Most Beautiful Island / Intervista ad Ana Asensio
Incontriamo la regista e attrice spagnola Ana Asensio, nelle sale con l’esordio Most Beautiful Island. L’intervista è a cura di Arianna Pagliara.
Most Beautiful Island è il tuo esordio come sceneggiatrice e regista dopo una lunga esperienza come attrice. Come nasce l’idea di questo cambio di prospettive, come è stato passare dall’altro lato della macchina da presa?
Circa otto anni fa ho deciso che avrei voluto avere un ruolo più attivo nella mia carriera di attrice e così ho iniziato a produrre i miei lavori in teatro. Questa esperienza è stata molto gratificante e mi ha fatto realizzare che volevo continuare ad espandere la mia creatività assumendo nuovi ruoli. Ho sempre amato i film e volevo dirigerne uno, così ho scritto la sceneggiatura ed è iniziato il lungo percorso per cercare di capire come arrivare effettivamente alla produzione.
La protagonista è una donna spagnola che si è trasferita a New York in cerca di nuove opportunità lavorative: il nucleo narrativo del film sembra quindi originarsi dal tuo percorso biografico. Fino a che punto il contesto descritto rispecchia la realtà di cui hai fatto esperienza?
Ho tratto ispirazione da un periodo della mia vita a New York durante il quale il mio visto studentesco stava per diventare un visto lavorativo, e ci è voluto molto tempo. La città per me era del tutto nuova, non avevo molto amici e avevo già finito i miei risparmi. Ho iniziato a esibirmi grazie ad annunci sui giornali, vivevo giorno per giorno, senza sapere con sicurezza quanto a lungo sarei rimasta in città. Il mio sponsor era una agenzia di moda, così ho potuto conoscere molte giovani modelle provenienti da tutte le parti del mondo che vivevano in circostanze simili alla mie. In Most Beautiful Island non ho voluto raccontare solo la mia storia personale, ma una storia che potesse rappresentare tutte queste donne. Tuttavia una parte consistente della sceneggiatura è fiction.
Uno dei punti di forza del film è l’equilibrio, non scontato, tra le esigenze del thriller/noir (suspense, tensione, mistero) e quelle della riflessione di stampo sociologico. Quali sono i registi a cui ti senti più affine, o quelli che in un certo senso hanno costituito un punto di riferimento nell’arco della realizzazione del film?
Ammiro i registi che sono in grado di fare film con un tono di realismo sociale, film che appaiono spontanei e diretti ma che non di meno scavano a fondo nella complessità dei personaggi. Tra i registi contemporanei ho studiato i lavori dei fratelli Dardenne, di Andrea Arnold, di Christian Mungiu, di Asghar Farhadi, ma ho anche tratto ispirazione da classici come Cassavetes, Lynch, Kieslowski o Polanski.
Molti registi esordienti oggi prediligono il digitale per la sua versatilità, agilità, economicità. Tu hai preferito invece girare in 16 mm, come mai questa scelta?
Volevo riprodurre il look dei film americani degli anni ‘70 che mostravano una certa New York, brutale e pericolosa.
Il tuo film d’esordio è stato selezionato e premiato in diversi festival di rilievo internazionale; per il futuro pensi già a nuove esperienze come regista?
Ho lavorato a una nuova sceneggiatura e spero di poter dirigere presto il mio scendo film.