Intervista a Gianfranco Pannone

Scorie in libertà e Ebrei a Roma, un lavoro uscito da qualche settimana che sta girando le sale d’Italia ed un altro di cui è vicinissimo l’Evento Speciale di presentazione (giovedì 15 novembre ore 20.30, Sala 1 del cinema Barberini) all’interno del programma del Festival Internazionale del Film di Roma. Un documentario sulle sorti del nucleare in Italia, sulle deviazioni di questo paese e sulle sue endemiche incapacità di guardare oltre un palmo dal proprio naso, sulla provincia di Latina e – grazie alla profonda capacità autoriale – di fare di un piccolo borgo pontino l’emblema di ciò che eravamo e ciò che siamo divenuti. Un altro sulla seconda comunità ebraica più antica del mondo dopo quella di Gerusalemme. Gianfranco Pannone ci racconta dei suoi lavori, del documentario in Italia, del suo punto di vista sul nuovo Festival di Roma.

Point Blank come rivista da sempre segue con attenzione ed interesse le sorti del documentario italiano: in quest’ottica il suo lavoro Scorie in libertà può rappresentare il lampante esempio del fatto che il documentario può essere una forma di fruizione ampia, conquistando a pieno titolo la sala?

Con questo film ho cercato, più che in altri miei film documentari di far coniugare due cose, e cioè lo sguardo d’autore con la necessità di fare del cinema civile attraverso la forma del documentario; che ci sia riuscito o meno non sta a me dirlo però questo è stato il tentativo. Questo passa anche attraverso l’ambizione di rivolgersi ad un pubblico più esteso.

A volte noi documentaristi, autori del documentario – ossia non la parte televisiva – ce la cantiamo e ce la suoniamo da soli, il problema è che in questo frangente storico, in questo momento politico, se crediamo realmente in un cinema che si impegni civilmente, dobbiamo un po’ sporcarci le mani, che significa sostanzialmente cercare di trovare delle forme di comunicazione che non siano immediatamente semplici – a tal proposito, io pur ammirandolo non amo particolarmente Michael Moore, che ci conduce per mano in un cinema a tesi dove tutto è già detto – però l’idea di comunicare con un numero di spettatori più vasto significa cercare delle forme di narrazione che non siano troppo complesse. Credo in questo momento nella necessità e nella possibilità di coniugare un documentario che sia contemporaneamente d’autore e popolare.

Guardando un lavoro come Scorie in libertà, che tratta da vicino le dinamiche della discussione sul nucleare in Italia, sorge un dubbio: non sarebbe stato più d’impatto approdare in sala nel momento in cui il dibattito sul nucleare era ben più presente nel quotidiano di questo paese?

Non mi è stato possibile, non perché io o la produzione non lo volessimo. È successo semplicemente questo: il film documentario ha avuto una gestazione di 3 anni; quando è arrivato l’accordo Berlusconi-Sarkozy sulle centrali nucleari in Italia, malgrado il referendum del 1987 – questo non bisogna mai dimenticarlo – ci siamo messi all’opera per realizzare questo lavoro, il problema è che il suddetto accordo è stato talmente pesante dal punto di vista dell’interesse dei due paesi, che sono stato abbandonato dal produttore francese che in quel momento non poteva più intervenire, ma sono venute meno anche alcune istituzioni pubbliche italiane e perfino gli investimenti dei privati. Al momento dell’accordo politico sul nucleare tra l’Italia e la Francia tutti in Italia – non solo a destra ma anche a sinistra – hanno cominciato a credere nel nucleare come forma di business, motivo che rendeva Scorie in libertà estremamente scomodo, tant’è che ho dovuto interrompere le riprese per mancanza di fondi. Cosa è successo poi? È arrivata Fukushima (disastro nucleare che ha colpito la centrale di Fukushima Dai-ichi in seguito al violento terremoto del 2011, ndr). In quel momento mi sono detto che era impossibile buttare via il progetto ed il lavoro di due anni ed ho ripreso a girare, anche sulle onde del referendum che poi è andato come sappiamo.

Il punto è che sono perfettamente d’accordo: il film sarebbe dovuto uscire ben prima, durante il dibattito che ha preceduto il referendum, magari fosse stato così. Nonostante tutto credo però che il film sia ancora molto attuale, non parlando solo di scorie nucleari ma anche di scorie morali ed etiche; parliamo di un paese in cui la storia del nucleare è emblema della sua schizofrenia.

Il discorso non sposta poi di un centimetro quel che riguarda la qualità del lavoro, il punto è che l’impatto di questo documentario avrebbe potuto – forse – essere più elevato visto che il momento storico di cui parliamo non è distante, anzi.

Ahimè hai ragione, anche se ribadisco che ancora oggi ha una sua profonda validità. Ad esempio porterò il film a Taranto, dove il discorso di servitù è forte altrettanto, non si tratta di scorie ma di altro tipo di servitù, rappresentato dall’acciaieria.

A tal proposito, continuando sul discorso che ci ha portato a parlare dell’Ilva, ci sono dei film che hanno affrontato la questione (La svolta – Donne contro l’Ilva, ad esempio) che sono lì a dimostrarci come il documentario sia divenuto oggi anche una forma di cronaca necessaria se non indispensabile, visto la qualità dell’informazione che regna oggi in Italia.

Certo. La nostra informazione – eccezion fatta per Milena Gabanelli ed il suo Report e qualche altro esempio – non è che ci offra un panorama di grande libertà. I film documentari, mantenendo la loro valenza artistica, in alcuni casi aggiungono oggi elementi che l’informazione canonica non sempre offre.

La nave dolce di Vicari è un altro esempio in questo senso.

Assolutamente sì. Tratta di una storia che – Gianni Amelio escluso (con il suo Lamerica, ndr) – non è stata più raccontata. La nave dolce è un film importante perché racconta una storia di cui ci siamo voluti dimenticare: ci siamo dimenticati dei nostri emigranti ed ancor più ci siamo dimenticati di storie di immigrazione anche abbastanza recenti.

Andrea Segre (Mare chiuso, Ka drita?, Come un uomo sulla terra) è un altro esempio di documentarista molto attento ai temi civili, quello dell’immigrazione in particolar modo.

Ho visto Andrea crescere professionalmente, e sono molto fiero di lui. Il suo lungometraggio d’esordio nel cinema di finzione Io sono Li è un’opera molto importante, e come documentarista ha dato moltissimo in questi anni. Lui è uno che ha lavorato moltissimo sull’impatto dei suoi lavori; d’altro canto se ti trovi in luoghi, così detti, di guerra non puoi permetterti ciò che si fa in tempi o luoghi di pace, è ovvio che lo sguardo debba farsi meno estetico e più immediato. Andrea Segre ha fatto un lavoro straordinario.

Tornando ai suoi lavori, una cosa che affascina particolarmente di Scorie in libertà è la capacità di raccontare il collettivo partendo dallo specifico, l’insieme partendo dal dettaglio. Lo scatolone e la supposta (soprannomi dati agli edifici della centrale nucleare, ndr) sono luoghi legati alla provincia di Latina, che sembrano raccontare attraverso le deviazioni e le storture di questo paese, ciò che eravamo e ciò che siamo diventati.

Lì c’è tutta la storia della banda del Super 8 che è una storia reale, cioè al tempo stesso in quegli anni mi muovevo ancora tra Roma e Latina e iniziavo a girare le prime cose seguendo il mito di Nanni Moretti e facevo politica attiva. Poi arrivarono gli anni ottanta e mi concentrai sulla battaglia ambientalista, lì il nucleare era la battaglia numero uno e regnava quest’atmosfera post-sessantasettina di non prendersi troppo sul serio, ed è in questo frangente che sono nati appellativi curiosi, ironici, figli proprio di quell’ironia nata come reazione alla disperazione di quegli anni.

Borgo Sabotino come Springfield, sembrerebbe.

È un paragone che nel documentario utilizzo, a Borgo Sabotino ci sono casette di nuova costruzione a 500/600 metri dalla centrale, vendute al 30 per cento in meno rispetto ad altre, chissà perché. Nella Springfield dei cartoni animati ci sono i pesci deformi così come a Latina ci sono i pesci e le piante deformi, un’incidenza di tumori alla tiroide molto più alta di qualsiasi altro luogo. Ma negli Stati Uniti, pur con i suoi difetti, certe cose si possono comunque dire grazie al cinema indipendente e alla produzione indipendente, da noi non sempre è così, non a caso Scorie in libertà è un film indipendente: mi sono potuto permettere di dire determinate cose probabilmente proprio perché ho perso un certo tipo di produttori, questa è stata paradossalmente la fortuna del film.

Alla distribuzione è subentrata poi la Kimera.

Sì, Kimera distribuisce il film insieme ad Arci Ucca. Sono molto contento di questa collaborazione, fatta con ragazzi sotto i trenta anni che si stanno muovendo molto bene; il film girerà quasi in tutta l’Italia.

Ebrei a Roma, il suo ultimo lavoro, verrà presentato come Evento Speciale nel corso della settima edizione del Festival Internazionale del Film di Roma, giovedì 15 novembre. Edizione del Festival che rappresenta un punto di rottura con il passato?

Intorno a Marco Müller c’è stata molta polemica, io lo ritengo un uomo di assoluto valore. Intorno al Festival di Roma ci sono dei movimenti politici che non ci piacciono, ci sono ora come c’erano con Veltroni sindaco. Il festival, purtroppo, nasce politico, ma può diventare una kermesse importante perché ospiterà un mercato e perché ha a capo un signore che si chiama Marco Müller che, senza nulla togliere alla precedente direzione, ha un’esperienza internazionale che non ha eguali eccezion fatta per Barbera.

Detto ciò ho l’onore di essere ospitato nell’Evento Speciale di presentazione di Ebrei a Roma, film documentario che ho realizzato con il patrocinio della comunità ebraica, che fotografa la straordinaria comunità ebraica di Roma. Straordinaria perché la più antica del mondo dopo quella di Gerusalemme; senza voler dare giudizi racconto tre distinte generazioni di questa comunità, straordinariamente viva anche culturalmente, c’è il Festival del cinema ebraico, quello della letteratura, insomma si tratta di una comunità estremamente vivace che ho voluto raccontare.

Autore: Marco Giacinti
Pubblicato il 03/11/2014

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