Memoria

di Apichatpong Weerasethakul

Weerasethakul riconfigura l'esperienza percettiva cinematografica facendo slittare lo specifico filmico dalla dimensione ottica a quella uditiva: il risultato è l'incontro sensoriale con gli strati abissali della memoria.

Memoria - recensione film weerasethakul

Jacques Aumont in qualche modo (Que reste-t-il du cinéma?) aveva messo in avviso i teorici del cinema: da quando il digitale ha permesso di interrompere il flusso di movimento delle immagini e di fermarle in punti inattesi e assolutamente non calcolati, l’immagine cinematografica si è rivelata disponibile a ibridarsi in maniera imprevista, attestando una parziale estraneità rispetto alla testimonianza diretta del tempo e soprattutto un allineamento al più allargato linguaggio dell’orizzonte audiovisivo, ontologicamente disinteressato alla resa pura della durata. Non sono molti i registi che hanno messo in forma questa consapevolezza di fine millennio, e contestualmente cercato di riconfermare l’immagine cinematografica come un punto di discontinuità (un punto di crisi) nel flusso sempre più atemporale prodotto da tutte le altre immagini. Apichatpong Weerasethakul è uno di questi registi interessati a riscattare l’esperienza cinematografica dal potenziale destino di anestetizzazione innescato dai morbidi e avvolgenti impulsi mediali, e Memoria corrisponde al suo ultimo sforzo in questa direzione - uno sforzo, tra l'altro, giocato per la prima volta su un palcoscenico globale.
Si tratta di un film che opera una ricucitura certosina dello scollamento tra immagine cinematografica ed esperienza del tempo provocato dall’ibridazione incontrollata con l’immagine digitale (nello specifico con l’immagine-pausa, l’immagine fermata nel mezzo del suo flusso temporale), attraverso la riconfigurazione dello specifico filmico come appannaggio non più della dimensione ottica ma di quella uditiva: in Memoria la traduzione del tempo da fenomeno invisibile a esperienza sensoriale percepibile 
è assegnata a un suono più che a un’immagine, in un totale ribaltamento dei rapporti di forza convenzionali - niente meglio di un suono può infatti riprogrammare l’esperienza cinematografica del tempo, visto che, a differenza delle immagini, nessun suono può essere fermato a metà, messo in pausa, interrotto, senza essere anche terminato (il suono in questo senso è la più pura testimonianza della durata, come intuivano Elsaesser e Hagener nella loro percettologia cinematografica).

Weerasethakul non fa però ruotare intorno a un suono solo i postulati teorici ma anche la narrazione – Jessica (Tilda Swinton), una coltivatrice di orchidee in visita alla sorella malata a Bogotà, è ripetutamente spaventata da un suono terrorizzante che rimbomba nella sua testa – e la figurazione. Nel suo film, infatti, il suono non è più istanziato come protesi descrittiva di un’immagine autonoma, ma è invece rivendicato, rivelato come una virtualità sommersa, una temporalità sotterranea che l’immagine deve portare a emersione. Le immagini non sono pensate come frammenti autonomi, ma come suoni portati a figura, figurazioni sonore o sonorità figurative legate insieme da un’organizzazione a spartito e quindi scansionate in un ritmo finalizzato alla strutturazione di un organo percettivo complesso ed espanso, aperto alla compromissione sensoriale: un occhio in grado di sentire, o un orecchio in grado di vedere. Solo questo organo espanso e percettivamente disinibito può ricondurre a un equilibrio significativo l’asimmetria tra l’incredibile ricchezza sonora e l’inversamente proporzionale semplicità figurativa (minimali motivi orizzontali e diagonali in un’alternanza molto controllata), generata dal lento sprofondamento di una già residuale scatola prospettica in un paesaggio naturale senza centro e senza regole – è questo l’assetto formale con cui le inquadrature di Memoria riproducono la tendenza allo sfogo rizomatico con cui i contenuti mediali circondano gli spettatori contemporanei.

memoria rece film

Lo sprofondamento non è casuale, ma consapevolmente riprodotto quadro per quadro da Weeraesethakul per disorientare la prospettiva sensoriale strettamente ottica, e così certificarne l’inutilità nei contesti contemporanei: nulla può più l’occhio, sembra sostenere il regista thailandese, di fronte all’implosione architetturale a cui va incontro l’audiovisivo sempre più fermentato da immagini batteriche in grado di espandersi e riprodursi a piacimento. La traduzione in una forma esperibile, vivibile, conoscibile della multiformità audiovisuale che investe quotidianamente la vista è solo appannaggio di un cinema (e di un organo) prospetticamente disorientato e sensorialmente espanso, un cinema in grado di rovesciare la grossa quantità di dati in sottile qualità esperienziale, ma soprattutto in grado di riprogrammare gli inarrestabili effetti temporali della moltiplicazione di immagini del presente - l’assenza di coscienza storica sofferta dall’orizzonte audiovisivo contemporaneo (è ormai pervasivo il presentismo, quella forma di legittimazione del presente come condizione necessaria e naturale) - in forme di consapevolezza utili a leggere contropelo le immagini e individuarle come ultimi superfici di abissali stratificazioni che si allungano verso il fondo della storia. Memoria offre al cinema, da questo punto di vista, una contromisura coscienziale contro il suo progressivo e inconsapevole allineamento ai più ingenui linguaggi audiovisivi.

Anche la storia di Jessica si evolve narrativamente in questa direzione di consapevolezza archeologica: inizialmente interessata a spingere la propria ricerca sui fiori fuori dalle costrizioni del tempo – una scena apparentemente irrilevante ai fini narrativi la vede alla ricerca di un’incubatrice in grado di sospendere il decorso biologico della flora (“qui il tempo si ferma”) –, e poi costretta alla ricerca dell’origine di quel suono che infesta la sua scatola cranica, la donna scende nell’entroterra della foresta colombiana, fino all’incontro con la personificazione della memoria del mondo. È solo dopo questo incontro commosso che la donna ascolta per la prima volta quel suono proveniente dall’antico passato della terra senza subirlo in senso passivo, facendosi invece “antenna” per esso, canale catalitico della sua espressione; è in quel momento di riconciliazione con l’impossibilità di separarsi dal tempo che Jessica impara a vedere per la prima volta, attraverso un suono, il corpo fisico del tempo nascosto come scheletro sotto le maglie strette della realtà. Il cinema per Weerasethakul si può stagliare nella complessa indistinzione dell’orizzonte audiovisivo allo stesso modo del corpo di Jessica: come un momento di vertiginosa verticalità (anche autoriale) che cerca il proprio punto di fuga nel profondo senso sonoro della durata, come un’antenna capace di sensibilizzare la virtualità carsica del tempo in forme di esperienza fisica che investono la totalità organica del corpo e lo riorientano al futuro. 

Autore: Leonardo Strano
Pubblicato il 17/08/2022
Colombia, Francia, Thailandia, 2022
Durata: 136 minuti

Articoli correlati

Ultimi della categoria