Ritorno a Seoul
Il fantasma di un'identità sfuggente, la condanna di una generazione: con Davy Chou l'odissea della diaspora orientale al cinema si arricchisce del suo capitolo più maturo.
Da qualche anno, il cinema occidentale sembra cercare nel racconto delle diaspore asiatiche una sorta di Grande Romanzo dell'intero fenomeno migratorio globale. Ritorno a Seoul di Davy Chou è solo l'ultimo tassello di un mosaico ancora incompleto, riflessione condivisa all'insegna di un interrogarsi ossessivo ed emotivamente caricato. La centralità del privato a scapito della Storia ne è il tratto definente: l'esperienza cinese o coreana è profondamente diversa da quella africana o mediorientale, e il suo racconto è quello di una piccola borghesia nevrotica e infelice, per la quale i torti emozionali hanno preso il posto di quelli collettivi. Il cinema di queste "seconde generazioni" è l'autoanalisi di una middle-class annoiata, anedonica, vagabonda nel deserto culturale anglo-occidentale, schiacciata tra la tentazione esotista del ritorno alle origini e la drammatica constatazione di una cesura ormai insanabile con la terra degli avi. È allora quasi ovvio che anche Retour a Seoul come Everything Everywhere All At Once (che di questo trend è solo l'esempio più appariscente) abbia al centro una figura materna: figli occidentalizzati e genitori rifiutanti, mamme e nonne come emanazioni dirette di una patria ancestrale fantasticata ma silenziosa, mistero ostile e insondabile.
Emersa nell'ultimo decennio contestualmente all'affermazione dei primi cineasti millennial (nati negli anni '80 su territori americani o europei, e passati dalla fase di omologazione autoimposta dei genitori a quella della riappropriazione), la filmografia in questione rappresenta il tentativo artistico-industriale di delineare una nuova demografia. Il dramma familiare è il prevedibile palcoscenico atto alla messa in scena di queste dinamiche: dagli ottimi e poco visti Spa Night e The Farewell si è presto approdati all'Oscar-bait da manuale con Minari, passando per una fisiologica integrazione nel blockbuster (Crazy Rich Asians, Turning Red), e una crescente produzione comedy di destinazione digitale e televisiva (valga per tutti il trionfo Netflix di Fresh off the Boat).
Ritorno a Seul farà scuola come una delle prime interpretazioni europee del fenomeno, nonché il film maggiormente consapevole della natura parziale e in divenire di questo percorso. Rivelato il mito biblico del ritorno in patria come passaggio di delusione e spaesamento, quel che resta è un processo anzitutto esistenziale, votato all'integrazione di una nuova, evanescente idea di sé.
In termini visivi, il senso di questo cinema si riassume spesso in un'opera di riunione dei cocci, sintesi difficoltosa tra identità personali che sono anche identità filmiche: lo urlavano sguaiatamente i Daniels nel loro film-tiktok, lo elabora ulteriormente Chou con un occhio ai capolavori europei del bildungsroman emozionale (Pialat il più evidente). Il viaggio a ritroso della protagonista Freddie Benoit (Ji-Min Park), adottata a distanza da una famiglia francese ai tempi della dittatura militare di Chun Doo-hwan, è dunque scandito dall'adozione di nuovi nomi, nuovi volti, nuove vite (All The People I'll Never Be era il titolo originale). Una ricerca che si scontra con silenzio e omissioni, si arena su binari morti, riparte per fermarsi ancora, in un andare disperato che non ha destinazione.
Ritorno a Seul ha la serietà di mettere in discussione l'alter ego protagonista (la non professionista Park, per la quale il franco-cambogiano Chou ha riadattato il copione, interpreta pressoché se stessa), evidenziandone un'ambiguità di fondo antitetica al paternalismo di molte pellicole analoghe. Non piace, Freddie: non piace a se stessa, e non piace neanche ai suoi autori. Non piace l'attitudine di sgraziata superiorità con cui si pone nei confronti del paese d'origine, parodiato nell'inquietante primo segmento con stilemi che arrivano a giocare con il cinema di paura; non piace la maniera in cui conduce la sua missione, rompendo aggressivamente un rapporto umano dopo l'altro (quasi nessun personaggio compare più di una volta nei quattro capitoli temporali che compongono la storia). La sua vita è condannata a una disgiunzione continua con il passato, muovendosi in direzione di un futuro che non si materializza mai. Più che nella sintesi di opposte conflittualità, l'evoluzione sembra passare per il ripetuto e doloroso taglio dell'altro dalla propria equazione esistenziale.
In questo, è il film più amaro e autocritico del filone: ne trova l'essenza nel rifiuto, il suo arco in una sequenza di tappe obbligate e deludenti, da un non-luogo all'altro, da un taglio di capelli al prossimo. In questo insormontabile senso di incompiutezza, carambolando tra le immagini nervosamente e senza gioia, emerge il bisogno trascendente di riconoscersi, alla fine, in una totalità – l'urgenza profonda di tutto questo cinema, e di questi autori.