Sul Vulcano

Dalle pendici del Vesuvio fin dentro al duomo di Napoli, il documentario di Pannone ci racconta di una popolazione fedele ai suoi santi sotto un vulcano paterno, protettivo e spietato.

Come il sangue di San Gennaro, solve et coagula, formula alchemica che racchiude nel suo concetto la trasmutazione della materia da stato a stato, che sottolinea e rinfranca nel miracolo la fede di tutto il popolo napoletano. Come un magma che fuoriesce, incendia e distrugge nel suo stato lavico per poi condensarsi nella solidità della pietra, nel magma rappreso, solido e nero.

Gianfranco Pannone, dopo essere stato veicolatore documentale della città che l’ha visto crescere come uomo di cinema, attraverso i suoi lavori romani (L’America a Roma, Ebrei a Roma solo per citarne due) e, dopo che la sua oggettiva macchina da presa si è posata sul terreno a sud dell’Agro Pontino, indagato nelle sue contraddizioni nucleari (Scorie in libertà), o sulle nuove destre de Latina/Littoria; la sua venticinquennale filmografia appunta un nuovo lavoro, Sul Vulcano, tornando alle pendici del suo paese d’origine: Napoli.

Come un padre collerico e protettivo, carico delle disgrazie e dei peccati dei suoi figli, il Vesuvio, nei secoli passati è esploso (ben 18 volte dal 1600 al 1944), ha sommerso e distrutto interi paesi e frazioni. Pannone ci racconta le storie degli abitanti delle sue pendici, storie moderne che si intersecano con i ricordi di storie passate, dei tempi dell’ultima eruzione, attraverso intarsi di immagini di repertorio (cifra stilistica e narrativa del regista presente in molti suoi lavori, basti pensare al documentario di montaggio di materiale d’archivio Ma che storia...). Sulle pendici del vulcano hanno costruito e speculato, gettato cemento ed alzato scheletri di edifici dinanzi al Vesuvio, mentre alle loro spalle li osservava, silente e spietato. Il regista ci porta sulla bocca del vulcano, riprendendo le lunghe camminate turistiche sul suo cratere, per poi portarci giù, vicino al mare, dove la terra continua a possedere il colore scuro del calore fuso, dove vivono persone che lo rispettano, temendone la furia esplosiva pliniana. Un vulcano mitico, fonte d’ispirazione di molti artisti che attraverso i loro lavori, ed in diverse epoche, lo hanno ammirato e raccontato, da Curzio Malaparte al marchese De Sade, da Giacomo Leopardi a Norman Lewis, da Fabrizia Ramondino a Giordano Bruno, da Matilde Serao a Sándo Márai fino ad arrivare ad Immanuel Kant. Scrittori, poeti, artisti e filosofi che hanno osservato il Vesuvio lasciando nei loro scritti lo spazio necessario nel quale inserire le loro suggestioni. «Questi campi cosparsi di ceneri infeconde, e ricoperti dell’impietrata lava, che sotto i passi al peregrin risona; dove s’annida e si contorce al sole la serpe, e dove al noto cavernoso covil torna il coniglio; fur liete ville e colti, e biondeggiàr di spiche, e risonaro di muggito d’armenti; fur giardini e palagi, agli ozi de’ potenti gradito ospizio; e fur città famose che coi torrenti suoi l’altero monte dall’ignea bocca fulminando oppresse con gli abitanti insieme». In questo modo si esprime Leopardi nella sua opera La ginestra. Pannone recupera tutto questo materiale letterario e lo fa declamare sopra immagini storiche e vedute moderne, attuali quanto un pittore che con la terra scura del vulcano dipinge su una tela l’emozione raggelante e meravigliosa di un’eruzione feroce. O come la struggente voce di una ragazza che canta la voce del popolo di fronte alla madonna che protegge e difende una popolazione legata dalla fede, per San Sebastiano o per San Gennaro, ed intanto è stretta intorno al vulcano che allo stesso tempo difende, germina e distrugge. Il regista ci presenta una Napoli legata alle sue leggende, ai suoi ricordi, alle sue credenze popolari, una popolazione magmatica, trasmutante quanto il sangue del Santo, distrutta nei secoli passati dalla devastazione di quell’angelo (sterminatore) alto milleduecento metri ma capace, comunque, di tornare e ricostruire, sullo stesso suolo, sotto lo stesso angelo, sopra le stesse macerie. Un documentario seducente ed evocativo, sotto certi versi diverso rispetto ai suoi lavori passati, meno oggettivo e più suggestivo, un discorso intorno alle pendici, tra la terra nera o tra le fumarole vicine alla sua bocca, mantenendo il Vesuvio come epicentro tematico intorno al quale raccontare l’indole ed il temperamento della sua popolazione. «Imparano lentamente e dimenticano con grande rapidità. Li tengo d’occhio, adesso credono che io dorma e si sono fatti di nuovo insolenti, ammiccano, si mettono a studiare i miei segreti, fanno gli spacconi dicendo che anche loro sono capaci di produrre esplosioni più violente e rumorose delle mie» (da Il sangue di San Gennaro di Sándor Márai).

Autore: Giorgio Sedona
Pubblicato il 15/11/2014

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