RendezVous 2014 / Pour une femme

Diane Kurys continua l’autobiografia della sua famiglia in forma di cinema di finzione con un altro capitolo di quella che lei stessa non esita a definire col termine “avventura” (iniziata, nel 1983, con Coup de foudre). Il suo ultimo film, ancora inedito in Italia e passato alla IV edizione del festival Rendez-vous del Nuovo Cinema Francese, è a tutti gli effetti una specie di grande romanzo socio-popolare, con in testa la chiara intenzione di mescolare pubblico e privato, facendo dialogare la storia mitologica del passato dei propri genitori e l’eco che gli eventi occorsi in quegli anni hanno esercitato su di loro e sul loro vissuto. Il risultato è quella tipologia classica di film medio calmierato ma non para-televisivo che il cinema di casa nostra può legittimamente invidiare ai cugini transalpini. Non esiste, infatti, un cinema italiano capace di portare avanti il racconto romanzesco senza una spiccata matrice autoriale ma al contempo evitando di degenerare nella sciatteria totale di messa in scena, recitazione e ricostruzione. Non c’è, non può esserci per ragioni quasi fisiologiche e, si sa, è un problema solo e soltanto industriale. Il film della Kurys invece in un territorio di maniera ci sguazza con una buona dose di sicurezza ed eleganza, lasciandosi guidare da un trio d’attori nel quale due vertici sono rappresentati da un paio d’interpreti dall’assoluto carisma: quel Benoît Magimel il cui sguardo gelido, dai tempi de La pianista di Michael Haneke, non abbiamo più imparato a dimenticare e l’incantevole Mélanie Thierry vista e apprezzata nell’ultimo film di Terry Gilliam The Zero Theorem. I due sono Michel e Léna, una coppia di coniugi nella Lione del 1947 (città della quale la regista è per altro originaria), la cui vita sarà completamente stravolta dall’arrivo di Jean, fratello di Michel che egli stesso credeva morto.

In Pour une femme rivivono varie cose: gli anni ’50 della Storia della politica mondiale, i balli in comitiva, il sapore del cinema innocuo e borghese, quello che parte dalla scoperta di alcune foto e ricordi familiari da parte delle figlie ormai adulte dei protagonisti, secondo un meccanismo di partenza condiviso con I ponti di Madison County e con molta letteratura. Quello della Kurys è dunque un cinema affettivo attaccato al ninnolo, all’antiquariato lacrimoso della rievocazione, un fotoromanzo che trae buona parte della sua forza proprio dalla diluizione narrativa del triangolotinto di passione. Un film in cui il peso erotico dei rapporti umani si tinge di una proporzionale rilevanza politica stando però ben attento a non spingersi su terreni troppo avventati, non alla portata di un discorso generale comunque piuttosto tradizionale e rassicurante. In film così, buoni per le signore della domenica pomeriggio ma allo stesso tempo gustosamente liberatori nel loro essere popolari, il cinema non cambia la Storia e non mira a riedificarla da zero ma al massimo può esserne un controcanto nostalgico o ironico (“Diciamogli che i russi sono tornati a Berlino e hanno ricostruito il muro, così muore contento”). Il titolo, da questo punto di vista, appare abbastanza indicativo: il doppio senso che gli sta alle spalle è relativo alla lotta per una donna tra due fratelli ma anche a profumo femminile che ritorna in un paio di scene, regalato da Michel a Léna: da un film che prende il nome da un’essenza non ci si può in fondo aspettare molto altro, se non che sia disposto a farsi assaporare anche fugacemente e senza lasciare tracce poi troppo memorabili.

Autore: Davide Eustach…
Pubblicato il 09/10/2014

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