Opera senza autore (Werk ohne Autor)

di Florian Henckel von Donnersmarck

Dopo il banale momento hollywoodiano di The Tourist, von Donnersmarck torna a riflettere sull'arte e sulla sua capacità di mettere tutto in discussione

Opera senza autore - recensione film

In Le vite degli altri, l’esordio che più di dieci anni fa rese Florian Henckel von Donnersmarck uno dei più promettenti autori europei (oltre che Premio Oscar per il miglior film straniero), il capitano della Stasi Gerd Wiesler, incaricato di spiare un famoso intellettuale col fine di indagarne il grado di pericolosità per la Repubblica Democratica Tedesca, viene profondamente cambiato dall’incontro con l’arte e la letteratura cui lo spiato dedica gran parte del suo tempo. Arrivando, nel corso dello sviluppo narrativo, a ribaltare i propositi iniziali e ad aiutarlo, invece di incastrarlo come si aspettavano i suoi superiori.
Opera senza autore (Werk ohne Autor), l’ultimo ambizioso lavoro di von Donnersmarck sembra voler tornare a riflettere – dopo l’inconcepibile e francamente indifendibile parentesi hollywoodiana di The Tourist  –  su questo tema, approfondendo le implicazioni dell’assunto di base; la convinzione, cioè, che l'esperienza artistica possa costituire una forza modellatrice in grado di cambiare radicalmente la percezione, le convinzioni e dunque l’agire stesso del soggetto attivamente o passivamente coinvolto in essa.

È attorno a (e dentro) questo campo di indagine teorica, a questa idea, che il regista tedesco costruisce il suo racconto audiovisivo, incentrato sulla vita di un artista fittizio, Kurt Barnert, la cui storia trae cospicua ispirazione dalla biografia di Gerhard Richter, uno dei più importanti artisti viventi.

Il film narra le tappe principali della vita di Kurt, dall’infanzia profondamente segnata dal regime nazista, sia in termini affettivi, a causa degli effetti devastanti dell’agghiacciante disegno eugenetico portato avanti dal partito nazionalsocialista, che di concezione dell’arte, fino alla consacrazione come artista di fama. In mezzo la grande storia d’amore con Ellie.

Per quanto concerne la parte narrativa, il racconto risulta tutto sommato avvincente e ben gestito, sia nei tempi che nella qualità della scrittura, con picchi dal coinvolgimento emotivo indiscutibile, pur se minati da qualche eccesso di retorica. Tuttavia l’aspetto più riuscito è quello intellettualmente stimolante, ovvero legato all’impianto teorico di base. L’arte, dunque, e la sua capacità di mettere in crisi, di separare, di cernere e quindi rendere discernibile qualcosa. Di rivelare la verità, o almeno qualcosa che possa avvicinarsi ad essa. Si pensi in questo senso, a mero titolo esemplificativo, al noto ingrandimento fotografico in Blow Up, che a questa tecnica affida lo svelamento di particolari fondamentali per permettere al protagonista di avanzare nella propria operazione investigativa, sebbene poi la ricerca si rivelerà comunque infruttuosa, depistata da una realtà impossibile da afferrare fino in fondo. C’è una chiara consonanza tra questa intuizione di Blow up e l’incapacità dell’arte, in Opera senza autore, di identificare il colpevole (e, quindi, di rendere giustizia alle vittime), di smascherare gli inganni. Pur mantenendo inalterato il suo carattere epifanico, l'arte, dice von Donnersmarck, porta inevitabilmente con sé, dentro di sé, nel suo stesso farsi, il vissuto personale, la soggettività dell’artista e dello spettatore. Nel passaggio dall’oggetto al soggetto che caratterizza l’intero Novecento, dalla modernità alla contemporaneità, dalle “belle arti” alle avanguardie storiche, si è persa definitivamente l’illusione di poter stabilire l’autenticità, sia della creatura che del creatore. È l’opera allografica (senza autore, appunto) che soppianta l’opera autografica, l’opera cioè che esiste sotto la forma di un oggetto unico, non riproducibile senza che la perdita di autenticità sia quantomeno evidente.

L’opera esiste e acquisisce statuto di verità solo nella sua attualizzazione, che è sempre a carico del fruitore. È da questa consapevolezza che l’arte contemporanea riparte. Ecco perché nel finale Kurt sa che non serve contrastare, smentire o contraddire le convinzioni dei giornalisti che alla conferenza stampa di presentazione della mostra gli rovesciano addosso ipotesi poco probabili su influenze e intenzioni del suo operato. L’arte può caricarsi di significato solo se nasce dalle tracce che la vita ci ha lasciato addosso, come il grasso e il feltro per il professore e mentore che Kurt conosce alla Kunstakademie di Dusseldorf (dove tra l’altro ha insegnato anche lo stesso Richter, insieme a mostri sacri come Joseph Beuys, Georg Baselitz e Nam June Paik). Se in apparenza gli oggetti artistici di Kurt sono frutto del caso (fotografie prese dai giornali, foto amatoriali di sconosciuti) – e lui stesso fa credere questo a giornalisti e critici durante la conferenza – lo spettatore sa con certezza, perché è il racconto ad averglieli mostrati, che alcuni di essi provengono direttamente dal suo vissuto. E sono quelli a sortire gli effetti più significativi sui fruitori dell’opera d’arte. Per raccontare qualcosa in grado di lasciare il segno non si può prescindere dal recupero dell’io, allora. Dal ricordare e riportare frammenti della nostra storia personale. Contro ogni assurda pretesa di rappresentare efficacemente la collettività, la massa, il popolo. Che è quello che desiderano, non a caso, le due forme di potere dittatoriale che agiscono nel film, dal regime nazista all’occupante sovietico (con la sua ossessione per il realismo socialista, imposto dai russi nella Berlino est post conflitto).

Autore: Domenico Saracino
Pubblicato il 07/09/2018
Germania 2018
Durata: 188 minuti

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