animisti della cultura popolare e infine i flussi migratori, che negli anni in cui scriveva Jovine partivano alla volta dell’America e che oggi riempiono le cronache e la disinformazione. I paesini e i paesaggi molisani al centro delle sequenze diventano così non solo una metafora di tutto il meridione, ma anche e soprattutto dell’anima e del corpo dell’essere umano inteso nella sua forma più primitiva, anarchica, antieconomica e in simbiosi con la natura e suoi ritmi immutabili. In questo senso, l’uomo al centro della riflessione sembra essere addirittura quello precedente alla rivoluzione industriale, e quindi prima ancora dei concetti stessi di denaro e salario. Il pericolo di incorrere nella nostalgia o di idealizzare il passato viene però, sin da subito, scongiurato dal tono fiabesco delle parole dello scrittore, coadiuvate da un altrettanto suggestiva colonna sonora originale di Giuseppe Moffa e quindi dalla considerazione (speranza?) che i vincoli e gli echi lontani di un mondo in continua evoluzione difficilmente potranno sostituire le radici profonde di tradizioni millenarie.

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Italia 2018
Regia: Ilaria Jovine , Roberto Mariotti
Durata: 80 minuti



The Terror

di Domenico Saracino
the terror recensione

Non si può che provare una strana fascinazione, inconscia ma reale, sadica eppure fisiologica, esteticamente determinata, mentre si osservano, a distanza di sicurezza, dal proprio divano, le terrificanti disavventure in cui si cacciarono gli equipaggi delle due navi inglesi di metà Ottocento, partite alla volta dell’Artico per completare l’esplorazione del noto passaggio a nord-ovest, che stanno al centro di The Terror, ultima, ambiziosissima, serie televisiva, tra dramma storico, avventura e horror, di AMC.

C’è una tale sproporzione, una così evidente disparità di grandezze e potenze, tra l’indomabile natura delle terre del ghiaccio e le piccole tracotanze umane, così tanto azzardo e orrore nella presunzione di poter governare l’ingovernabile, che ci si ritrova, senza neanche accorgersene, al cospetto del sublime, come dinanzi ad un quadro di Friedrich, con tutte le conseguenze, in termini di godimento estetico, che questo comporta.

In cosa differisce, difatti, il mare di ghiaccio su cui vagano marinai, soldati e ufficiali dopo che le loro case-vascello si sono arenate nelle acque solidificate, da quello che dà il titolo ad un celebre dipinto del pittore romantico tedesco, in cui un relitto si inabissa tra lastre gelate e aguzze, che paiono placche di pietra, marmo tombale? Non che questo debba sorprenderci, se già in pieno Illuminismo, in epoca pre-romantica, Burke aveva inteso che è sublime "tutto ciò che può destare idee di dolore e di pericolo, ossia tutto ciò che è in un certo senso terribile o che riguarda oggetti terribili, o che agisce in modo analogo al terrore".

Alla base dell’attrazione che induce lo spettatore, puntata dopo puntata, a portare a termine, con progressivo appagamento, la visione di The Terror, c’è proprio il piacere di contemplare, in tutta la sua maestosità – merito anche di un production design impressionante, imponente e dettagliatissimo – la vastità e la potenza selvaggia di un luogo refrattario alla vita e allo sguardo dell’uomo. Un luogo che ci vuole morti, orrorifico e per questo eccitante, misterioso e impenetrabile. Sconfinato fino a perdita d’occhi e di energie, crudele, come il deserto, come l’oceano, come il cielo.

Con il monotono reiterarsi di mille sfumature di bianco e di neve, di stagioni che a quelle latitudini sono, alla prova dei fatti, nient’altro che un unico, grande, infinito inverno, di giorni e mesi tutti uguali che fanno del tempo un unico ammasso indistinto simile all’eternità, il polo nord è terra di mistero inespugnabile che l’uomo cerca, ciononostante o forse proprio per questo, di penetrare. A costo di dissolversi nel nulla.

Non siamo poi così distanti dalla giungla della città perduta di Z, dove un altro autore, questa volta cinematografico, James Gray, lascia scomparire altri esploratori britannici realmente esistiti (Percy Fawcett e il suo figlio maggiore), dal deserto di Jauja di Lisandro Alonso, dall’isola di Lost.

Territori ostili, faticosi, circolari. Sfuggenti e sfiancanti, orientati allo smarrimento, spazi di verifica dei limiti umani in cui riconoscere i confini della ragione, dell’azione, della volontà, per abbandonarsi all’idea della possibilità del sovrannaturale, del sovrasensibile, del disfacimento della corporeità, della dissezione e dissoluzione. Tuunbaq, la creatura assetata di sangue che insegue gli esploratori artici di The Terror per smembrarli senza pietà, ripresa dal romanzo di Dan Simmons su cui la serie si basa, è la nemesi che funesta la cieca ambizione di chi osa deflorare la natura lì dove è più immacolata e integra, più resistente alle irriverenti indagini e invasioni antropiche. È il parto atroce di un organismo molestato, abusato, e al contempo la proiezione delle peggiori paure di menti debilitate dalla fame, dall’ipotermia, dalle malattie, dal sospetto reciproco, dall’avvelenamento da piombo (come certificato dalle ricostruzioni scientifiche degli ultimi decenni).

Le terre impervie del sublime sono mondi sospesi e ideali dove il reale può mescolarsi all’irreale, dove sogni, mostri e allucinazioni possono finalmente baluginare, materializzarsi e compenetrare l’uomo fino a ristabilire un’ambigua compresenza che è materia dall’eccezione potenziale immaginifico. È lì che The Terror intende portarci.

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Here and Now

di Irene De Togni
here and now serie tv recensione

Here and Now è il ritornello con cui Greg Boatwright, insegnante di filosofia e padre di famiglia, ci invita allo sforzo quasi-epicureo di soffermarci sul momento presente, lasciando fuori dal campo visivo i fantasmi del passato e le aspettative per il futuro. Ed è, allo stesso tempo, la dichiarazione di intenti del nuovo dramma familiare di Alan Ball, che torna al canale cable HBO con uno show che sembra quasi smaniare dalla voglia di dire la sua sull’attualità dell’America post-Trump, e di inserirsi in quella sempre più larga ondata di prodotti a tematica “minoritaria” nati in risposta ai recenti sviluppi del clima politico statunitense. L’assunto di base somiglia, infatti, a quello di molte altre serie di questo tipo (prendiamo, ad esempio, Dear White People, One Mississippi o l’ultima stagione di American Horror Story, con cui condivide anche l’elemento di finzione speculativa), vale a dire un presente percepito e ripensato come fortemente distopico. Come spiega alla figlia in uno degli episodi centrali della stagione, il solo «here and now» che Greg riesce a vedere è subordinato ad una fase di down storico in piena crisi politica, sociale, ambientale e in attesa del riassestamento.

Tuttavia, se la vera distopia è il momento storico in cui viviamo, quella che i Boatwright creano ha invece tutta l’aria di porsi come un siparietto utopico, sottratto al mondo esterno, in cui regnano comprensione e rispetto reciproci. La famiglia protagonista è, probabilmente, la più diversificata mai vista in televisione: una figlia naturale dei due genitori statunitensi e tre figli adottivi: Ashley, liberiana sposata con una figlia; Duc, vietnamita con una difficile relazione con il sesso e Ramon, colombiano omosessuale con disturbi psichici. La famiglia viene presentata come una sorta di grande esperimento (allegoria del grande esperimento multiculturale che è l’America) di convivenza di persone di diversa estrazione, genere e orientamento sessuale. A tutto questo si aggiunge un altro nucleo di personaggi quasi indipendente (e che avrebbe forse meritato uno show a parte), quello di una famiglia islamica che offre l’occasione di parlare di un’altra serie di temi come il fondamentalismo religioso, il binomio islam queer o i vari modi in cui, da un punto di vista privato e quotidiano, si declina il complesso rapporto tra Islam e America.

Così costruito il racconto si sgretola già a partire dai primi episodi: i vari segmenti narrativi dei (troppi) protagonisti anziché armonizzarsi in un racconto corale prendono direzioni centrifughe e dispersive; la pluralità di temi e situazioni proposta non trova lo spazio sufficiente per essere affrontata in un modo che non risulti superficiale o frettoloso; la scrittura non si prende il tempo, in mezzo a tutto questo accumulo, di dedicarsi al lavoro di worldbuilding necessario a non far sembrare l’universo narrativo troppo costruito, artificiale o solo abbozzato. Il risultato è un accumulo di storie che sembrano più preoccupate di mostrarsi “diverse”, originali a tutti i costi, che di raccontare la diversità in modo più complesso e sfaccettato. La serie cade spesso vittima di una retorica “buoni vs cattivi” che, oltre ad essere irrealistica, è anche e soprattutto controproducente.

Il problema è, forse, che lo stesso Alan Ball, ansioso di dire la sua qui ed ora, dimentica l’esperienza accumulata nel passato con show di tutt’altro spessore e qualità come Six Feet Under e True Blood, e dimentica anche che, per poter pensare ad un futuro che non sia solo un’utopia unilaterale, sono necessari diversi sforzi di problematizzazione e reinterpretazione nell’analisi del presente. I conflitti, in Here and Now, sono invece appiattiti su un giusto/sbagliato che non lascia quasi nessun margine di evoluzione e che fa passare per ridondante e semplicistico anche il più buono e genuino dei propositi – come il desiderio di una felice compossibilità di diversi punti di vista e stili di vita. Bisognerebbe, in linea di principio, cercare di evitare di ridurre l’estetica sull’etica nell’avvicinarsi ad un prodotto artistico: non bastano, infatti, la voglia di dire qualcosa, i mezzi per farlo e un ottimo cast (Tim Robbins, Holly Hunter) a fare di un buon proposito un buon racconto. Specie di fronte ad un panorama contemporaneo così ricco di show ben riusciti dove, ad esempio, l’elemento speculativo anziché restare in retroscena si integra alla trama in modo essenziale (The Leftovers, The Handmaid’s Tale), o il racconto della psicosi legata all’omosessualità o più in generale alla “diversità” avviene in modo decisamente più potente ed articolato (American Crime Story: The Assassination of Gianni Versace), o ancora si sviluppa un discorso molto più organico e coerente sull’inclusività, anche nella rappresentazione televisiva, di nuovi punti di vista (Master of None o Jane the Virgin).

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L'isola dei cani

di Attilio Palmieri
l isola del cani recensione film

Perché ambientare in Giappone una storia che, in fondo, potrebbe avere luogo da qualsiasi parte? Perché un autore come Wes Anderson sceglie la terra nipponica per un racconto che parla di immigrazione, individualismo, riscoperta dell’infanzia e della fantasia, ambientalismo e solidarietà?

Rispondere che il Giappone è un luogo dall’immaginario unico e straordinariamente pulsante basterebbe a giustificare tale scelta. Tuttavia, probabilmente a partire proprio dall’amore sconfinato per una cultura totalmente altra rispetto a quella da cui proviene, il regista texano mette in piedi una riflessione che ha come protagonista proprio il territorio in cui ambienta il suo ultimo lungometraggio, e la sua enorme mole di cultura e tradizione. L’isola dei cani, anche per questo arrembaggio in Estremo oriente, si presenta come un film nient’affatto semplice, estremamente articolato e stratificato sia dal punto di vista formale che concettuale, ma anche paradossalmente definito da una limpidezza espressiva invidiabile.

Anzitutto, L’isola dei cani è un film in stop motion, ovvero integralmente realizzato con pupazzi animati attraverso la ripresa a passo uno, e doppiato da attori e attrici del calibro di Edward Norton, Bill Murray, Scarlett Johansson, Jeff Goldblum e Bryan Cranston. Si tratta del secondo lungometraggio girato dall’autore con questo tipo di tecnica dopo Fantastic Mr. Fox, che nel 2009 ripensò la consueta famiglia disfunzionale della poetica andersoniana attraverso un linguaggio animato capace di spalancare le porte dell’immaginazione del regista.

Con L’isola dei cani l’autore dei Tenenbaum vira in maniera piuttosto netta rispetto al passato, raccontando una storia fatta di esseri soli, randagi, in balia di un presente privo di appigli e costretti dunque a solidarizzare tra loro. Il film è ambientato una ventina d’anni nel futuro, in un Giappone in cui la moltiplicazione dei cani e la diffusione della febbre canina sono diventati una minaccia per molti abitanti (o almeno così vuole la propaganda politica). Il problema viene risolto brutalmente alla radice, deportando tutti i cani in un’isola/discarica, dando vita così a un’immensa e maleodorante colonia di quadrupedi abbandonati. Un giorno l’undicenne orfano Atari decide di andare a cercare il suo Spots, primo cane ad essere trasferito sull’isola, finendo per allearsi con un gruppo di randagi che lo accompagneranno alla ricerca del suo migliore amico.

Wes Anderson sceglie un futuro non ben precisato in cui proiettare sull’amato Giappone una serie di tendenze politiche attualmente in voga in Occidente, in modo particolare negli Stati Uniti. Nonostante possa sembrare un film fatto di tenerezza, animali sempre in grado di strappare sorrisi e un bambino alla ricerca del proprio cane, l’ultimo lungometraggio di Anderson è anche quello più politico della sua intera filmografia, quello in cui l’autore decide di collocare il racconto in un contesto in cui il controllo del potere e dei media crea diseguaglianze sociali ampissime, e in cui gli ultimi (diversamente rappresentati) tentano di ribaltare l’ordine costituito.

La città di Megasaki è governata dall’autoritario sindaco Kobayashi, che gestisce il potere a colpi di fake news e istiga la folla all’odio. Alla luce della presunta epidemia di febbre canina, la cui responsabilità viene attribuita alla moltiplicazione dei cani in città, il sindaco mette in piedi una strategia del terrore che per prima cosa soffia sul fuoco della paura diffondendo l’incubo del contagio, e poi procede con la deportazione di tutti i cani in una sorta di isola-discarica. Difficile non vedere nella figura di Kobayashi – il cui smisurato ego si riflette attraverso una messa in scena che cita Quarto potere – un rimando diretto a Donald Trump, e nelle sue azioni un eco delle politiche del Presidente degli Stati Uniti nei confronti degli immigrati provenienti dal Medio Oriente.

A un potere populista e avverso ad ogni forma di cultura e libero pensiero, capace di intercettare la frustrazione del mondo adulto, Wes Anderson contrappone lo spirito critico, la purezza e l’alterità di sguardo dei giovani e dei cani, i quali attraverso un graduale processo di conoscenza reciproca finiscono per fare squadra ribellandosi allo status quo. La tenerezza e l’autenticità del legame tra Atari e Spots (che vedono il loro momento apicale nella scena all’ospedale) fondono il piano politico con quello emotivo costituendo così la cifra principale del film: è infatti attraverso la percezione del reale affetto che c’è tra il cane e il suo padrone che tutti i randagi capiscono che c’è bisogno anche del loro contributo e si alleano per la missione comune, sviluppando così una sorta di coscienza politica.

L’isola dei cani è uno di quei film pensati anche per essere rivisti più volte, soprattutto per l’accumulo di segni, informazioni e riferimenti che compongono ogni sequenza. Il regista dimostra una padronanza assoluta della stop motion (ancor di più che in Fantastic Mr. Fox) realizzando composizioni nelle quali lo sguardo dello spettatore si perde con fare esplorativo e incantato. In certi casi viene quasi il desiderio di interrompere lo scorrimento della pellicola per assaporare ogni dettaglio della messa in quadro dell’autore e per poter leggere tutte le didascalie e i cartelli che di volta in volta compaiono. A questo proposito Anderson dimostra un affetto verso la terra e la cultura in cui decide di ambientare il film riprendendone fedelmente i simboli principali, a cominciare dalla lingua e dalla gestualità: tutti i personaggi giapponesi infatti parlano nella loro lingua e si comportano in maniera autenticamente nipponica. Per quanto così naturale da sembrare scontata, si tratta di una scelta nient’affatto banale, come dimostra all’inverso, ad esempio, Silence di Scorsese.

Con questo suo ultimo lungometraggio Wes Anderson ribadisce tutto ciò che di buono si è scritto su di lui, confermandosi uno degli autori più personali e riconoscibili della contemporaneità, ma al contempo dimostra di sapersi adattare alla perfezione a un contesto al quale non è affatto abituato. La sua fervida immaginazione divora il mondo che racconta e lo ricrea a propria immagine e somiglianza; è un dispositivo raffinatissimo che genera un universo quanto mai affascinante, intimamente andersoniano ma allo stesso tempo anche filologicamente fedele alla cultura che rappresenta e omaggia, con una miscela di citazioni (alcune delle quali comprensibili solo a uno spettatore giapponese) che vanno dal cinema di Kurosawa alle stampe di Hiroshige e Hokusai, ispirate al mondo di Kenzo Tange e portate alla vita in 240 set dal production designer Paul Harrod.

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A Beautiful Day - Intervista con Joaquin Phoenix

di Matteo Marescalco
A Beautiful Day - Intervista con Joaquin Phoenix

Giubbotto nero, maglietta, jeans ed immancabili Converse azzurre, Joaquin Phoenix è tornato a Roma per presentare A Beautiful Day – You Were Never Really Here, con cui ha vinto il Premio per la miglior interpretazione maschile all’ultima edizione del Festival di Cannes.

Nel film Phoenix interpreta il ruolo di Joe, ex marine la cui vita è tormentata dai fantasmi di un passato violento. Oggi si guadagna da vivere liberando delle giovani ragazze dalla schiavitù sessuale. Un giorno il veterano viene contattato da un senatore americano, la cui figlia è stata rapita da una di queste organizzazioni criminali. La richiesta di aiuto lo porterà a contatto con un giro di pedofilia e corruzione che coinvolge le sfere alte della società, una serie di eventi che cambieranno per sempre la sua vita.

Dopo averlo visto al cinema nei ruoli più disparati, incontrare Joaquin Phoenix di presenza non può lasciare indifferenti. Il gorgo profondo dei suoi occhi azzurri persi nel vuoto è in grado di redimere senza troppe difficoltà l’aspetto ormai da uomo di mezza età di uno dei più affascinanti e talentuosi attori della sua generazione. Se al talento si aggiungono le numerose difficoltà che la vita ed il destino hanno riservato all’interprete americano, si è consapevoli di trovarsi di fronte ad un uomo che ha vissuto decine e decine di esistenze. Che sia stato un patricida segnato da un’attrazione incestuosa nei confronti della sorella o un detective privato tra i fumi inebrianti degli anni ’70, il gestore di un locale notturno centro dei loschi traffici della mafia russa o un attore in preda ad una crisi di identità ed in procinto di abbandonare la propria carriera per abbracciare quella di artista di hip-hop, Phoenix ha dato vita a personaggi irrazionali e debordanti come pochi altri, affrontando le più oscure tenebre della notte. Ma, nonostante tutto, he’s still here.

«Per noi spettatori, è come se voi attori foste un po’ membri di famiglia. Siamo sempre abituati a vedervi sul grande schermo ed è come se vi conoscessimo, anche se si tratta, ovviamente, di un luogo comune. Per un attore, è inevitabile entrare a far parte dell’immaginario collettivo. In che modo vivi e gestisci questa scissione tra icona e persona? Quanto è faticoso essere un’immagine e, allo stesso tempo, un comune essere umano?»

«Quando lavoro, mi mantengo concentrato unicamente sul lavoro. La mia vita è totalmente dedita al mio lavoro in quel momento. Faccio tutto in sua funzione, è l’unica cosa a cui penso. Le persone con cui lavoro diventano automaticamente mie amiche. Al contrario, quando sono a casa, penso solo a stare a casa. Porto il cane fuori, gli do da mangiare, faccio le pulizie, mi immergo del tutto nella vita quotidiana. Adoro fare film, per me è qualcosa di davvero importante ma altrettanto lo sono la mia vita privata e le persone a me care. Credo sia necessario apprezzare ciò che si ha. A volte, credo che ci sia il pericolo di mettere il lavoro per primo e dimenticarsi del resto. Mi sembra che questo accada a molti grandi attori che iniziano a vedere la recitazione come una mera professione e niente più. Ho sempre paura che questo possa accadere anche a me. Per questo motivo cerco sempre di bilanciare le due anime, quella professionale e quella privata».

«A questo proposito, in che modo scegli i tuoi ruoli?»

«Non so, davvero. Credo sia un processo molto istintivo. Un po’ come quando ci si innamora. Hai presente quando non stai con nessuno in particolare ma ti immagini come possa essere stare con qualcuno? Riesci a immaginarlo? Poi incontri una persona e pensi: è proprio quella che cercavo! A volte questo sentimento è impossibile da comprendere, avviene tutto molto in fretta. Va così. Quando non sto girando e penso a cosa vorrei fare, si viene a creare questo desiderio. Così, quando ricevo una sceneggiatura, se è quella giusta e se c’è chimica, succede qualcosa e basta».

«C’è un ruolo, nello specifico, che ti piacerebbe interpretare in futuro?»

«Uhm, a dire il vero, non ho un ruolo dei sogni. Tra quelli che ho interpretato, tutti mi hanno colpito anche se in modo diverso. Di alcuni, però, ho ricordi molto più vividi. Credo per via dell’esperienza in sé. Ad esempio, girare con Philip Seymour Hoffman e Paul Thomas Anderson. Questo è stato uno dei momenti più significativi della mia carriera. Sono davvero molto legato a loro e non posso non ripensare a quei momenti con grande trasporto. Spesso il viaggio è più interessante della meta».

«Amo i film di James Gray e credo che la trilogia di I padroni della notte, Two lovers e The immigrant sia davvero maiuscola. Nei tre film interpreti personaggi molto simili tra loro: sono dei fantasmi pieni di sensi di colpa e dal passato oscuro e tormentato. Mi è sembrato che tu sia perfettamente riuscito ad esteriorizzare i tormenti interiori dei personaggi. In che modo avete lavorato su questo aspetto e sull’ambientazione che diventa anche uno specchio del loro mondo interiore? In che modo hai collaborato con regista e direttore della fotografia in relazione a quest’aspetto?»

«James è una persona molto precisa, fa molta attenzione ai dettagli e a quello che possono rivelare sui personaggi e sulle loro esperienze. Spesso si metteva a suonare sul set per creare una certa sintonia in modo tale che l’ambiente influenzasse positivamente l’interpretazione. Si tratta di qualcosa a cui tiene molto e io stesso ho potuto constatare che si tratta di qualcosa che, in effetti, funziona. Per il resto, credo che tu abbia ragione e che gran parte del merito vada ai diversi direttori della fotografia. Ad esempio, reputo Darius Khondji uno dei più grandi dei nostri tempi».

«In molti film da te interpretati torna la musica come leitmotiv. In I’m still here ti trasformi in un artista hip-hop, in Walk the Line interpreti Johnny Cash, in Two Lovers ti scateni in una sequenza di ballo in discoteca, per non parlare dell’incipit de I padroni della notte. Qual è il tuo rapporto con la musica? Suoni qualche strumento?»

«Ho imparato a suonare la chitarra proprio per Walk the Line ma è parecchio che non torno a suonarla, in effetti. Ci stavo pensando l’altro giorno, è proprio buffo: forse è perché sto invecchiando un po’ ma mi sono rattristato pensando a quando ero giovane; avrei comprato un cd con i miei amici, mi sarei seduto con loro e lo avremmo ascoltato tutti insieme. Ogni singola canzone, tutti insieme. Ultimamente mi rendo conto di ascoltare meno musica e, quando la ascolto, ho la sensazione di amare alla follia la musica. Ma è un sentimento totalmente diverso rispetto a quand’ero giovane. Prima non era così semplice procurarsi della musica: all’epoca, venivi a sapere che sarebbe uscito il nuovo cd dei Public Enemy ma dovevi aspettare mesi per averlo e ti precipitavi più volte al negozio dei dischi. Comunque, adoro la musica e tutti i miei fratelli sono musicisti. Mia sorella Rain ha diversi gruppi, è una cantante; mia sorella Liberty ha una band. Cazzo, non riesco a ricordare come si chiami ma fino a ieri hanno suonato e il loro show ha fatto sold-out. Mia sorella Summer è una pianista. Anche io adoravo cantare per strada quando ero piccolo. La musica ha sempre giocato un ruolo fondamentale nella mia vita».

«Chi è il tuo cantante preferito?»

«Beh, che dire. Credo proprio sia John Lennon. Ma adoro anche Bowie. Ho ascoltato certe cose di recente. Poi ci sono molte canzoni pop che è un po’ impossibile non farsi piacere. Ecco, il pop è divertente ma in determinati contesti. Quando ascolto pop, non è che mi tocchi nel profondo o mi colpisca a livello emotivo. Però è anche bello divertirsi ogni tanto».

«Torniamo di nuovo al cinema. Quali sono i tuoi film preferiti?»

«Non saprei. Ho visto Il dottor Stranamore un sacco di volte e anche Il Padrino e Step Brothers. Ci sono quei film che, in qualche modo, se passano dalla tv non riesco a non vedere. Ci sono film di registi come Paul che non puoi non vedere e rivedere. E questa è la cosa più bella: il fatto che un film ti lasci con una sensazione tale da voler sempre ritornare in quel mondo. Ogni volta che rivedi un film del genere provi sempre nuove sensazioni. A volte un film che vedi da bambino lo percepisci in un modo, mentre da adulto sviluppi sensazioni completamente diverse. Ed è straordinario che un film possa darti emozioni così variegate».

«Ultima domanda. Qual è la persona più eroica che tu conosca?»

«Probabilmente mia mamma. Si tratta di una donna incredibile e quello che fa è fantastico. Ha 74 anni e viaggia per il mondo con la sua organizzazione. È davvero una persona eccezionale e cerco sempre di seguirne l’esempio».

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I fantasmi d'Ismael

di Samuel Antichi
i fantasmi d ismael

Film di apertura della scorsa edizione del Festival di Cannes, I fantasmi d’Ismael si pone nel continuum dell’opera cinematografica di Arnaud Desplechin, ampliando, riconfigurando e riproponendo tematiche, snodi e variazioni di un unico grande film in perpetuo, ed eterno, divenire. Tra arte e politica, melodramma e spy-story, con riferimenti letterari e cinematografici sparsi su molteplici linee narrative scandite da elissi e flashback, il film mescola una serie di elementi in una danza macabra ed erotica, un caos controllato all’interno del quale lo spettatore si lascia soprassedere perdendo la propria guida. Un cinema frammentario fatto di identità ed entità frammentarie. «Chi è Dedalus?» si chiede un gruppo di persone del Ministero degli Interni seduto intorno ad un tavolo. Un personaggio enigmatico, misterioso la cui specialità è quella di sparire, non lasciare tracce, un angelo o una spia, come dicono le voci, venuto dal nulla, senza diploma, con una faccia improbabile, ma con un punteggio altissimo totalizzato nel concorso, troppo alto forse per essere vero.

Un noto regista francese, Ismael Vullard (Mathieu Amalric), sta cercando di mettere in scena i propri appunti, suggestioni, allucinazioni e memorie dell’infanzia, in un lungometraggio che ruota intorno alla figura del fratello, ambasciatore/spia (Louis Garrel), quando all’improvviso la moglie Carlotta (Marion Cotillard), scomparsa da vent’anni e di cui è stato firmato il certificato di morte, ritorna dall’aldilà per riconquistarlo. Nella casa sul mare, fonte di ispirazione e nido di amore insieme all’attuale compagna Sylvia (Charlotte Gainsbourg), astrofisica che mira le stelle ma che cerca anche stabilità e razionalità all’interno del rapporto, le certezze del protagonista cominciano a vacillare.

Carlotta sembra essere una simbolica manifestazione di un sentimento, di un ricordo, il primo amore che prende vita da un ritratto che Ismael ancora conserva. Il quadro, ennesima rappresentazione atta a cristallizzare quella figura, quel volto nel tempo, richiama il personaggio di Carlotta Valdés, la donna dipinta nel ritratto di La donna che visse due volte, una bellezza misteriosa che provocherà le ossessioni del protagonista. Le visioni, le allucinazioni, i fantasmi del passato, del proprio vissuto, che ritornano e sembrano perseguitare Ismael ne stimolano anche il processo creativo, costruendone l’immaginario, e suggerendo spunti per lo svolgersi del film in preparazione. Mettendo di fronte uno all’altro l’Annunciazione del Beato Angelico e il Ritratto dei coniugi Arnolfini di Van Eyck, Ismael mostra al suo produttore due modalità di rappresentazione completamente diverse nella pittura Rinascimentale. Se da una parte la scuola italiana sposa la scelta dell’unico punto di fuga, le ombre definite provenienti da una sola fonte di luce, i rapporti e le geometrie strutturate e calibrate ordinatamente, atte a fornire una visione chiara e completa, dall’altra parte l’opera fiamminga attraverso la molteplicità dei punti di fuga rifiuta la prospettiva lineare e centrica, restituendo una visione del mondo illusoria, frammentaria, specchi che raddoppiano lo spazio, la luce che moltiplica i riflessi e la linea dell’orizzonte alta che deforma l’ambiente. Per dare forma al proprio delirio ossessivo, ai propri fantasmi, Ismael segue una fitta ragnatela di suggestioni, di desideri, di ispirazioni, di pulsioni e follie, così come fa Desplechin, che segue la stessa linea figurativa, tra realtà e finzione, vita e sogno, segni e rispecchiamenti abbandonando un principio ordinatore.

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Arnaud Desplechin Mathieu Amalric Marion Cotillard Charlotte Gainsbourg Louis Garrel Alba Rohrwacher 110 minuti
Francia 2017
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Loro

di Giorgio Sedona
loro recensione film

«Nessuno sforzo intellettuale è richiesto agli amatori dei films – ciò che è proprio dell’adulto, l’intelligenza, è messo dapparte. Tutti i divertimenti oggi popolari son più visivi che spirituali, dunque infantili. Una delle passioni del fanciullo che giuoca è la gara: essere il primo! Gli uomini, ai nostri giorni, hanno introdotto questa manìa fanciullesca in tutte le cose: nelle più insignificanti come nelle più gravi. Battere un record è oggi l’ideale di tutti – quello degli antichi era la saggezza, la pace, la rinunzia.»

Gog - Giovanni Papini

Se l’ira di Dio è distruttiva, cataclismatica, il suo perdono è universale. Per il credente Dio è la scelta, per Paolo Sorrentino Dio può celare il volto ed il pube sotto a due asciugamani distinti, lasciando al suo figlio/a il libero arbitrio di scegliere quale parte di Lui accogliere.

Nel frattempo il suo complementare antagonista non paga ma seduce, non si mostra ma si traveste, dapprima imbonitore, poi cantante, comico, costruttore, venditore, odalisca, è esso stesso tre volte grande, trismegisto, è Trinità inversa: è padre (del suo elettorato), è figlio (del Potere da altri foscamente conferitogli), è Spirito Santo (nel soffio ingerente di un alito senile ed indebito). Una divinità alla rovescia, un santo peccatore, l’uomo qualunque fattosi caimano. Nello zoo di Villa Certosa è le(n)one, è clown Bianco e Augusto, domatore sociale di saltimbanchi, nani, cantanti melodici, politici, senatori, ruffiani e prostitute, è il dispensiere di panem et circenses che riversa nei suoi canali commerciali a discapito di una cultura intelligente.

E’ colui che è arrivato primo, è Lui. E chi sono Loro? Mascheroni che vogliono apparire, per essere se non primi almeno tra i prescelti, a cui basta essere nella foto del podio, saltare sul carro e ritrovarsi a stare dalla parte del vincitore. Nelle relazioni sociali c’è sempre bisogno di un asociale che alza muri invisibili che possono vedere solo Lui e l’Altro. Divinità annoiata, mai sazia, come il Goggins di Papini, capace di volgere il vero al falso e viceversa, che vuole tutto, ma a cui il tutto non basta, una piovra seduta all’indiana sull’Italia, la Bestia che mentre ti sorride riesce a convincerti della necessità del vuoto da lui trasmesso e prodotto. Lui è colui che capisce e comprende, Lui è colui che sa come farti ridere, che sa come convincerti a portarti dalla sua parte; Lui è un mostro mitologico per metà mezz’uomo e per metà ominicchio ( che sono come i bambini che si credono grandi, Sciascia docet) desiderabile e desideroso, sessualmente attivo. Lui è a capo di Loro che per trent’anni hanno creato realtà parallele, puramente visive, sogni ad aria condizionata per un popolo oramai imbonito.

Immagine rimossa.Immagine rimossa.

Se prendessimo, attraverso un audace parallelismo, l’ultima scena de Il caimano di Moretti e la confrontassimo specularmente con il lento carrello di spalle di Sorrentino (foto), capiremmo la diversa prospettiva che i due registi vogliono dare di Berlusconi.

Nella prima, Moretti guarda dritto in faccia il politico dimostrandone – con genio, coraggio, onestà e sarcasmo – la corruzione indotta in un intero paese inebetito, che attraverso un gesto anarchico, consumato nella sfocata profondità di campo oltre al lunotto posteriore, condanna la giustizia. Sorrentino, invece, vuole rappresentare l’uomo che è alla base del politico. Non sceglie di fronteggiarlo ma lo circuisce alle spalle, proponendolo come una sagoma oscura che osserva la messa in scena del suo stesso spettacolo che per anni ha propinato al suo pubblico mentre, nella sfocata profondità di campo, ci viene mostrata la sintesi dell’Italia plastificata e svestita, che per trent’anni ha voluto far passare per vera. Una realtà preconfezionata, basica negli istinti, lucente, glitterata, falsa e sintetica. Non appartiene a Sorrentino il metodo morettiano, non appartiene a Sorrentino il metodo moreschiano (che rappresenta Berlusconi attraverso il berlusconesimo di provincia – tanto reale quanto agghiacciante), non appartiene a Sorrentino il metodo d’inchiesta guzzantiano; Sorrentino affronta Berlusconi con il metodo che conosce, lo ripaga e lo racconta attraverso la sua stessa moneta, rappresentando il contesto domestico del Cavaliere attraverso l’esacerbata e sua stessa macchina spettacolare: la televisione. Rischiando di sfiorare il ridicolo (la scena surreale del camion della spazzatura) Sorrentino tende il suo stile affinché esso stesso diventi metodo di indagine antropologica di un uomo antropocentrico, smascherandone la mostruosità del potere – politico ed economico – che si cela dietro ad un falso sorriso. Se tende ad inciampare nella rappresentazione surrealistica recupera l’equilibrio attraverso lo svelamento (biasimabile) dell’uomo, osservandolo dietro la lente distorta del grottesco petriano. Ammesso questo, e riconosciuto qualche ammiccamento all’ultimo Korine, ecco che il suo stile può dilatarsi su tutto (e qui le tag-line del lancio dei due film sono riferite più a Sorrentino che a Berlusconi) diventando prima videoclip, gioco specchiante di superfici riflettenti, quiz televisivo, trovando il punto di totale convergenza nella perfetta sovrapposizione tra cinema e pubblicità, in quel prossimamente televisivo che si espande riempiendo tutta la superficie dello schermo cinematografico (Congo Diana).

Sorrentino insinua il seme della riflessione all’interno dello stesso metodo di rappresentazione adottato dai canali commerciali berlusconiani. E se l’immaginario della seconda Repubblica è un universo ideale e plastificato ricostruito sopra alle macerie culturali e sismiche di un’Italia in ginocchio, non ci deve sorprendere se nel finale viene recuperata intatta l’effige della purezza definitiva, dell’altruismo incondizionato, della cristianità ontologica che è sopravvissuta al cataclisma distruttivo della santità filistea e del cattolicesimo di facciata. «Il re è nudo!», gridava svelando la nudità un bambino nella fiaba di Andersen dopo che lo stesso uomo di potere cadeva nella trappola della sua vanità, ed allo stesso modo Sorrentino svela la nudità di Berlusconi attraverso il vestito più bello (e più falso) del suo guardaroba. Nudità che si palesa oltretutto anche attraverso due figure femminili: la prima, e più importante, è il personaggio di Veronica Lario (Elena Sofia Ricci), contraltare femminile ed intellettuale (tanto per tornare alla precedente citazione di Papini) che rappresenta su di sé la forza mistificatrice del falso profeta, donna dapprima sedotta, poi innamorata, poi mantenuta, poi tradita ed infine deposta. L’altra è rappresentata da Stella (Alice Pagani), l’anima pura che resiste alle lusinghe del tentatore riflettendo il suo lato patetico.

Non è più negli angusti e bui corridoi di palazzo che si muove la mostruosità, l’istrice sanguinaria, la cinica, spietata e sardonica figura andreottiana che ha avuto nelle mani il potere nella prima Repubblica. Non è tra la notte delle strade di Roma, nei concili della Santa Sede, nei meravigliosi giardini papali che il potere spirituale (e temporale) si riversa nel pop come una parabola rovesciata in grado di esibire il profano nel sacro. Questa volta la maschera si muove tra altre maschere, esibendosi in tutta la sua falsa luminosità; l’Avversario porta con sé il suo teatrino, un circo funambolico di corpi, interessi economici e politici, droga ed escort. Non nasconde la sua immagine come una rockstar (Lenny Belardo), non si cela nell’ombra del palazzo di potere, non muove i fili dietro ad un sipario, il Re si mostra, e mostra il suo carnascialesco seguito, e ritrovandosi nudo riesce a far credere al mondo il contrario, additando quel bambino per pazzo. E’ necessario riconoscersi in Paolo Sorrentino, un regista che vuole rappresentare il potere, un contenuto spigoloso che in pochi ancora hanno il coraggio oggi di affrontare, o che sanno affrontare. Abitante del lato luminoso di una luna oscura dove risiedono sia Andreotti che il Papa giovane, portatori di un potere alieno, come alieni sono tutti i suoi ritratti del potere, Sorrentino, impastando il pane della postmodernità, del post-reale, traccia una linea neanche tanto netta tra noi e loro: per quanto ci crediamo assolti siamo lo stesso coinvolti.

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Italia, 2018
Regia: Paolo Sorrentino
Cast: Toni Servillo, Elena Sofia Ricci, Riccardo Scamarcio, Kasia Smutniak, Euridice Axen
Durata totale: 204 minuti


Black Mountain Side

di Gian Giacomo Petrone
black mountain side cover pb

Le terre impervie e poco praticate dal piede umano hanno non di rado costituito un considerevole stimolo, prima letterario e successivamente anche filmico, per racconti avventurosi o fantastici, talora intrisi di visioni allucinatorie, a loro volta prodromo del delinearsi di cosmologie alternative e destabilizzanti. Una peculiare seduzione è stata esercitata dai ghiacci antartici, situati nel continente più inospitale, quindi meno umanizzato, perciò più misterioso del pianeta. Il Polo Sud, col suo fascino di (non)luogo ai confini del mondo, ammantato di morte e mistero, funse da fonte di ispirazione per due fra i più grandi autori della narrativa fantastica dell’era moderna: Poe vi ambientò il suo unico romanzo, Le avventure di Arthur Gordon Pym (1838); Lovecraft vi collocò gli audaci esploratori de Le montagne della follia (1936), uno dei suoi racconti più lunghi e immaginifici (oltretutto, un dichiarato atto di riverenza al romanzo di Poe), nonché uno dei più ricchi di dettagli relativi alla mitologia dei Grandi Antichi. Dal punto di vista cinematografico, La cosa (1982) di Carpenter ha saputo cogliere con sagacia almeno alcune delle inquietanti visioni del “Solitario di Providence” contenute nel racconto summenzionato, pur essendo tale film debitore – trattandosi di un remake – innanzitutto de La cosa da un altro mondo (1951) di Nyby/Hawks, a sua volta trasposizione del racconto Who Goes There? di John Wood Campbell Jr. (pubblicato curiosamente nel 1938, perciò appena due anni dopo l’uscita de Le montagne della follia, e a quest’ultimo fortemente legato, non solo per l’ambientazione antartica).

Isolamento, solitudine, coesistenza forzata fra estranei, insorgere dagli abissi del tempo di una forza ancestrale, capace di catalizzare le energie negative e le peggiori pulsioni degli individui sottoposti al suo potere, sviluppandosi tramite un invisibile e irreversibile contagio, costituiscono i temi centrali de La cosa, e ritornano pressoché inalterati in Black Mountain Side, omaggio intelligente e tutt’altro che banale al capolavoro carpenteriano del regista canadese Nick Szostakiwskyj. Al suo esordio nel lungometraggio horror, Szostakiwskyj sceglie un’ambientazione congeniale alla sua provenienza (è nativo di Calgary) e alle sue intenzioni estetico-narrative, vale a dire le Monashee Mountains della British Columbia (la più occidentale delle province canadesi), e racconta le allucinanti peripezie di un gruppo eterogeneo di studiosi alla ricerca di manufatti e vestigia delle civiltà sviluppatesi nell’area. Non si tratta, indubbiamente, del Polo Sud, ma il freddo e la neve risultano egualmente i padroni incontrastati della zona, assieme all’incombere di una Natura primigenia e indomabile. Il rinvenimento di un’antichissima struttura architettonica, i cui resti rinviano a ipotesi in inquietante contraddizione con la storiografia consolidata, porterà nell’accampamento un morbo che si diffonderà nella piccola comunità attraverso i sintomi di un delirio ai confini con la follia, facendo precipitare gli eventi.

A differenza del modello carpenteriano, Black Mountain Side non presenta scosse rilevanti nel ritmo del racconto, privilegiando la sospensione, l’attesa, il dialogo fitto, a tratti tecnico-scientifico (come lo era in un altro titolo fondamentale di Carpenter: Il signore del male), e sviluppando una progressiva caduta nel baratro della demenza senza picchi di tensione, bensì mantenendo un perlopiù distaccato sguardo entomologico su tutti gli eventi narrati, anche i più truculenti.

Si tratta, evidentemente, di una precisa scelta stilistica, che sposa senza riserve l’a-patia – della messa in scena e parimenti della recitazione – come attitudine del racconto, il piano americano e la figura intera (o tutt’al più il campo lungo, come ad esempio nel finale) come giusta distanza dello sguardo, e il long take come cifra ritmica. In tal modo, la violenza e l’alienazione sono colte nella loro gestualità ed esteriorità, senza espedienti emotivi o psicologismi: una sorta di atteggiamento “documentaristico” e antropologico sullo sviluppo dell’insania in un gruppo di individui costretti all’isolamento forzato e al contatto con una realtà irriducibile al regno dell’umano e del razionale. Gli accadimenti risultano perciò più osservati che vissuti, più mostrati che dimostrati, e giocoforza l’immagine che ne scaturisce è priva di tensione, mentre quest’ultima alberga invece nel fuori campo, nelle profondità del bosco circostante, nel chiuso dell’animo di personaggi i cui gesti risultano perlopiù meccanici e ottusi. Solo la parola funge da sintomo dell’interiorità e delle sue sconnessioni. Intanto, un’entità primordiale e misteriosa (intelligentemente tenuta in penombra o resa “presente” tramite la sua voce acusmatica, roca, suadente e profonda), scaturente – forse – dalle rovine dissepolte, sembra impadronirsi irreversibilmente delle menti e dei corpi di quegli uomini.

Szostakiwskyj non costruisce personaggi che fungano da filtro identificativo/proiettivo per il pubblico, bensì abbozza semplicemente delle figures in a landscape, stilizzati manichini di morte e dissoluzione, costringendo lo spettatore a misurarsi direttamente con le proprie angosce archetipe e lasciandolo perciò sostanzialmente da solo – in una sorta di horror vacui dovuto all’assenza di eroi – di fronte all’incombere di una solitudine originaria, prefigurazione simbolica del destino finale di ogni uomo.

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Chi siamo

Manifesto

"Decidere di non decidere è una decisione" - Ernst Bloc

"Non solo Dio gioca a dadi, ma li getta laddove non possiamo vederli" - Richard Feynman

Il mondo è kinematos.
Dagli atomi infinitesimali alle immani galassie ogni cosa si muove.
Tutto l’universo, dunque, è cinema.
Ernst Bloch, dunque, si sbagliava.
Giovani Turchi è già stato usato in Francia e in Sardegna –ma i Giovani Turchi sono stati anche i responsabili del Genocidio Armeno durante la Prima Guerra Mondiale.

Death in June è già stato usato in Giappone –ma Death in June è anche il nome di una band che ha le sue radici nell’immaginario iconico nazista.
E, per finire in crescendo, Underworld è già stato usato negli Stati Uniti –ma Underworld è anche (?) un film in cui vampiri e licantropi e umani… 

Point Blank.
Non è un’arida ballata di Springsteen, non è un’operazione compiuta dagli Alleati nel gennaio ’44, non è un videogioco psichedelico, non è un film geometrico del 1967.
Point Blank è quello che stiamo cercando che sia.
Un esploratore della visione, del corpo, della visione del corpo del mondo. Conoscendo il pericolo che Feynman amavatemeva, scartandolo, soffocandolo, cedendo a lui.
Divenendo anche una canzone, un’azione militare, una cartuccia per le console a 32 bit, 24 fotogrammi al secondo. 
Assumendo su di noi, giovani, dannatamente giovani, questo abisso. la più corta distanza tra il bene e il male.


Point Blank, dunque.
E luce fu.

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