A Snake of June
Erotismo metallico, Shin’ya Tsukamoto firma il suo film più conturbante, un freddo e crudele ritorno alla vita.
Piove incessantemente nella anonima metropoli nipponica, dove tutto è freddo e metallico. Un fiume di pioggia che come un serpente trapassa i cunicoli di questo luogo-caos, nelle viscere di un grande mostro che ingloba i suoi prigionieri. Shin’ya Tsukamoto è al suo settimo lungometraggio, è già il maestro del feticismo post-industriale, figlio dei collassi degli Einstürzende Neubauten e delle escrescenze cronenberghiane. A Snake of June è la storia di un triangolo amoroso deviato, del desiderio spasmodico di sentire anche a discapito della vita stessa, di un amore e di una sessualità solipsistica, crudele e violenta.
Rinko è un’operatrice telefonica che assiste chi è affetto da disturbi psichiatrici, sessualmente insoddisfatta da un matrimonio con un uomo molto più grande, Shigehiko, si ritrova a dover obbedire a un misterioso ricattatore.
Il regista giapponese scrive la sua personale storia dell’acqua cyberpunk, dove una schiava d’amore, divisa tra due uomini, si muove nella traiettoria del proprio desiderio, esplode in urla e lacrime di piacere di fronte all’obiettivo di una macchina fotografica, negli spasmi di un corpo a cui il godimento viene finalmente restituito. Ancora ossessioni e dipendenze nel cinema del regista di Tetsuo, che veste i panni del voyeur/stalker Iguchi, l’uomo che possiede le foto dei momenti di autoerotismo di Rinko, demiurgo e burattinaio. Tsukamoto/Iguchi inizia un perverso gioco con la protagonista e con lo spettatore. Tutti scaraventati nell’impeto sensoriale.
La freddezza di una fotografia completamente virata sui toni del blu fa da contrappunto a un’opera enormemente vitale (il suo film successivo si intitolerà Vital) a conferma di quanto questo autore sia così legato alla sensorialità come fine ultimo. Non è solo amore quello di Rinko per Shigehiko, è più un annientamento di se stessa e del suo desiderio, come la scelta di non curare il tumore al seno per paura di rovinare il proprio corpo agli occhi del marito/padrone. E così Iguchi attraverso quel suo gioco depravato riporta alla vita la sessualità della donna: le ordina di masturbarsi nei bagni pubblici, di vestire abiti succinti, di godere. Sempre. Ovunque. Rinko non fa che passare di padrone in padrone, come la O. di Pauline Réage. È quello il suo schermo e guscio per amare.
Il fallo metallico di Tetsuo è qui la macchina fotografica, l’occhio non uccide ma riporta alla vita. In una realtà contaminata e priva di morale, dove ricchi signori guardano spettacoli sadici e perversi per un’erezione, Tsukamoto lotta per la sopravvivenza e mette nelle mani di Iguchi (e se stesso) la possibilità di salvezza di Rinko e della coppia. Il suo cinema estremizza un mondo ormai perduto, lo scaraventa nel futuro, nel metallico, nell’anonimato di persone e luoghi di fatiscenze, prolungamenti, nei corpi dissezionati. Sono uomini a metà quelli del cinema di Shin’ya Tsukamoto, come quelli urlati da Blixa Bargeld nel concerto/performance filmato da un altro pioniere del cyberpunk giapponese, Sogo Ishii. Cercano di sopravvivere coltivando quella pulsione che è l’unica forza a tenerli in vita. Si nutrono di morte in un paradosso continuo che è il cinema di Tsukamoto: genesi e apocalisse.
«Quando penso a una donna, la immagino con un serpente che le vive dentro» ha dichiarato il regista in un’intervista in occasione dell’uscita del film. A Snake of June è fatto di esplicite simbologie che rimandano continuamente al flusso della sessualità e del piacere: l’acqua, nella corrente e nell’annegamento. Nella scena madre del film, quella in cui la protagonista gode con il suo vibratore sotto la pioggia, si trova tutta l’impossibilità di tradurre in immagini l’energia di un orgasmo, il punto sottile della petite mort, e Tsukamoto stesso si prende la responsabilità di catturarlo in una mise en abîme di delirio e tormento. Così l’autore cura le sue creature, le sue macchine svuotate, cercando ossessivamente con il suo cinema di trovare una direzione verso quel fine salvifico che è il sentire, nella sessualità o nell’amore. L’unico collante che possa richiudere certe crepe, non per vivere ma per sopravvivere. Mutilati e avvinghiati in un amplesso dai freddi toni blu.