End of Justice – Nessuno è innocente

di Dan Gilroy

Dan Gilroy scrive e dirige un'opera seconda che riesce, attraverso il suo divo, a raccontare l’intimità dentro alla morale e l’etica dentro il vivere.

End of Justice - recensione film - colin farrel e Denzel Washington

Quando un film è cucito sul suo protagonista principale e sul suo interprete, analizzare e scomporre i cosiddetti ventiquattro fotogrammi significa soprattutto scucire tutti i punti di sutura, le cicatrici che incollano il soggetto al suo contesto: per comprendere in maniera più distinta la natura del rapporto tra l’attore-personaggio e la realtà del cinema in cui agisce, ma soprattutto per prendere le misure di un cinema (ormai rarissimo) che si forma gravitando intorno al suo più riconoscibile agente comunicativo: l’attore. Non c’è modo di confrontarsi con un prodotto cinematografico come End of Justice - Nessuno è innocente senza considerare il peso specifico del suo divo. Non è questo lo spazio adatto a ragionare nello specifico sulla natura del divismo nel cinema contemporaneo, ma chi scrive ha provato una sensazione di scarto particolare nell’assistere a una produzione cinematografica imperniata sull’interpretazione totale di un attore come Denzel Washington (non a caso presente anche in veste di produttore). Certo, la politica del divismo non è per forza una garanzia di qualità, ma il discorso si sviluppa sulla base di una partecipazione attoriale così forte da spostare in secondo piano per un momento anche i giudizi di merito.

La storia dell’avvocato attivista Roman J. Israel, trascinato nella complessità etica della realtà contemporanea dalla morte improvvisa del socio per cui lavorava da dietro le quinte, è infatti soprattutto la storia della reazione fisica e comportamentale di una persona a una serie di impulsi provenienti dal contesto. Il lavoro attoriale di Washington è l’unità minima, la pietra angolare di un film che non si distrae mai dal suo interprete: la narrazione è un veicolo per la descrizione psicologica, la regia (di un Dan Gilroy in eccellente sordina) è la disposizione visiva di una trattazione emotiva e i personaggi (tra cui gli ottimi Colin Farrel e Carmen Ejogo) sono sponde al servizio dello sviluppo caratteriale. Lavoro e lavorio di una gestione diegetica abile a fare spazio sulla scacchiera per lasciare che il peso specifico dell’interpretazione non ingombri e non pesi sull’economia di una storia potenzialmente molto fragile. Non c’è nulla di solido nel racconto di una coscienza, fino a quando questa coscienza non è rappresentata da un corpo. Washington inventa un fisico e una mente elettrizzati da ossimori – corpo grosso ma senza potenza, mente forte ma incapace di comunicare, spirito puro ma anacronistico – e poi trasmette emotività a banda larga, però raffinando e centellinando la grandezza del sentimento attraverso un’espressione comportamentale remissiva e trattenuta, che nel momento di frattura, di crisi (e quindi di giudizio) scarica se stessa sul mondo che lo circonda.

Israel trascina se stesso lungo una narrazione che senza di lui non esisterebbe: il montaggio è espressione di un cambiamento d’animo, le svolte corrispondo a capovolgimenti emozionali, la somma delle immagini diventa uno scalpello che sottrae e sottrae fino a scolpire un carattere da ricordare. La prova definitiva della stoica aderenza del film al suo protagonista è la riuscita di una duplice e pericolosissima svolta a tre quarti. Il personaggio si capovolge improvvisamente, ma la struttura regge questo spostamento d’aria e si adatta in tempi stretti al momentaneo disallineamento. Proprio questo momento fuori sincrono rivela come End of Justice – Nessuno è innocente riesca, attraverso l’esplorazione del suo protagonista, a dimostrare qualcosa che tocca la morale e risveglia l’empatia. È stringendosi su Israel che il film si dilata cercando di trasmettere una certa idea di mondo ed è attraverso l’interpretazione di Washington che quell’idea di mondo trova focalizzazione specifica, diventando corpo fisico, confine umano, idea di persona. Che tutto il film sia poi una parafrasi ben argomentata in preparazione ad una frase, ad un momento decisivo, ad una apertura che spalanca il significato e chiude la storia, non deve sorprendere. È solo il riallacciarsi dei punti di sutura.

Autore: Leonardo Strano
Pubblicato il 27/08/2018
USA, 2017
Regia: Dan Gilroy
Durata: Durata: 122 minuti

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