L'isola dei cani

Orso d'Argento a Berlino 68, il secondo lavoro in stop motion di Wes Anderson vive come al solito di dettagli e frammenti, ma anche di un'inedita anima politica.

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Perché ambientare in Giappone una storia che, in fondo, potrebbe avere luogo da qualsiasi parte? Perché un autore come Wes Anderson sceglie la terra nipponica per un racconto che parla di immigrazione, individualismo, riscoperta dell’infanzia e della fantasia, ambientalismo e solidarietà?

Rispondere che il Giappone è un luogo dall’immaginario unico e straordinariamente pulsante basterebbe a giustificare tale scelta. Tuttavia, probabilmente a partire proprio dall’amore sconfinato per una cultura totalmente altra rispetto a quella da cui proviene, il regista texano mette in piedi una riflessione che ha come protagonista proprio il territorio in cui ambienta il suo ultimo lungometraggio, e la sua enorme mole di cultura e tradizione. L’isola dei cani, anche per questo arrembaggio in Estremo oriente, si presenta come un film nient’affatto semplice, estremamente articolato e stratificato sia dal punto di vista formale che concettuale, ma anche paradossalmente definito da una limpidezza espressiva invidiabile.

Anzitutto, L’isola dei cani è un film in stop motion, ovvero integralmente realizzato con pupazzi animati attraverso la ripresa a passo uno, e doppiato da attori e attrici del calibro di Edward Norton, Bill Murray, Scarlett Johansson, Jeff Goldblum e Bryan Cranston. Si tratta del secondo lungometraggio girato dall’autore con questo tipo di tecnica dopo Fantastic Mr. Fox, che nel 2009 ripensò la consueta famiglia disfunzionale della poetica andersoniana attraverso un linguaggio animato capace di spalancare le porte dell’immaginazione del regista.

Con L’isola dei cani l’autore dei Tenenbaum vira in maniera piuttosto netta rispetto al passato, raccontando una storia fatta di esseri soli, randagi, in balia di un presente privo di appigli e costretti dunque a solidarizzare tra loro. Il film è ambientato una ventina d’anni nel futuro, in un Giappone in cui la moltiplicazione dei cani e la diffusione della febbre canina sono diventati una minaccia per molti abitanti (o almeno così vuole la propaganda politica). Il problema viene risolto brutalmente alla radice, deportando tutti i cani in un’isola/discarica, dando vita così a un’immensa e maleodorante colonia di quadrupedi abbandonati. Un giorno l’undicenne orfano Atari decide di andare a cercare il suo Spots, primo cane ad essere trasferito sull’isola, finendo per allearsi con un gruppo di randagi che lo accompagneranno alla ricerca del suo migliore amico.

Wes Anderson sceglie un futuro non ben precisato in cui proiettare sull’amato Giappone una serie di tendenze politiche attualmente in voga in Occidente, in modo particolare negli Stati Uniti. Nonostante possa sembrare un film fatto di tenerezza, animali sempre in grado di strappare sorrisi e un bambino alla ricerca del proprio cane, l’ultimo lungometraggio di Anderson è anche quello più politico della sua intera filmografia, quello in cui l’autore decide di collocare il racconto in un contesto in cui il controllo del potere e dei media crea diseguaglianze sociali ampissime, e in cui gli ultimi (diversamente rappresentati) tentano di ribaltare l’ordine costituito.

La città di Megasaki è governata dall’autoritario sindaco Kobayashi, che gestisce il potere a colpi di fake news e istiga la folla all’odio. Alla luce della presunta epidemia di febbre canina, la cui responsabilità viene attribuita alla moltiplicazione dei cani in città, il sindaco mette in piedi una strategia del terrore che per prima cosa soffia sul fuoco della paura diffondendo l’incubo del contagio, e poi procede con la deportazione di tutti i cani in una sorta di isola-discarica. Difficile non vedere nella figura di Kobayashi – il cui smisurato ego si riflette attraverso una messa in scena che cita Quarto potere – un rimando diretto a Donald Trump, e nelle sue azioni un eco delle politiche del Presidente degli Stati Uniti nei confronti degli immigrati provenienti dal Medio Oriente.

A un potere populista e avverso ad ogni forma di cultura e libero pensiero, capace di intercettare la frustrazione del mondo adulto, Wes Anderson contrappone lo spirito critico, la purezza e l’alterità di sguardo dei giovani e dei cani, i quali attraverso un graduale processo di conoscenza reciproca finiscono per fare squadra ribellandosi allo status quo. La tenerezza e l’autenticità del legame tra Atari e Spots (che vedono il loro momento apicale nella scena all’ospedale) fondono il piano politico con quello emotivo costituendo così la cifra principale del film: è infatti attraverso la percezione del reale affetto che c’è tra il cane e il suo padrone che tutti i randagi capiscono che c’è bisogno anche del loro contributo e si alleano per la missione comune, sviluppando così una sorta di coscienza politica.

L’isola dei cani è uno di quei film pensati anche per essere rivisti più volte, soprattutto per l’accumulo di segni, informazioni e riferimenti che compongono ogni sequenza. Il regista dimostra una padronanza assoluta della stop motion (ancor di più che in Fantastic Mr. Fox) realizzando composizioni nelle quali lo sguardo dello spettatore si perde con fare esplorativo e incantato. In certi casi viene quasi il desiderio di interrompere lo scorrimento della pellicola per assaporare ogni dettaglio della messa in quadro dell’autore e per poter leggere tutte le didascalie e i cartelli che di volta in volta compaiono. A questo proposito Anderson dimostra un affetto verso la terra e la cultura in cui decide di ambientare il film riprendendone fedelmente i simboli principali, a cominciare dalla lingua e dalla gestualità: tutti i personaggi giapponesi infatti parlano nella loro lingua e si comportano in maniera autenticamente nipponica. Per quanto così naturale da sembrare scontata, si tratta di una scelta nient’affatto banale, come dimostra all’inverso, ad esempio, Silence di Scorsese.

Con questo suo ultimo lungometraggio Wes Anderson ribadisce tutto ciò che di buono si è scritto su di lui, confermandosi uno degli autori più personali e riconoscibili della contemporaneità, ma al contempo dimostra di sapersi adattare alla perfezione a un contesto al quale non è affatto abituato. La sua fervida immaginazione divora il mondo che racconta e lo ricrea a propria immagine e somiglianza; è un dispositivo raffinatissimo che genera un universo quanto mai affascinante, intimamente andersoniano ma allo stesso tempo anche filologicamente fedele alla cultura che rappresenta e omaggia, con una miscela di citazioni (alcune delle quali comprensibili solo a uno spettatore giapponese) che vanno dal cinema di Kurosawa alle stampe di Hiroshige e Hokusai, ispirate al mondo di Kenzo Tange e portate alla vita in 240 set dal production designer Paul Harrod.

Autore: Attilio Palmieri
Pubblicato il 13/05/2018

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