The X-Files - Undicesima stagione

Ultimo giro: dal fallimento della mitologia all’episodio capolavoro di Darin Morgan. La serie di Chris Carter riflette su se stessa, sul mondo intorno, sul tempo che passa.

the x files

Tornare. Un’operazione non facile, soprattutto nel contemporaneo, nella costellazione audiovisiva di oggi. Tra gemmazione della serialità e cambiamenti a velocità ipercinetica, un solo ritorno si è imposto come capolavoro: Twin Peaks – The Return di David Lynch che però, in antifrasi col titolo, non è certo una riproposizione ma viene imperniato su una costruzione concettuale totalmente nuova. Il contrario di ciò che avviene per The X-Files, la serie creata da Chris Carter nel 1993 che proprio verso Twin Peaks fu fortemente debitrice: in particolare all’ipotesi ufologica insinuata nella seconda stagione lynchiana, andata in onda nel 1991, di cui Chris Carter riprese il motivo due anni dopo, attraverso l’invenzione degli agenti Mulder e Scully di David Duchovny e Gillian Anderson, e lo espanse in modo tentacolare fino a renderlo scheletro di una serie.

Il ritorno di The X-Files si inserisce nel solco della tradizione. A partire dalla decima stagione, trasmessa nel 2016 in soli sei episodi, Carter e gli autori confermano la formula che la rese cult negli anni ’90: da una parte gli episodi mitologici, ovvero quelli che seguono la trama principale della cospirazione aliena, dall’altra il monster of the week (motw), ovvero le storie autoconclusive in cui gli agenti affrontano il caso del giorno, il mistero paranormale che la loro sezione puntualmente produce.

Alla divisione rigorosa, nelle ultime annate, si aggiunge la peculiarità dell’episodio “semi-mitologico”: un case file apparentemente autosufficiente, che poi però si rivela intrecciato alla storyline principale, come avviene qui per l’episodio 11x05, Ghouli. Tutto questo in puntate da 44 minuti, aperte dal teaser prima della storica sigla che si conclude con la nota tagline (The truth is out there), che cambia di volta in volta a seconda del carattere della storia. Insomma: tutto come sempre. Come se il tempo non fosse passato, dal 1993 e anche dall’agosto del 2002, quando la nona stagione si concludeva con il doppio episodio The Truth, pensato per chiudere la serie. Poi fu inutilmente resuscitata dal secondo film, X-Files – Voglio crederci del 2008, che comunque non toccava la mitologia limitandosi a un monster of the week aumentato da affrontare per gli agenti. Ma la sostanza non cambia. Tornando all’oggi, dopo l’esperimento della decima “microstagione” la Fox ha confermato la serie per la l’undicesima, composta stavolta da dieci episodi.

Va detto subito: The X-Files è sempre stato per sua natura altalenante. Inevitabile per una serie nelle mani di molti registi e sceneggiatori, dal creatore Chris Carter a Frank Spotniz, da Vince Gilligan allo scomparso Kim Manners, da James Wong a Glen Morgan e Darin Morgan, solo per citarne alcuni. Nel corso del tempo alcuni di loro sono rimasti nella serialità, come Gilligan che ha ideato Breaking Bad, cult esattamente come lo fu X-Files, altri hanno azzardato incursioni al cinema più o meno felici, come James Wong autore del primo Final Destination. Se alcune stagioni vengono ricordate nella memoria dei fan per il livello elevato costante, ovvero la terza e quarta nell’arco temporale 1995-97, il risultato alterno è quindi nelle vene dello show. Va detto anche che la mitologia in sé non è intrinsecamente superiore agli stand-alone: se gli episodi mitologici hanno costruito la fama della serie, tirando il filo del grande complotto e del rapporto tra Mulder e Scully, i mostri non sono mai stati da meno, e anche loro infestano gli episodi più amati, dall’assassino mutaforma di Squeeze alla famiglia deforme di Home.

Nel 2018 The X-Files ci consegna una mitologia fallimentare. La quadrilogia My Struggle (primo e ultimo episodio della decima stagione, primo e ultimo della undicesima), tutta scritta e diretta da Chris Carter, è in assoluto l’anello più debole dell’intera operazione. Il racconto è imperniato su uno dei maggiori nodi irrisolti della serie: la ricerca del figlio perduto di Scully, William (Miles Robbins), ibrido tra DNA umano e alieno, il cui destino si intreccia al virus di origine extraterrestre in procinto di essere diffuso da L’uomo che fuma (William B. Davis), il sommo villain fumatore e archetipo dell’uomo nell’ombra, con l’obiettivo di “ripulire” l’umanità e permettere l’avvento dei colonizzatori. Ma non vale troppo la pena di soffermarsi sulla catena degli eventi: la mitologia di Carter è ormai usurata, supplemento del tempo che fu, che suona pleonastico nella successione meccanica di colpi di scena che non possono più stupire. Poco importa, in questo innesto, dei cospiratori e dei personaggi storici, perfino del tema della maternità e paternità che avvolge gli agenti: tutto arriva anestetizzato perché già fatto, visto e detto, tanto che i rovesciamenti si ripetono ma – a ben guardare – scrutando nel passato della serie sono sempre gli stessi (doppi giochi, morti, gravidanze). Nel prevedere una coda a un decennio di mitologia, troppo intricata e sfuggita di mano, Carter ha concepito la storia per attirare i vecchi fan, restituendo la chiara impressione che non ci creda più neanche lui. Lo conferma chiaramente l’approccio stilistico: vengono rovesciate le atmosfere stagnanti e strategiche della “vecchia” mitologia, in cui accadeva poco ma interi episodi venivano usati per costruire una sensazione, un umore complottista e paranoico molto superiore ai fatti concreti. Qui al contrario gli eventi sono veloci, si succedono automatici, in una girandola di sparatorie e inseguimenti, smentendo così la sostanza della serie e preferendo il freddo meccanismo all’evocazione di un’idea.

Uscendo dalla continuità verticale, però, si trova il senso di questa season eleven. La stagione viene illuminata dagli episodi più coraggiosi e sperimentali. Il migliore è l’11x04, The Lost Art of Forehead Sweat di Darin Morgan, provocatore e sabotatore del congegno, sempre in bilico tra il racconto di una storia e la riflessione su di essa, ostinatamente “meta”, tra profonda ironia e affetto per i personaggi e l’universo inscenato. Morgan è tra i più geniali scrittori della serialità, come già ribadito nell’episodio della decima stagione Mulder and Scully Meet the Were-Monster.

Stavolta la trovata si basa su una peculiare ipotesi alternativa: secondo l’effetto Mandela, ovvero la teoria dei ricordi sbagliati che sarebbe in realtà oblio provocato dal governo, negli anni Mulder e Scully non hanno lavorato da soli bensì con l’agente Reggie Something (Reggie e qualcosa), vittime di una congiura orchestrata da Loro (They), qui incarnati da un vero e proprio Doctor They. Così, nell’happening demenziale dell’episodio, si riflette sul senso stesso della serie e sulla possibilità di un universo parallelo; e così Morgan può inserire spiazzanti innesti digitali, che rivisitano la storia di The X-Files in funzione del fantomatico terzo agente, riscrivendo perfino una sigla fake che prevede il terzo tesserino dell’Fbi. Oltre a poggiare sulla forza della sua invenzione, la puntata è un sentito omaggio a se stessi ripassando ciò che è stato, nella consapevolezza che non sarà più, e per questo funziona come teorico episodio finale della serie. Nell’innesto digitale di Morgan, che con Reggie cambia le scene già viste dandogli nuovo senso, si ritrova addirittura Twin Peaks - The Return Part 17: quando Lynch “cancella” proprio in digitale il cadavere di Laura Palmer visto nell’episodio pilota, in un uso finora inedito del mezzo e insieme un’esaltazione delle potenzialità dell’immagine.

Il piccolo capolavoro di Darin Morgan fa il paio con l’episodio 11x07 dal titolo Rm9sbG93ZXJz, diretto da Glen Morgan e scritto da Shannon Hamblin e Kristen Cloke. Qui Mulder e Scully sono preda delle nuovissime tecnologie: vogliono una semplice cena di sushi ma finiscono ostaggio di oggetti materiali, dal cellulare alla robotica, in un incubo comico simbolicamente silenzioso (i due non parlano) che si fa metafora della spersonalizzazione dell’oggi. Non a caso il titolo significa “followers” in codice Base64, chiaro riferimento ai social network, con un avvitamento dickiano dove gli oggetti si animano e pretendono la loro parte. Se l’altro episodio rifletteva sull’interiorità della serie, questo si confronta col mondo fuori, con l’intorno del contemporaneo: sfida Black Mirror, la deriva della tecnologia, il tema delle serie di oggi. Per questo formano un ideale dittico: in entrambi i casi spargono un onesto senso di inadeguatezza e la consapevolezza della fine di un’era.

Il pensiero del tempo che passa percorre tutta la stagione. In prima battuta nei corpi degli attori che sono maturati e invecchiati, come autoevidente nelle scene, ma anche nel comportamento dei loro personaggi che questo trascorso lo sottolineano, lo ricordano bene, ora in momenti struggenti ora in squarci ironici, come Mulder che “deturpa” il suo look perché costretto a mettersi gli occhiali. La serie sa di avere fatto il suo tempo, dunque, malgrado il tentativo di riproporre i semplici episodi con i mostri, vedi i bambini uccisi di Familiar (con citazione grafica a Saw - L’enigmista) oppure Nothing Lasts Forever, titolo emblematico su un’anziana attrice che si mantiene giovane divorando i suoi adepti. Ecco, The X-Files è consapevole che questo non è possibile: preferisce omaggiare i personaggi, dagli agenti al vice direttore Skinner, e “salutare” gli spettatori con un (probabile) addio controverso che sa di testamento, malgrado l’ennesimo e spudorato cliffhanger negli ultimi fotogrammi. Ma, d’altronde, quando si riflette così apertamente su se stessi dietro l’angolo c’è sempre la fine.

Autore: Emanuele Di Nicola
Pubblicato il 20/05/2018

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