Bright

Il primo blockbuster di Netflix si muove tra istanze fantastiche e genere poliziesco senza la benchè minima forza per essere ricordato dagli spettatori

Sono passati più di dieci anni da Io sono leggenda e dalla prima collaborazione con Gabriele Muccino, eppure Will Smith sembra continuare a percorrere quegli stessi binari solitari: training corporeo, afflato eroistico e costanti ricerche della felicità. Ma qualcosa è cambiato, questa volta.

Risale appena a Maggio, in occasione del Festival di Cannes, la presa di posizione di Pedro Almodovar contro Netflix e quella di Smith contro il regista spagnolo. In breve, il presidente di giuria riteneva quanto meno bislacca l’idea di inserire in concorso un film che poi non sarebbe andato incontro alla regolare distribuzione in sala. «Ciò non significa che io non sia aperto alle nuove tecnologie o non voglia celebrarne le nuove opportunità, ma finché avrò vita lotterò per difendere la capacità d’ipnosi con cui il grande schermo cattura gli spettatori» sosteneva Almodovar. Dalla parte opposta si situava proprio l’attore afroamericano, per l’occasione in veste di membro della giuria: «Ho dei figli di 16, 18 e 24 anni a casa. Vanno al cinema due volte a settimana e guardano Netflix. (…) A casa mia Netflix non è che un grandissimo beneficio, perché i miei figli guardano lì dei film che altrimenti non avrebbero mai visto». Insomma, immaginario da un lato e totale fruibilità globale dall’altro.

In quell’occasione, la piattaforma di video on demand portava in concorso gli ultimi film di Bong Joon-ho e di Noah Baumbach e preparava, da lì a pochi mesi, l’uscita in pompa magna del suo primo blockbuster, Bright, affidato alla direzione di un regista muscolare come David Ayer e alla scrittura di Max Landis (che su Netflix era già precedentemente sbarcato con Dirk Gently-Agenzia di investigazione olistica).

Come in After Earth, Will Smith è un poliziotto senza paura, o almeno in tal modo viene visto dal collega che lo affianca, ma con una gran voglia di terminare la propria carriera e ritirarsi in casa. In seguito ad un esperimento di integrazione (che la polizia odia dover fare), all’agente Smith viene affidato un poliziotto interpretato da Joel Edgerton. I due se la dovranno vedere con bande ghettizzate, con orde di violenti e con il lato oscuro e corrotto del potere istituzionale, nell’ambito di un contesto crepuscolare in cui ogni moralità sembra ormai perduta. I due poliziotti inizieranno il loro lavoro odiandosi reciprocamente per poi proteggersi a vicenda pur di portare in salvo un misterioso oggetto che funge da perfetto MacGuffin.

Nulla di nuovo sotto il sole? Non proprio. Perchè la Los Angeles in cui si muovono i due protagonisti è popolata da orchi, elfi, fate e nani. I primi sono ghettizzati ed accusati di essere facinorosi da tutte le altre razze, i secondi costituiscono l’élite ricchissima della società e vivono in quartieri di lusso, l’oggetto misterioso che avvia il racconto è una bacchetta magica su cui tutta la città ha messo gli occhi ed il nuovo collega di Will Smith è proprio un orco. A parte lo scenario, i suoi protagonisti e qualche cenno a “miracoli” e “grandi profezie”, David Ayer è poco interessato al fantasy puro. Nemmeno il tema della ghettizzazione razziale è particolarmente approfondito (come in District 9, ad esempio), eccetto che nel pretestuoso primo atto. Bright presenta tutte le funzioni di un’ipotetica convivenza tra il fantasy ed il genere metropolitano per eccellenza, il poliziesco tradizionale, all’interno di una gabbia che lo circonda fino a costringerlo.

Perchè, nonostante quest’incursione riveli la possibilità di utilizzare il fantastico come un elemento dell’architettura narrativa strettamente connesso all’evoluzione caratteriale dei suoi personaggi, allo stesso tempo, il film si dimostra totalmente incapace di metterlo al servizio di una propria autonoma mitologia. I limiti del progetto si notano e rendono il film manchevole di una vera personalità, in grado di fondere diverse influenze stilistiche ma mai di shakerarle a dovere. Temi come la promiscuità della vita in strada e la corruzione del potere politico sono talmente privi di verve da non trovare posto nella mente dello spettatore.

Netflix esulta per lo straordinario risultato economico procurato da Bright, tanto da ufficializzarne il sequel. Desta qualche preoccupazione il monologo finale di Smith che ricapitola ad un elfo (o, piuttosto, agli spettatori?) quanto avvenuto lungo l’intero arco del film. Bright è un cinema da fast food che ha nel consumo immediato la forza del proprio baricentro. Ma superare di slancio la tradizionale filiera distributiva non vuol dire comprimere sempre più i tempi dei consumatori attraverso la creazione di un prodotto che azzera le possibilità di una pur minima riflessione. Speriamo che si tratti semplicemente di una tendenza isolata.

Autore: Matteo Marescalco
Pubblicato il 02/02/2018

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