T2 - Trainspotting 2

di Danny Boyle

Boyle torna al suo cult giovanile e ne ricava un pot pourri di nostalgia tossica.

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«I tempi cambiano, noi no»

Sono passati vent’anni. Begbie è ancora dentro, Spud si droga ancora, Sick Boy cerca di arrangiarsi tra il revenge porn, il pub di famiglia e la dipendenza dalla cocaina, Rent, disintossicato, torna a Edimburgo dopo la fuga con le diecimila sterline.
Sono passati vent’anni, undici in più rispetto alle storie raccontate in Porno (libro che chiude la trilogia edimburghese di Irvine Welsh), non c’è più l’umore dell’eroina, non più cucchiai da scaldare e siringhe da riempire. Sono passati vent’anni e la vita si è circondata di specchi, riverberi, ombreggiature, tratti somatici sbiaditi, storie di un tempo andato. Trascorso, nel riflesso della nostalgia.

Il romanticismo di un’epoca passata. Trainspotting, nel 1996, crea una finestra temporale in grado di racchiudere, e cristallizzare, un’intera generazione. Trainspotting parla ai giovani di tre generazioni. A tre anni dal libro di Welsh, Danny Boyle dirige il film che rimane, e rimarrà, un cult per chi quegli anni li ha vissuti, per chi la dipendenza l’ha provata, per chi ha ascoltato quella musica, ma non solo per loro. Un film in grado di dialogare anche con le generazioni future, un inno alla libertà racchiuso in quella fuga finale, quella corsa insieme ascendente (dalla dipendenza) e discendente (nel conformismo) racchiusa nel famoso monologo Choose Life. Cosa può rimanere di Trainspotting venti anni dopo? Una sola parola: la nostalgia. Nostalgia che in T2 – Trainspotting 2 diviene il minimo comune denominatore di una rappresentazione, di uno storytelling in grado di far comunicare il vecchio al nuovo, il film al romanzo, Boyle a Welsh. Nostalgia tradotta in ombre cinetiche e platoniche, di una defunta madre, di un trip vissuto su di una parete, mentre Spud cerca di fare a meno dell’eroina, di un padre ubriacone che in una vecchia stazione della metro non riconosce suo figlio, dandogli del trainspotter. Nostalgia, racchiusa nei racconti dei personaggi che non abbiamo visto; nel figlio oramai grande di Begbie, che non vuole essere come il padre provando ad essere migliore di lui; nella decadenza inesorabile di Sick Boy; nella storia triste di un conformismo malriuscito in un altro Paese, di Rent, che lo ha portato a superare la dipendenza canalizzando l’energia nella fuga; nel disastro famigliare di Spud che per l’ora solare (cos’è un’ora per un tossico!) perde tutta la sua fragile fortuna. Nostalgia di una colonna sonora che non vuole morire, dove bastano cinque note, una intro di Slow Slippy, per far rivivere tra le strade di Edimburgo i fantasmi di un ricordo cinematografico, di quello che è stato e non è più, di una musica diversa, fatta da artisti con altri nomi, in un mondo oramai andato che cannibalizza melodie binarie e semplicistiche. Quello che rimane sono note in sottofondo di un tempo trascorso, Lou Reed non canta più il suo Perfect Day, gli Underworld hanno fatto a meno del NUXX, Iggy Pop se ne è andato lasciando tutto ai Prodigy; note recuperate nelle loro melodiche ombreggiature, remix di qualcosa che prima esisteva e che ora può solamente evocare una struggente nostalgia. Ed ancora, nostalgia di una messa in scena e di una regia che prova a far riverberare le atmosfere precedenti, le stesse acide colorazioni, senza riuscirci, come un impotente che prova con il Viagra, come fa nel film BegBie. Danny Boyle, nonostante cada nel manierismo, non avendo più quell’energia e quella brillantezza incosciente avuta nel primo film, fa quasi tenerezza, manifestando, con onestà, quella grande nostalgia. Boyle non abbandona i suoi personaggi ma li asseconda nella decadenza che si portano dentro, davanti a quella ferrovia lui è lì con loro, è il quarto personaggio mancante, il quarto fiore che appassisce.

T2 è un film scritto bene, un film che si nutre del racconto costruendo una via a doppia corsia tra il precedente film e la trilogia letteraria. Indietreggiando verso il futuro, soltanto costeggiando gli approdi di Porno si rivolge al passato, guardando perlopiù in direzione di Skagboys (che ora sarebbe davvero interessante vedere trasposto) attraverso inserti, narrazioni, fake home movies. T2 recupera le immagini mitografiche di Trainspotting, arrivando a superarlo, con lo sguardo rivolto al passato remoto della storia raccontata. Arrivando alla prima dose condivisa di eroina. All’inizio dell’amicizia. Addirittura il doppio filo della narrazione e della nostalgia struttura le scene che si svolgono nel presente come la scena della battaglia di Boyne, il fake storytelling creato per ottenere i fondi di ristrutturazione del locale in un bordello, la scrittura del romanzo da parte di Spud, dove la pagina scritta che si traduce visivamente in immagini nei ricordi di Begbie, la contestualizzazione storica, e calcistica, degli anni ottanta e novanta sciorinata davanti al mega schermo televisivo domestico.
utta la scrittura drammaturgica si fonda sulla nostalgia. L’unica resistenza al retrocedere nel ricordo e nella malinconia è il Choose Life, che se nel primo film era la colonna portante del messaggio cinematografico enunciato in un ricordo diegetico aprioristico, funzione questa svolta dalla voce over, in T2 diventa enunciazione diegetica da condividere dentro ad un ristorante, simbolo questo di una Edimburgo, e di una società, completamente cambiata. Romanzo e film che non si abbandonano, che si intrecciano fondendosi l’uno con l’altro, arrivando nel finale entrambi al punto di partenza, all’inizio sia del film che del libro attraverso il personaggio di Spud che inizia ad avere le sembianze, letterarie, di Welsh stesso. Una ciclica chiusura che cuce le immagini alla letteratura, dove ciclico è anche il destino dei protagonisti racchiusi in una nuova opportunità ed in una nuova delusione, come appunto espone nel finale Spud, divenuto oramai anch’egli un nostalgico maestro analogico di contraffazione calligrafica. Un destino che racchiude i personaggi dentro ad una stanza, e una sorte, specchiante, inamovibile, destinati ad essere confinati dentro alla propria perenne nostalgia. Come delle foglie morte, che dentro ad un contenitore riflettente di metallo, rilasciano nell’aria solo il ricordo della loro essenza, l’ombra della loro esistenza dentro ad un pot pourri di immagini e musica, altamente onesto e cinematografico.

Autore: Giorgio Sedona
Pubblicato il 26/02/2017

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