The Birth of a Nation - Il risveglio di un popolo

Il film di Parker vorrebbe essere un gesto politico atto a riscrivere la rappresentazione mitica del proprio paese, ma manca del respiro e della forza necessari ad appropriarsi di un immaginario.

The Birth of a Nation - Il risveglio di un popolo è un film che possiamo ascrivere a quella particolare categoria di opere rilevanti per tema, ambizioni, contesto, ma di certo non per un effettivo merito cinematografico. Quello di Nate Parker è infatti un lavoro che si colloca, tra furbizia e consapevolezza estrema, al centro della questione razziale che da almeno un anno è tornata di primo piano nelle cronache sociali e culturali degli Stati Uniti.

Del resto, puntuale come solo il mercato sa essere, il cinema americano sta reagendo alle accuse di razzismo dando spazio (produttivo, festivaliero, mediatico) ad un nuovo sguardo black, intento a raccontare realtà più o meno interne alle recenti recrudescenze di una problematica vecchia quanto l’America.

The Birth Of A Nation, fin dal titolo ripreso in pieno contrasto da Griffith, si nutre delle più recenti tensioni e proteste politiche, ma storicizza la questione calando il tutto nel Sud schiavista di metà Ottocento, un territorio scomodo che fino ad anni recenti il cinema americano aveva tendenzialmente ignorato. Attorno a quest’aspetto controverso e rinnegato, eliso dall’immaginario ma ancora così presente e importante al giorno d’oggi, ruota un vero e proprio problema di rappresentazione, immagini mancanti di un passato macchiato da violenza parossistica, sadica, spesso sommaria.

The Birth of a Nation è allora il segno di una conquista necessaria, un gesto politico atto a riscrivere la rappresentazione mitica del proprio paese a partire dalle sue origini. Tuttavia è proprio da questa prospettiva di urgenza auto-rappresentativa che il film sembra mancare il proprio obiettivo, una volontà che mal si coniuga con la scelta di condurre la sfida sul piano dell’adesione mimetica rovesciata di segno. Nate Parker rispetta fedelmente i codici hollywoodiani del film storico in bilico tra damma ed epica, guarda più a Mel Gibson che a Steve McQueen - aderendo alla formula fatta di invadenza retorica, fascinazione per la violenza e incursioni oniriche - ma non ne ha il respiro e la forza cinematografica. The Birth of a Nation si limita alla rinuncia di ogni rielaborazione, evitando di intaccare la tradizione con uno sguardo che possa farsi personale, inedito.

Il risultato è un racconto posticcio e artefatto nella gestione del suo materiale drammatico, molto controverso e sicuramente suscettibile ad analisi più approfondite. La superficialità domina invece il linguaggio di Parker, nonostante la cornice storica impeccabile e uno sguardo impietoso nei confronti della violenza.

A non convincere è proprio l’impianto messianico così ricercato, un ruolo che Parker cerca di costruire (per sé) senza però riuscirci. Se quest’opera nasce dalla necessità di appropriarsi del proprio racconto storico da parte di un regista afroamericano, se si propone di riscrivere il mito fondante di un paese nato sulla violenza, dov’è lo sguardo altro di cui si fa portavoce? Perché accontentarsi della mimesi speculare allo spettacolo hollywoodiano, senza cercare di appropriarsi anche del tessuto formale del racconto? L’esito raggiunto da Parker delude perché non si fa riscrittura del classico ma ripresentazione presuntuosa e scolastica, seguendo un approccio che nel lungo periodo poco o nulla può incidere a livello di immaginario. Se 12 anni schiavo resta un film estetizzante, invadente rispetto alla materia trattata, The Birth of a Nation cerca un’elevazione poetica senza avere il respiro e il coraggio sufficienti per farlo.

Autore: Matteo Berardini
Pubblicato il 28/10/2016

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