The Nightingale

di Jennifer Kent

Dopo Babadook, il secondo lungometraggio di Jennifer Kent si rivela una completa, sconcertante delusione.

Kent

Erano stati la gestione del ritmo, la costruzione narrativa e, soprattutto, la sensibilità psicologica a farci apprezzare l’esordio di Jennifer Kent, Babadook. All’interno dei meccanismi dell’horror emergeva perfino un certo dolore, tangibile, reale più di qualsiasi uomo nero. Eravamo pronti a scommettere sul secondo film della regista, soprattutto quando le prime indiscrezioni ne parlavano come di un western in salsa revenge-movie. Sulla carta i motivi di fascinazione c’erano tutti: 1820, una giovane irlandese che, in una notte, perde tutto e cerca la sua vendetta. Attraversa la foresta al fianco di una guida aborigena (uno schiavo) che, lentamente, scoprirà essere il suo unico amico. Ma Nightingale è un film che disattende tutte le aspettative, non perché sia alla ricerca di chissà quale libertà autoriale ma, più banalmente, perché non sa assolutamente dove andare. Inoltre – cosa molto più grave - filma stupri ed omicidi con un compiacimento che si avvicina pericolosamente a un certo gusto sadico. Il problema sta proprio nella rappresentazione della violenza che rasenta un'oscenità che mai ci saremmo aspettati dalla regista di Babadook. Pensiamo all’omicidio della neonata, allo stupro della donna di colore, alla prima vendetta con quella lama che squarcia ripetutamente il corpo inanime. La Kent mostra tutto, instancabile, senza alcun senso del ritmo (grave per un film che straborda e supera abbondamente le due ore di durata).

Certo, non cade nel giochino postmoderno dell’ironia a tutti i costi e del grottesco post-tarantiniano, anzi: il film si prende maledettamente sul serio, fino a scivolare precipitosamente verso il ridicolo involontario. Costruisce un insieme di personaggi talmente caricaturali da rivelarsi autoparodie, con i cattivi senza cuore che più cattivi non si può. Tenta la strada del manifesto dalla parte delle minoranze e, tra fiotti di sangue e urla nella notte, inciampa sempre in un manicheismo senza fine. Prova allora il revenge-movie di genere senza avere un’idea di percorso, di vero conflitto (basterebbe un film come il recente Revenge di Coralie Fargeat a farcelo dimenticare: lì non si ha paura di sporcarsi le mani sfidando il verosimile e approdando in territori squisitamente tamarri).

Benissimo puntare oltre, slittare continuamente il momento della vendetta, tradire il climax, ma allora la Kent avrebbe potuto percorrere un’altra strada, cercare un respiro diverso. Invece quando punta sullo smarrimento della sua protagonista, sulla follia e sugli incubi notturni, non riesce nemmeno per un istante a produrre visioni perturbanti, a farci perdere l'orientamento. Assurdo, perché siamo in un film in cui tutti smarriscono le coordinate e si ritrovano a combattere contro i propri demoni. Assistiamo invece a una messa in scena che più bidimensionale non si può: perfino il bosco, regno dell’ignoto e del pericolo, non riesce mai a restituire la sua aurea magica e misteriosa. La foresta è un'immagine, una cornice, è solo un luogo…potrebbe essere un fondale dipinto, perché esiste unicamente come spazio da attraversare e da calpestare.

Alla fine ogni cosa si scioglie nella bella immagine dell'epilogo al mare: il sole è tornato!

Autore: Samuele Sestieri
Pubblicato il 06/09/2018
Australia, 2018
Regia: Jennifer Kent
Durata: 136 minuti

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