Il nuovo episodio della saga Predator è un campo di battaglia tra autore e produzione, un film schizofrenico in cui Shane Black non riesce a tenere unite personalità e necessità di franchise.
Apice produttivo di casa Netflix, la miniserie diretta da Cary Fukunaga manca di profondità e sguardo, quel che resta è un viaggio nell’inconscio di povero di scrittura che spesso sconfina nel banale.
Audiard scommette sull'incursione western e ne esce vincitore, tornando a riflettere sulla violenza all'interno del rapporto tra wilderness e civilization.
Paul Greengrass ricostruisce gli eventi relativi alla strage di Utoya attraverso un cinema-reportage classico e umanista, che guarda alla guarigione singola e collettiva come unico argine contro la barbarie.
L'opera seconda di László Nemes recupera l'architettura formale dell'esordio ma estende il discorso storico, raggiungendo una fenomenale rappresentazione delle forze storiche in azione e dell'avvento della società di massa.
Frederick Wiseman abbandona per un attimo l'indagine etnografica delle grandi strutture sociali per guardare ad una piccola comunità rurale del Midwest, ma la purezza del suo sguardo resta intatta e sempre commovente.
Il western dei fratelli Coen è un parco divertimenti popolato da caricature e utili idioti, un gioco privo d'amore o empatia in cui si mette alla berlina la tragica casualità della condizione umana.
Rick Alverson recupera l'anima più inquietante e sofferta degli anni Cinquanta americani, ma il suo sguardo intrappola il film in una pretenziosità stilistica che lascia soprattutto un senso di inconcludenza.
Manipolando la nostalgia '80's oggi così presente, l'esordiente Phillips confeziona un racconto di formazione che vira all’incubo e non si lascia dimenticare facilmente.